XX secolo
Le Biennali e la politica

rondò
veneziano

Il rapporto della Biennale di Venezia con la politica inizia con la sua istituzione, a fine Ottocento. E procede di pari passo con la storia del paese e le evoluzioni del sistema politico italiano: uno specchio dei rapporti di forza tra potere e mondo delle arti, tra scontri frontali e docili giri di valzer.

Cristina Beltrami

l'Esposizione internazionale d’arte di Venezia viene immaginata a tavolino in un ufficio di Ca’ Farsetti, sede del Municipio, che ne resta per anni la sede operativa. La mostra nasce dunque nel 1895 per precisa volontà della politica locale, ponendosi come prima finalità l’aggiornamento - e implicitamente la promozione - degli artisti veneziani, disagiati rispetto ai grandi assi dell’arte europea. La Biennale, nel suo ruolo di vetrina, intraprende dunque fin da subito una politica protezionista rispetto all’arte locale - presentata accanto a nomi consacrati - anche quando questa non ne ha la statura, attirandosi così aspre critiche, sia dagli esclusi sia da chi si sente sminuito da certi accostamenti. Nel 1914, secondo un noto cliché ottocentesco, il dissenso dei “refusés” prende la forma di una vera mostra alternativa, quando «un gruppo di giovani che esprimono tendenze diverse […] si sono affratellati in un’azione di protesta contro la Giuria delle mostre internazionali» (“Pagine d’Arte”, 30 maggio 1914) esponendo le proprie opere negli spazi dell’hotel Excelsior del Lido. Dopo poche settimane sarebbe scoppiata la prima guerra mondiale, mentre l’XI Biennale dedicava un’ampia personale a Ivan Meštrovic´ , con un’intera sala occupata dal tempio dei martiri del Kosovo. Attraverso un’attenta regia nella scelta e nella disposizione dei pezzi, l’establishment veneziano rinsaldava il mito dello scultore dalmata, un artista umile e autodidatta, capace di un linguaggio autonomo e fortemente radicato alla storia del suo popolo. Meštrovic´ assecondava un nazionalismo serpeggiante nell’Italia impegnata nella campagna di Tripoli, nonché in un’Europa che si stava trasformando in una polveriera. La scelta espositiva della Biennale va letta come un gesto programmatico: senza arrivare ai proclami interventisti urlati dai futuristi, la mostra sussurrava l’indipendenza dei popoli, da difendere sino al sacrificio ultimo della guerra. Il primo conflitto mondiale è l’evento di cesura col secolo precedente: un passaggio che tocca anche le sorti del padiglione russo, inaugurato proprio nell’estate del 1914 come “Casa d’arte” dell’Accademia imperiale di Pietroburgo, con centoventuno opere delle quali si perdono le tracce dopo il sequestro dell’edificio. La controversia legale si conclude solo dieci anni più tardi quando, all’edizione del 1924 e nel generale imbarazzo della politica italiana, il padiglione riapre montando in facciata la scritta URSS mentre una bandiera rossa con falce e martello sventola sul tetto.
Anche il clima politico italiano è mutato e il catalogo illustrato della XIV Biennale si apre con il Ritratto di Mussolini realizzato da Adolfo Wildt, avviando un ventennio in cui la politica del regime avrebbe avuto un controllo serrato sulle scelte della mostra.
Dal 1928 Antonio Maraini diviene il segretario generale della manifestazione, e nel 1930 la riforma in ente autonomo, ponendola sotto il diretto controllo politico e finanziario del ministero romano. Nel catalogo del 1930 Maraini annuncia che «ora deve cominciare l’opera ricostruttrice di queste generazioni dalle quali l’Italia attende il suggello, nell’arte, della sua rinata grandezza». Il regime aveva precocemente compreso come il controllo della cultura fosse un potente alleato nel fondamento della mitologia fascista e, nel 1934, le immagini che immortalano Adolf Hitler in visita alla Biennale a fianco di Mussolini fanno il giro del mondo.
Con l’entrata in guerra le mostre non si fermano ma divengono lo specchio di un’arte di regime, uno strumento di retorica, e agli artisti non allineati non resta che riparare in soggetti “di fuga”, come nature morte o paesaggi. Lo stesso Maraini, nel catalogo del 1942, si domanda «Perché gli artisti […] si rifugiano in un mondo completamente avulso dalle vicende cui pure essi stessi partecipano?». Nell’immediato dopoguerra Venezia è una delle città in più rapida ripresa; sia perché meno bombardata di altre, sia perché forte di una classe politica e industriale che punta su un rilancio economico e culturale.
La Biennale del 1948 è lo specchio di questa effervescenza: da un lato le mostre personali dei padri fondatori del linguaggio artistico italiano - Carlo Carrà, Felice Casorati, Marino Marini e Giorgio Morandi - e dall’altro la collezione di Peggy Guggenheim nel padiglione della Grecia. Scelta coraggiosa, sia da parte del curatore, Rodolfo Pallucchini, che della ricca ereditiera che si sarebbe trovata di fronte un pubblico plausibilmente curioso ma in buona parte ancora distante da proposte astratte. Quando nel 1956 Peggy pubblica la sua autobiografia ricorda come, nel 1948, in occasione della visita ufficiale al padiglione, il presidente Luigi Einaudi a un certo punto le avesse chiesto: «Dove sono i quadri?».

Si era aperta però la strada non solo a un nuovo linguaggio artistico ma anche al mercato statunitense che nel 1964 sarebbe stato tacciato di avere monopolizzato il sistema della Biennale. Il premio alla pittura, assegnato a Robert Rauschenberg alla XXXII Biennale, venne accolto come la prova di un colonialismo culturale americano nonché di una sfacciata operazione commerciale gestita da Leo Castelli, che al contempo aveva organizzato una mostra di Rauschenberg negli spazi dell’ex consolato americano a San Gregorio. Si era ormai innescato un meccanismo pressoché congenito alla manifestazione stessa: la protesta.
Quattro anni più tardi gli operai delle fabbriche di Marghera manifestano, le università sono occupate dagli studenti e la Biennale è travolta dal vento del cambiamento. Una foto immortala l’apertura dell’edizione del 1968 con un giovane Emilio Vedova, ormai consacrato dal premio del 1960, che si agita di fronte al padiglione degli Stati Uniti. Allo slogan «Biennale dei padroni bruceremo i tuoi padiglioni» alcuni artisti, di diversa provenienza, voltano i loro quadri verso il muro e impediscono l’apertura della mostra storica dedicata al futurismo, ancora avvertito come un movimento politicamente schierato.

Con i suoi centoventi anni di vita la Biennale ha inevitabilmente incrociato i binari del potere, talvolta assecondandolo e altre contestandolo, divenendo uno specchio fedele di cambiamenti epocali.


la personale di Ivan Meštrovic´ alla XI Biennale di Venezia in una foto del 1914.

Inaugurazione del padiglione Guggenheim alla Biennale del 1948: si riconoscono il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, Rodolfo Pallucchini, Peggy Guggenheim e Guido Gonella, ministro della Pubblica istruzione.

il ministro della Pubblica istruzione Luigi Gui si congratula con Robert Rauschenberg di fronte a Stop Gap (1963) in una foto pubblicata da “Il Gazzettino” del 21 giugno 1964.

il ministro della Pubblica istruzione Luigi Gui si congratula con Robert Rauschenberg di fronte a Stop Gap (1963) in una foto pubblicata da “Il Gazzettino” del 21 giugno 1964.

ART E DOSSIER N. 323
ART E DOSSIER N. 323
LUGLIO-AGOSTO 2015
In questo numero: UN'ESTATE D'ARTE Le mostre da non perdere da Roma a Pompei, da Milano a Firenze e a Parigi; Le biennali più politiche e l'Expo più bella; L'arte della ceramica: Delft vs Cina. IN MOSTRA Rops/Fabre, Gormley, Lachapelle, Arts & Foods, Le Corbusier, Pompei, Piero di Cosimo.Direttore: Philippe Daverio