UNA INTRINSECA
“DEBOLEZZA”

Ritornando ai nostri due alfieri, Millet e Courbet, non è che si impicciassero molto di filosofia, o comunque di ideologia, cui in particolare il primo risultò sempre del tutto riluttante, ma della necessità di prestare attenzione agli ultimi della terra, sì, di questo se ne intendevano, per diretta esperienza, e a questa causa rivolsero tutto il loro talento.

Ma con una specie di divisione delle parti, che fu anche la causa di una diversa fortuna nelle loro rispettive carriere, e soprattutto nell’accoglienza che erano destinati a ricevere. Millet ricorreva a soluzioni che, con un termine oggi diventato di moda, potremmo definire “deboli”, mentre l’altro avocò a sé un ruolo “forte”, robusto, aggressivo, che gli procurò l’apprezzamento dei vari militanti delle sinistre, da cui fu animata, seppure in vari modi e gradi, la seconda metà dell’Ottocento. Una distinzione del genere vale subito per caratterizzare le eredità che toccarono a ciascuno dei due. Quella di Courbet avveniva chiaramente nel segno dei suoi caratteri “forti”, espliciti. Lo si scorge anche nelle sue opzioni a ritroso nei secoli, per cui egli si rivolse ai sacri maestri di un Seicento imbevuto di caravaggismo, se non proprio al Merisi in persona, perlomeno a un pronto erede come Velázquez.

Ma soprattutto l’ardente neofita del realismo si rivolse verso l’Olanda, da lui visitata, pronto a fare tesoro della lezione di un Frans Hals, o dello stesso Rembrandt. Ne ricavò un composto robusto, aggressivo, di cui si abbeverarono i nascenti impressionisti, Manet, Degas, Monet, anche per la larghezza di dimensioni e di luoghi in cui si esplicava l’attività courbettiana, che sapeva farsi valere sia nei grandi quadri di figure, còlti in interni, sia per le strade, e nel cuore di paesaggi, indifferentemente di terra o di mare, quest’ultimo affrontato, a preferenza, nei momenti agitati e tempestosi. Millet invece, a conferma della sua opzione per una linea “debole”, andò a resuscitare i fantasmi di una tradizione francese leggera, aggraziata, avente come capostipite addirittura Jean-Antoine Watteau, e poi continuata da François Boucher, anche se, beninteso, compito primario del nostro artista era di operare il capovolgimento, trasportando quelle minute scenette dai campi elisi della nobiltà verso il basso di scene quotidiane, anzi, di più, miserevoli, ma pur sempre immerse in atmosfere morbide. Non per niente i suoi studiosi gli attribuiscono un primo tempo “fiorito”, col che si deve intendere proprio questa attitudine a un fare chiaroscurato, perfino languido, assolutamente estraneo ai modi del rivale.

Vincent van Gogh, Il seminatore (1888); Otterlo, Kröller-Müller Museum.


Madame J.F. Millet (Pauline-Virginie Ono) (1841); Boston, Museum of Fine Arts.

Caratteri che dunque lo condannavano a essere messo da parte, quando la linea vincente, progressiva, appariva consistere nella marcia, quasi trionfale, che dal realismo courbettiano portava alle imprese più risolute e straordinarie degli impressionisti. E non è neppure da trascurare una ripresa in forze che il realismo di Courbet ha potuto conoscere, un secolo dopo, nel secondo dopoguerra del Novecento, quando il realismo si è fregiato di un “neo” di rilancio, approfittando anche di un recupero storiografico del culto dedicato al Caravaggio e agli altri realisti del Seicento. Ma, se Millet non ha recato contributi decisivi all’imporsi dell’impressionismo, non possiamo dimenticare che la “fin-desiècle” ha visto impallidire quel primato, e venire contestato da movimenti che in qualche misura hanno fatto della “debolezza” una bandiera di combattimento, anche nel nome di un misticismo, di un volontario collocarsi tra terra e cielo.

Sulla ribalta degli onori è salito, anche se non subito, ma solo a posteriori, il genio controverso di Vincent van Gogh, che del brutalismo di Courbet non sapeva proprio che farsene, mentre ebbe una fase del tutto ispirata ai ritmi morbidi, soffusi di misticismo, propri di quel suo antenato, che tentò di reintrodurre. E non fu certo l’unico a muoversi in quel senso, ma potremmo aggiungere subito una pattuglia nostrana, con Giovanni Segantini al primo posto, ma con qualche accento da sorprendere anche in Gaetano Previati, e in Giuseppe Pellizza, se non altro per la mirabile parata del “quarto stato” avanzante in solenne processione, da lui concepita, come se i contadini di Millet fossero stati chiamati a raccolta, invitati a non disperdersi più nella solitudine dei campi, e a ritrovare invece un incedere solidale, calmo ma nello stesso tempo gravido di uno spirito di muta rivolta.


Il seminatore (1851); New York, Metropolitan Museum of Art.

Si aggiunga che perfino il divisionismo, nella versione più tremula del nostro Vittore Grubicy, o nei filamenti lunghi ed elastici di Previati, potrebbe essere stato anticipato quanto meno dai pastelli del francese, che sgranano i corpi e li rendono porosi. Insomma, tra i due francesi moschettieri del realismo è esistita una sorta di spartizione di pesi e misure, quando l’uno era in auge, l’altro si ritraeva, come luna calante, salvo a emergere a una svolta successiva. Del resto, anche per Millet c’è stata una risorgenza nel Novecento, se si pensa all’uso che Salvador Dalí ha saputo fare del capolavoro del francese relativo al tema dell’Angelus da cui l’artista spagnolo ha saputo trarre tutti i possibili sottofondi mistici e perfino psicoanalitici.

Ma, dopo questa cavalcata nella storia delle epoche e degli stili, rientriamo in un più analitico cabotaggio ritagliato sul percorso di Millet: che si apre, per circa un ventennio, con un’attività “minore” di ritrattista, nella sua natia Grucy, in Normandia. Gli studiosi ci spiegano che allora un artista di provincia, non baciato dal successo, poteva trovare solo una qualche committenza, dalla borghesia o dalla piccola nobiltà del luogo, nel genere del ritratto, e infatti egli ce ne dà un’ampia messe, non meno di una cinquantina, su cui però forse non vale la pena di insistere.


Giovanni Segantini, La raccolta del fieno (1889); St. Moritz, Segantini Museum.

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato (1898-1901); Milano, Museo del Novecento.


Salvador Dalí, Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet (1934 circa); St. Petersburg (Florida), Dalí Museum.

In genere posano i familiari, i fratelli, la moglie Pauline-Virginie Ono, che però scompare presto, e nasce allora una relazione con una contadina, Catherine Lemaire, che il nostro esita a lungo prima di sposare, impedito da veti familiari, anche se ne ha un gran numero di figli, secondo la legge del tempo che imponeva alle donne l’obbligo di una numerosa procreazione, come rimedio a una insidiosa mortalità infantile. Ovviamente ciascuno dei figli posa a sua volta per l’immancabile ritratto. Casomai, vale la pena di soffermarsi su certi dipinti che giustificano quel curioso attributo di “fiorito” che gli venne dato, e che infatti sono eseguiti con una fattura morbida, spumosa, come si può vedere in Una giovane che suona il liuto, Chapel Hill, Ackland Art Museum, University of North Carolina, e più ancora in una Donna alla finestra, Art Institute of Chicago. Comunque, il giovane manifesta presto il talento di cui è dotato, e così la comunità rurale trova il modo di dargli una borsa di studio per fare gli studi a Parigi, dove giunge nei primi anni Quaranta, salvo poi a ritirargli quel contributo costringendolo a ritornare al paese. Ma finalmente si affaccia la tematica realista, ispirata proprio a quel lungo poema del lavoro agricolo che sarà il tema dominante, e il garante del suo successo.

Un Ritorno dai campi, del 1846, Cleveland Museum of Art, si pone proprio a metà strada tra la fase fiorita e quella successiva, che bandirà ogni preziosismo per affrontare da vicino la dura realtà. Qui il contadino spinge davanti a sé una carriola, da cui trasbordano dei corpi femminili espansi, con biancore di carni, orlate da una fascia di soffici tenebre che quasi le accarezzano.


Donna alla finestra (1844-1845); Chicago, Art Institute of Chicago.


Una giovane che suona il liuto (1843-1845); Chapel Hill (North Carolina), Ackland Art Museum, University of North Carolina.

Come se al momento l’artista non osasse ancora uscir fuori all’aperto, “en plein air”, e trattenesse le sue povere creature nei loro miseri abituri, in cui però le ombre risultano perfino confortanti. Non si deve trascurare l’abbinamento, sempre perseguito dal nostro artista, tra i dipinti e invece i disegni a matita, e in genere studi, abbozzi, e anche versioni calcografiche. Trovato un tema, egli gli dedica abbondanti dossier, sperimentati con ogni possibile tecnica, e anche le realizzazioni più complete a olio prevedono repliche, rifacimenti. Si veda per esempio, nel filone dei disegni, Pastorella in riposo, 1849, Cambridge, Fitzwilliam Museum, dove la figura ha già osato avventurarsi all’aperto, ma coprendosi il capo con un esorbitante cappuccio, quasi per mettere un residuo riparo tra sé e un ambiente avvertito come ostile, e per la stessa ragione la ragazza, già postasi sotto la protezione dell’ampio cappuccio, si affida pure a un bastone e più ancora si appoggia a un fusto d’albero. Qui e in seguito va confermato che la fattura del disegno, condotto a risoluti fendenti e con un tratteggio reso poroso e discontinuo dalla granulosità della carta, fa pensare a un esito di specie divisionista tentato prima del tempo, il che del resto rientra in pieno nella strategia di attenuazione, di ammorbidimento dei contorni, da cui è contrassegnata tutta l’attività del nostro artista, ancora una volta in netto contrasto col fare più risoluto cui invece ama darsi il rivale Courbet.


Ritorno dai campi (1846); Cleveland (Ohio), Cleveland Museum of Art.


Pastorella in riposo (1849); Cambridge, Fitzwilliam Museum.

Ma in definitiva anche gli eroi dell’epopea millettiana a un certo momento prendono coraggio, escono allo scoperto, come si vede da un altro disegno, Gli spaccalegna, 1848, Oxford, Ashmolean Musem, affrettandosi però a cercare dei contrappesi, per esempio l’apertura delle gambe a compasso per radicarle al suolo, o il sollevare la mazza in alto, sulla testa, cercando di stabilire con essa un equilibrio dinamico.

A sottolineare ancora una volta la differenza di percorso tra i due artisti, vale la pena notare che il più famoso Spaccapietre di Courbet, anch’esso dato in più di una versione, mena i suoi colpi non sul tenero, e in definitiva quasi domestico ciocco di legno, bensì su dure, appuntite selci di strada, cosa impensabile, da parte di Millet, in cui ogni sforzo umano è rivolto ad aggredire, o forse meglio ad accarezzare l’“humus”, la buona terra agricola.

Gustave Courbet, Spaccapietre (1849); già a Dresda, distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Gli Spaccapietre, nelle loro varie versioni, sono quasi un manifesto del realismo di Courbet, profondamente diverso da quello rappresentato da Millet. Nell’opera di Courbet il lavoro del povero manovale è duro, muscolare, aggressivo, pare quasi di udirne i colpi contro il selciato, di vedere le scintille che sprizzano dallo scontro. E il contesto potrebbe essere benissimo quello di una via urbana, o comunque lontano, estraneo all’ampio abbraccio della natura, che invece ospita e protegge i gesti morbidi, dolci, compassati compiuti dai contadini millettiani, che per nessuna ragione al mondo vorrebbero lasciare i campi per avventurarsi nei dedali urbani, ritenuti infidi e malsani.


Spaccalegna (1848); Oxford, Ashmolean Museum.

MILLET
MILLET
Renato Barilli
Jean-François Millet (Gréville-Hague 1814 - Barbizon 1875) è figlio della Normandia contadina, ciononostante riesce a unire il lavoro dei campi allo studio e all’apprendimento della pittura. Trascorre qualche tempo a Parigi, poi torna in provincia. Con un gruppo di artisti crea quella che sarà la scuola di Barbizon (dal nome del paese in cui si stabilirono, nell’Île de France), un sodalizio dedito a una pittura che assumeva programmaticamente la natura come unico motivo di ispirazione. Millet diventa il cantore della vita dei campi, della fatica dei contadini, degli armenti al pascolo, della poesia disadorna della vita semplice che si svolge lontano dai centri urbani, con uno stile essenziale e pieno di forza, concentrato su archetipi senza tempo.