Ecco per esempio in tale ambito un tema dei più tipici e celebri, Il seminatore, 1850, Boston, Museum of Fine Arts, in cui la figura campeggia nel vuoto, da attore esclusivo, anche se non si è ancora sbarazzato del tutto da un accompagnamento del suolo, cui non manca di rivolgere la sua azione, con gesto ampio, quasi ad abbracciare in circolo il terreno circostante. Inoltre, per ribadire che sarebbe vano voler attribuire una qualche individualità a una apparizione destinata a rimanere anonima, il volto è coperto, quasi nascosto da un ampio berretto. Da notare anche i grossolani calzettoni, col loro motivo a “barre” orizzontali, quasi per consentire un minimo di rilievo al personaggio umano, così come si segnalerebbe un qualche sbarramento nel traffico. Sia ben chiaro che non sempre i protagonisti di questo universo di miseria e sofferenza sono chiamati in scena a giganteggiare uno per volta. In altri casi l’artista ne evoca una folla, purché ognuno dei componenti resti immerso in una prevalente anonimia, racchiuso entro un profilo ovoidale, oblungo, che si reitera monotono per ogni membro di quel consorzio. Del resto non risultano troppo dissimili gli altri esseri viventi che spesso vengono associati, le pecore soprattutto, anch’esse concepite come dei teneri fagotti, come esistenze ferme a uno stadio di sviluppo anteriore a quello degli umani (Il pasto dei mietitori, Boston, Museum of Fine Arts).
L’ORA
DEI CAPOLAVORI
Ma infine veniamo ai momenti in cui l’artista è del tutto pronto ad affrontare da vicino, quasi in un corpo a corpo, gli umili ma eroici protagonisti della sua epopea.
Frattanto, per riprendere a svolgere il tema generale del realismo, conviene ricordare che a Parigi Millet entra in contatto coi membri della Scuola di Barbizon, Théodore Rousseau, Daubigny, Diaz, Troyon, suppergiù suoi coetanei, da cui viene quasi adottato, fino a condividerne la sorte, così da preferire di andare a vivere nei loro luoghi, abbandonando Parigi. Decisione non priva di qualche contraddizione interna, perché sappiamo bene che quella squadra di adepti ai riti di Barbizon hanno privilegiato soprattutto il paesaggio, un tema che invece è stato affrontato meno di frequente dal nostro artista. Ne vedremo però alcuni esempi straordinari sul finire della sua carriera, ma tali da risultare più per via negativa, come patetica esclusione dell’essere vivente, umano o animale, chiamato ad abbandonare la scena.
Naturalmente, volendo continuare a declinare il rosario delle differenze tra i due alfieri del realismo francese, a Courbet si devono attribuire i meriti di una risoluta militanza. Nel 1855, in risposta alle esclusioni di cui lui è vittima, come del resto l’amico-avversario, negli inviti a entrare negli ingessati Salons, ne istituisce uno autonomo, e per intero dedicato proprio al realismo. Gli è di conforto l’appoggio di critici d’arte che frattanto sono scesi in campo in aperta difesa del nuovo “ismo”, Louis-Émile-Edmond Duranty, Champfleury.
Queste vedute di Rousseau e di Daubigny attestano molto bene l’appartenenza di Millet alla Scuola di Barbizon, ma nello stesso tempo indicano pure il suo diverso modo di parteciparvi. I due tipici esponenti di quella scuola sono prima di tutto dei paesaggisti, e dunque il protagonista umano esce quasi di scena, o si staglia lontano sull’orizzonte, mentre al contrario nelle opere del nostro artista la presenza umana non viene mai meno, anche se sempre in armonia col contesto.
Ma è ora di affrontare i capolavori indiscussi del talento millettiano, come Le spigolatrici, 1857, Parigi, Musée d’Orsay. Il tema è al plurale perché è avvenuta una specie di clonazione: dall’individuo singolo, da un’unica figura ne sono nate tre per quanto del tutto simili, come fosse già una striscia fotografica degna di un Muybridge o di un Bragaglia. Naturalmente le figure, del tutto simili nell’abbigliamento, sono accomunate anche dai copricapi che escludono la possibilità di imporre un qualche individualismo. Altro tratto centrale e degno di nota, l’atteggiamento recline, che ovviamente risulta dettato dalla bisogna, dal doversi chinare per recuperare i miseri avanzi della mietitura, ma che diviene anche come una confessione, una patetica accettazione di uno stato di sottomissione. Beninteso i partigiani di una supremazia da assegnare a Courbet ne approfittano per farci notare che i suoi eroi, anche se contadini, non piegano certo il capo, anzi, lo erigono, orgogliosi del loro stesso destino.
E dunque, in un secolo che si vanta di organizzare, con le varie forme di socialismo, e in prima linea col marxismo, la rivolta, anzi la rivoluzione dei membri del quarto stato, il nostro Millet sembra invece emettere un messaggio di rassegnata sottomissione, come se le sue contadine fossero in chiesa, o comunque vittime della predicazione religiosa che invita alla modestia, al rimettersi alla provvidenza. Come del resto è comprovato da un capolavoro assoluto del nostro pittore L'Angelus, 1857-1859, Parigi, Musée d’Orsay, dove compare la coppia, e in questo caso ce la fanno a alzarsi in verticale, ma i volti sono pur sempre chinati in giù, come richiesto da un atto di preghiera, o comunque da un cedimento, da un rimettersi a una forza più alta, che è anche una rinuncia da parte dell’umanità di assumere nelle proprie mani il destino, di fare da sé. Ricompaiono anche le tenebre del periodo “fiorito” ad attenuare ulteriormente quell’ergersi delle presenze umane. Si aggiunga pure che qui e tante altre volte in seguito, e forse proprio per trascinarsi dietro gli effetti “fioriti”, di ammorbidimento delle scene, l’artista si vale del controluce. Infatti per attenuare ulteriormente il loro gesto di innalzamento in verticale, che non sembri peccare d’orgoglio, i due essere umani sono avvolti nell’ombra, che investe anche i rispettivi strumenti di lavoro, il forcone di lui, la carriola di lei. E l’effetto chiaroscurale si diffonde a ripetizione, rende ondoso tutto il territorio circostante, a perdita d’occhio, il che è un altro modo per attenuare, per far rientrare nella gleba il tentativo di emergere da parte di Adamo ed Eva. Se in questo e in altri dipinti si celebra una sorta di messa all’aperto. resta escluso il momento dell’elevazione.
Frattanto va aumentando la divaricazione tra i due primi della classe nella scuola del romanticismo. Si potrebbe dire che Courbet è un topo di città, arrivato a Parigi, non la abbandona più, e ne vive le ansie, gli stimoli, le tematiche, a cominciare dall’ambito politico, da autentico “engagé” in tipiche tendenze di sinistra avanti lettera, pronto a partecipare alle barricate del Quarantotto, come poi saprà farsi “comunardo” nell’episodio di massima violenza e insorgenza quale sarà appunto la Comune del Settanta, fino a farsi promotore, non è ben chiaro in quale veste e misura, dell’abbattimento di un simbolo dell’“ancien régime” quale la Colonna Vendôme, per cui, quando ci sarà la reazione delle forze dell’ordine e il ritorno al potere della borghesia, il pittore barricadiero verrà messo sotto processo, costretto a pagare di tasca propria, fino a rovinarsi, le spese per il rifacimento di quell’augusto quanto retorico monumento, e infine si vedrà costretto ad andarsene in esilio in Svizzera, dove troverà la morte. Nulla del genere per il suo contrario, il topo di campagna, anche se pure lui non si è mai tirato indietro rispetto a un atteggiamento da dirsi genericamente di sinistra, cui lo obbligava il fatto stesso di essersi eretto a rappresentante primario del quarto stato, della turba oppressa e avvilita dei lavoratori dei campi. Dal canto suo, in vicinanza delle acque mosse del Settanta, egli fu pronto a lasciare la capitale per rifugiarsi nella confortevole colonia di Barbizon. La distanza tra i due appare soprattutto per quanto riguarda i temi della presenza femminile e della vita sessuale.
Opera celeberrima,
in cui si esprime tutto
il gusto courbettiano
per la provocazione
contro la morale
corrente,
senza alcun riparo
dai falsi pudori.
Nulla di simile poteva
provenire dal casto
mondo di Millet.
Il topo di città non ha remore in proposito, diviene il cantore di donne di facili costumi, appartenenti al “demi-monde”, a un passo dalla prostituzione, magari indifferenti a stringere perfino rapporti omosessuali tra loro, quasi per vendicarsi degli affronti che erano costrette a subire da parte della violenta clientela maschile. E beninteso tra i ferri del mestiere c’era pure l’obbligo di essere alla moda, anzi, di indossare vesti sgargianti, provocanti, capaci di far intendere subito anche ai ciechi la loro stessa professione. Su questa via, Courbet giunge a mettere a nudo nella misura più integrale la presenza della donna, cogliendola nel momento fatale in cui dal ventre sgorga una nuova creatura, il che giustamente viene intitolato L’origine del mondo.
Nulla di simile, ovviamente, da parte del topo di campagna, nel suo mondo le donne devono nascondere gli attributi della loro femminilità, come si è visto, sotto ampi cappucci, o vesti abbondanti, straripanti, che ne celano ogni possibile sex appeal. Ci possono essere delle tangenti tra i due percorsi, ma non si sa se consapevoli o fortuite. Millet, per esempio, ci dà Un pastore che indica la strada a dei viandanti, dopo il 1860 circa, Washington, National Gallery of Art, che sembra quasi la trascrizione di un dipinto ben più celebre, del compagno-oppositore, quel Bonjour Monsieur Courbet, dove le figure se ne stanno erette, baldanzose, mentre nella versione millettiana ci appaiono, al solito, deboli, emaciate, raggiunte da ombre che ne attenuano le forme, e quasi disperse, annegate in una enorme prateria che in qualche modo le assorbe, le spegne.
Per tanta coerenza e insistenza sui valori di questo universo delle fatiche agricole il nostro rischia senza dubbio una certa monotonia e obbliga anche un commentatore a reiterare all’infinito il vocabolario da usare. Ci sono, per così dire, soltanto delle varianti quantitative, come succede nel caso dei Due zappatori, anticipati da una serie di disegni e bozzetti, infine affidati alla tela (1855, University of Minnesota, Tweed Museum of Art). Naturalmente, vietato ai due alzare il corpo, la comune bisogna li obbliga a chinarsi, quasi avvinti dalla dura gleba che li attira a sé, anche se il loro compito è di dissodarla, di aprirla con le lunghe vanghe. E se nelle esecuzioni grafiche i loro gesti si sgranano, sulla tela vengono avvolti in una tenebra provvidenziale e riparatrice, quasi consolatoria, che d’altra parte conferisce ai corpi un rilievo quasi monumentale. Ecco quindi un ulteriore anticipo, verso quella “fin-de-siècle” che sarà pronta a ereditare una simile elegia della fatica corporale. Si può pensare a una qualche nuda e robusta scultura di Constantin Meunier. Però, altra volta l’artista non manca di investire questi suoi due attori di una luce cruda che ne segue il motivo delle vanghe fino al momento in cui riescono a intaccare la superficie delle dure zolle (Boston, Museum of Fine Arts).
Se si vuole andare a cogliere un ennesimo tratto distintivo, tra il nostro e l’antagonista Courbet, si può gettare uno sguardo verso le rare occasioni in cui anche il primo si affaccia su una distesa marina. Per Courbet, le visioni di mare rientrano nel profilo di robusto maschilismo che gli è proprio, ovvero le onde ruggiscono, schiumano, selvagge, abrasive. Nella versione del suo rivale, invece, il mare si distende, come si trattasse di uno stagno tranquillo e pacioso, non molto dissimile dalle piane sconfinate del lavoro nei campi, e i contadini, divenuti per un momento pescatori, vi si avventurano, non certo per imprese titaniche ma per una semplice raccolta di crostacei, di aragoste nella fattispecie (Pescatori di aragoste che gettano le loro reti, effetto notte, matita, Musée du Louvre). Ancora una volta, per continuare a giocare di di opposizione, i notturni non sembrano essere amati da Courbet, che preferisce una violenta e frontale illuminazione diurna, mentre questo regno di tenebre, ma non violente, bensì dolci, avvolgenti, ancora una volta proietta in avanti Millet verso effetti analoghi che saprà cogliere, per esempio, un Wisthler, anche se la sua attività di instancabile giramondo, che dunque va a sorprendere i suoi notturni non solo sulla Senna, ma a Venezia o addirittura nel Cile, è del tutto vietato al nostro “topo di campagna”, cui è concessa solo la possibilità di ispirarsi ai crepuscoli, alle oscurità che si diffondono sui suoi poveri e limitati paesaggi.
MILLET
Renato Barilli
Jean-François Millet (Gréville-Hague 1814 - Barbizon 1875) è figlio della Normandia contadina, ciononostante riesce a unire il lavoro dei campi allo studio e all’apprendimento della pittura. Trascorre qualche tempo a Parigi, poi torna in provincia. Con un gruppo di artisti crea quella che sarà la scuola di Barbizon (dal nome del paese in cui si stabilirono, nell’Île de France), un sodalizio dedito a una pittura che assumeva programmaticamente la natura come unico motivo di ispirazione. Millet diventa il cantore della vita dei campi, della fatica dei contadini, degli armenti al pascolo, della poesia disadorna della vita semplice che si svolge lontano dai centri urbani, con uno stile essenziale e pieno di forza, concentrato su archetipi senza tempo.