Grandi mostre. 2 
Hans Memling a Roma

classico
nordico

La rassegna romana dedicata ad Hans Memling dimostra, con irreprensibile rigore scientifico, l’attrazione suscitata dal pittore tedesco di formazione fiamminga sul mondo artistico italiano del XV secolo. Committenti prestigiosi come i Portinari, i Tani, i Baroncelli, i Pagagnotti trovarono in lui il perfetto interprete del ruolo di collegamento fra la pittura nordica e la tradizione italiana.

Massimiliano Caretto

come se Dio reggesse in mano una sfera di cristallo e ne osservasse il contenuto. All’interno della sfera c’è il mondo nel momento in cui Dio stesso vi entra dentro e ne diviene spartiacque, chiave di volta e punto focale. La visione è simultanea, propria di colui che è prima del tempo, immutabile, perfetto, “Essere in eterno presente”. La scena è un flusso di visioni, una concatenata all’altra, dove i protagonisti di ciascun episodio non si accorgono di quelli del successivo, in un caos che è tale solo per chi agisce nella scena: dentro Gerusalemme, vista dall’alto, il Cristo re salva l’universo nell’arco di tempo che va dalla notte del Getsemani all’alba della Resurrezione. I committenti dell’opera giacciono in ginocchio a cornice dell’evento, immobili spettatori della visione spirituale e parte stessa di ciò che Dio vede. È la Passione di Cristo di Hans Memling, bandiera ideale della grande mostra Memling. Rinascimento fiammingo, allestita alle Scuderie del Quirinale. Qualora ci fossero dubbi in merito, l’esposizione è qualcosa di epocale, solenne, imponente per opere presenti e impeccabile per impostazione. Da sottolineare innanzitutto il merito di aver affidato la curatela scientifica a Till-Holger Borchert, attuale direttore del Groeningemuseum di Bruges, uomo simbolo degli studi memlinghiani da sempre, che ha saputo imporre prontamente un taglio critico di rara onestà intellettuale nell’affrontare l’influenza dell’arte fiamminga in Italia. Quello di Memling, infatti, è un caso emblematico del rapporto che ci fu lungo tutto il XV secolo tra l’arte fiamminga e il mondo artistico italiano, sia per quanto riguarda i pittori sia per quanto riguarda i committenti. Spiegare con chiarezza tale rapporto non è facile e, fin dai tempi di Roberto Longhi, la lettura critica del feno meno è stata vittima di un ipotetico “agone” tra l’arte italiana e la cosiddetta “pittura ponentina”, chiamando in causa proprio l’autore che più di tutti ebbe implicazioni col mondo italiano, Memling.

Al pathos violento del Compianto sul Cristo morto di Van der Weyden
si contrappone il ritmo spaziale solenne e quieto
del Trittico di Adriaan Reins di Memling



Per capire la situazione, la mostra cala il visitatore nell’Europa del Quattrocento, puntando i riflettori su quella globalizzazione “ante litteram” che fu il filo conduttore dei rapporti tra Italia e Fiandra, due ricchezze speculari e, non a caso, due culle della pittura occidentale. Il plurale è d’obbligo, perché la grande stagione dei primitivi fiamminghi non fu succube né tantomeno inferiore per risultati alla coeva situazione italiana. Chiara, allora, la scelta di raccogliere in mostra quante più committenze italiane possibili, che furono molte e molto importanti. L’arte di Hans Memling(Seligenstadt 1435/1440 - Bruges 1494) rappresenta un’ideale pietra miliare nella storia delle committenze italiane ad artisti fiamminghi; committenti che, dagli Arnolfini di Van Eyck in poi, avevano riposto nel possesso di opere d’arte nordica l’affermazione della loro ricchezza, del loro potere e della loro caratura internazionale. Tani, Baroncelli, Portinari sono solo alcuni dei nomi di coloro che trovarono in Memling ciò che era perfetto per le loro esigenze. Cosa, dunque, lo rendeva così attraente per quel mondo? Lo spiega bene il confronto col suo probabile maestro, Rogier van der Weyden, di cui campeggia in mostra il celebre Compianto sul Cristo morto, opera intrisa di raffinato arcaismo, tesa verso un pathos violento e indifferente alla coerenza spaziale, tutta pervasa da un decorativismo degno di un orefice. Se si volge lo sguardo al Trittico di Adriaan Reins, di soggetto pressoché uguale ma realizzato qualche decennio più tardi da Memling, ecco comparire un ritmo spaziale solenne e quieto, all’insegna di un plasticismo meno particolareggiato ma più coerente e solido, più “facile” per una visione italiana dell’arte.


Hans Memling, Passione di Cristo (1470), Torino, Galleria sabauda.

Rogier van der Weyden, Compianto sul Cristo morto (1460 circa), Firenze, Galleria degli Uffzi.

Hans Memling, Trittico di Adriaan Reins (1480), Bruges, Hospitaalmuseum.


Hans Memling, Trittico Pagagnotti (1480 circa), pannello centrale con Madonna in trono col Bambino e due angeli, Firenze, Galleria degli Uffzi.


Hans Memling, Trittico della vanità terrena e della salvezza divina (1485 circa), le sei tavole che ne componevano il recto e il verso, Strasburgo, Musée des Beaux-Arts.

Così, in mostra, il genio di Memling ci viene raccontato, di opera in opera, per la sua capacità di sintetizzare i risultati raggiunti all’epoca dalla pittura fiamminga, per quel suo saper lavorare di sottrazione all’insegna di un equilibrio tra forme e colori talmente sapiente da poter far parlare di “classicismo memlinghiano”. Disarmante, sotto questo punto di vista, è la Madonna dello scompartimento centrale del cosiddetto Trittico Pagagnotti (ricomposto solo ed esclusivamente per questa rassegna): sotto un baldacchino cremisi è assisa in trono una Madonna ieratica e serena. Attorno a lei un angelo diletta Gesù col suono di un’arpa dorata, mentre un arcangelo, vestito con una dalmatica di sapore bizantino, sorride al Redentore mentre gli porge un frutto con fare rituale e sofisticato. Un arco a tutto sesto incornicia lo spazio della scena, in una profusione di particolari tanto meticolosi nei dettagli quanto intricati nelle simbologie. Sullo sfondo si trovano un castello che sembra uscito dalle fiabe e un mulino che si riflette nel fiume. Un capolavoro di raffinatezza, celebre in tutta la Toscana già all’epoca e fonte di ispirazione per gli artisti italiani della scuola fiorentina, che ne replicarono vari dettagli nelle loro opere.


Il Trittico della vanità terrena e della salvezza divina, un rebus di sapore medievale, fu forse pensato per una riflessione privata sulla morte, il diavolo, i vizi, la salvezza



In particolare, l’arte italiana rimase colpita da quello che è inequivocabilmente il primato fiammingo per eccellenza: il paesaggio. Fatto, questo, che ci ricollega idealmente alla già citata Passione di Cristo, fondamentale precedente per quel paesaggio “a volo d’uccello” che sarà tipico del Cinquecento fiammingo e avrà il suo culmine in Brueghel. Quest’ultima opera rientra fra quelle che aiutano lo spettatore a comprendere la complessità di un autore che, se da un lato seppe creare prodotti perfetti per le esigenze del mercato italiano, dall’altro ebbe la capacità di ricollegarsi alle sue origini tedesche e di realizzare anche opere molto lontane dal Rinascimento così come viene comunemente inteso. Se, infatti, il Ritratto d’uomo con una moneta romana è un’autentica “strizzata d’occhio” al mondo italiano (dalla presenza della palma, pianta allusiva al mondo mediterraneo, alla moneta stessa, forse riferimento agli studi umanistici italici), il Trittico della vanità terrena e della salvezza divina si presenta invece come un autentico rebus di sapore medievale, che, con quel suo squadernare immagini simboliche ed escatologiche degne di un mazzo dei tarocchi, fu probabilmente pensato per una riflessione privata sulla morte, il diavolo, i vizi e la salvezza. Importante completamento della rassegna è la presenza di seguaci e artisti che vissero nella lunga ombra di Memling per tutto il secondo Quattrocento, realizzando opere pensate per il mercato straniero e per quanti non potevano permettersi le grandiose tavole dei maestri di prim’ordine, quali l’Annunciazione del Maestro della leggenda di santa Caterina, perfetto esempio della diffusione dei prototipi memlinghiani presso le botteghe minori e dell’alta richiesta di opere simili da parte dei privati. Una mostra, dunque, sulla quale concludiamo con le parole di Katy Spurrell - della società organizzatrice -, colei che per prima ha pensato questa grande esposizione e che con semplicità ed evidenza ne espone le ragioni: «Il merito principale della rassegna? Quello di fornire al pubblico italiano l’irripetibile occasione di conoscere in profondità uno dei più grandi artisti della storia dell’arte».


Hans Memling, Ritratto d’uomo con una moneta romana (Bernardo Bembo?), (1473-1474), Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten.

Maestro della Leggenda di santa Caterina,


Annunciazione (1495 circa), Firenze, Museo nazionale del Bargello.

ART E DOSSIER N. 316
ART E DOSSIER N. 316
DICEMBRE 2014
In questo numero: CORPO E METAMORFOSI Da Cleopatra al Posthuman; La carne e il dolore; Da Carpaccio a Pirandello. IN MOSTRA: Memling, Dai samurai a Mazinga, Doni di nozze.Direttore: Philippe Daverio