La pagina nera

ma quante ricchezze ha, l’italia,
che non sa?

A volte la difesa del patrimonio tocca ambiti imprevisti, lontani dai soliti “beni culturali”. Come in questa storia di galeotti, di angoli intatti di Sardegna, di nuovi musei, di buon uso dei fondi europei, di memorie conservate e da conservare. Un caso, purtroppo, quasi unico.

Fabio Isman

una buona notizia, per una volta, anzi ottima; tuttavia con una pessima morale. Il Tramariglio è una località nel Nord- Ovest della Sardegna: sopra Alghero, dopo Porto Conte. Più in là, si arriva soltanto al promontorio, alle scogliere e al faro di capo Caccia: il più alto d’Europa; se è sereno, il fascio luminoso si vede anche da ottanta chilometri. Per ventidue anni, dal 1940, Tramariglio è stata colonia penale agricola: fuori dal mondo, ha ospitato cinquemila detenuti. Mantenevano la struttura, coltivavano, pascolavano, spietravano, partecipavano alla bonifica. In questa porzione dell’isola, l’ultimo caso di malaria endemica - debellata dal ddt della fondazione Rockefeller - risale al 1947. Dicono che il suo passato abbia salvato questo lembo di terra, ancora tra i più intonsi. Quando l’Aga Khan Karim decise di investire nell’isola era il 1962, e nacque la Costa Smeralda; ma il primo obiettivo era questo habitat (coste, mare, flora, fauna: anche con specie che non si ritrovano altrove), incredibilmente attraente e del tutto, o quasi, intatto. Alla Regione, infatti, l’Aga Khan chiede una strada che lo raggiunga (allora si arrestava a Porto Conte) e facilitazioni; gli replicano che non ci sono prodi blemi: anzi, la strada si sta già costruendo. E al vicino aeroporto di Fertilia domanda gli adeguamenti necessari a portarci i turisti. Gli rispondono che chiederanno a Roma, e dopo una settimana, gli dicono di no. Allora lo scalo era essenzialmente militare, e legato ai segreti di Gladio, la struttura supersegreta della Nato: impossibile che chi si addestrava nella base di capo Marrargiu, atterrando di notte a Fertilia su aerei schermati e senza vedere né sapere nulla, si mescolasse ai turisti. Ma questo ancora non lo si sapeva. Così, nasce la Costa Smeralda, e presto quest’angolo di paradiso, l’area del Tramariglio, diventa invece parco, e quindi anche riserva marina. Se non è vera, la storia è comunque ben inventata. Sta di fatto che, chiusa la colonia penale, il suo archivio migra nel carcere di Alghero. E quando quest’ultimo ha bisogno di lavori, si trasferisce nei sotterranei di quello di Sassari, come le “carte” di tanti altri istituti secondari: confuse tra loro, con l’umidità e i topi che se le divorano.


Ritrovati i documenti, le manette, le divise e gli arnesi da lavoro
di chi in quel posto trascorreva una singolare carcerazione




il borgo di Tramariglio oggi: al centro, l’edificio principale dell’ex carcere.

l’interno dell’area del carcere, trasformato nella sede del parco di Porto Conte

 Finché nasce il parco di Porto Conte, che ora ha la sede proprio dove era il maggiore degli stabilimenti della colonia penale, un grande edificio sul mare, recuperato: era in condizioni indicibili. E qui, recentemente, balena un’idea: la ricostruzione del passato. Sei detenuti del carcere di Sassari sono stati addestrati, con fondi europei - perché lo Stato italiano non ne avrebbe mai avuti -, per altrettanti mesi, alle tecniche degli archivi; ogni giorno al lavoro e la notte di nuovo in cella. Dal loro impegno sono riemerse tante vicende incredibili, oggi raccontate in un nuovo museo, originalissimo almeno per il nostro paese: quindici ex celle di sicurezza rimaste come erano e recuperate, con, nei corridoi e in tre sale, immagini, documenti, registri e attrezzi di lavoro; squarci di vita e brani di un passato altrimenti morto e sepolto. Tutti i passi dei mutamenti del luogo, che prima era un au-tentico deserto. C’è anche un libro che lo racconta(*). I detenutiarchivisti hanno ritrovato, ordinato e catalogato quarantaquattro metri lineari di documenti: diciamo quattromila fascicoli e settemila carte sciolte; «da quando si è saputo del lavoro, molti ci mandano delle foto storiche che possedevano», racconta il direttore del parco di Porto Conte e dell’area marina protetta di Capo Caccia, Vittorio Gazale. Tre dei carcerati hanno intanto concluso il periodo di pena; ma non hanno abbandonato il lavoro: «Vogliamo portarlo fino in fondo». Sono stati ritrovati le manette, le divise e gli arnesi da lavoro di chi in quel posto trascorreva una singolare carcerazione, ora esposti insieme ad antiche carte del luogo; ne sono uscite vicende umane e un passato forse da non dimenticare. In più, corollario non da poco, proprio quel carcere ha permesso a un angolo di Sardegna di restare pressoché completamente preservato dalle febbri edilizie (ancora peggiori di quelle malariche di un tempo), dallo sviluppo selvaggio che spesso le coste dell’isola hanno purtroppo vissuto. E i carcerati (o gli ex) fanno anche, se serve, da ciceroni: guide museali assai poco protocollari, magari in sandali e pantaloncini; però assai informate e assolutamente motivate (non sempre è così, vero?).
Nel 1933, il terreno era stato concesso all’Ente ferrarese di bonifica; però, il lavoro lo avrebbero compiuto, dopo la guerra, soprattutto gli emigrati giuliani e dalmati che si stanziarono nella non lontana Fertilia. Il borgo di Tramariglio, con le strutture penali, viene progettato da Arturo Miraglia: lo stesso che disegna appunto Fertilia, la quale oggi sembra ancora una delle Piazze d’Italia dipinte da Giorgio de Chirico. Qui i detenuti lavoravano in duemilatrecento ettari di terreno; ormai, ogni traccia della loro opera è scomparsa, le coltivazioni non esistono più.
C’erano le celle e le “diramazioni”; però anche millecinquecento capi di bestiame portati al pascolo e che producevano, come le coltivazioni: si vendevano frutta e verdura, pecorino, ricotta e burro; esisteva perfino il macello. Un listino prezzi del 1957 racconta che la pelle di un agnello costava ottanta lire; ma quella di un montone centottanta. Erano in funzione officine e un calzolaio; un sarto, che nel 1960 esponeva i suoi prezzi: mille lire una «sottanina e giacca per bambine» (c’erano anche i figli del personale di custodia), trecentocinquanta i «costumi per spiaggia». In questi molti documenti, ora mostrati al pubblico, si rincorrono storie impensabili. Il barbiere premette che «tutti hanno una così deta paura di parlare » (sic), e poi spiega al direttore: «Si lavora troppo male. Abbiamo n. 4 rasoi, il quale due per i capelli e due per le barbe, quindi lei stesso sa se lé possibile in tre barbieri lavorare con due rasoi»; poi, asciugamani da cambiare, con altre piccole pecche; il brigadiere annota: «Il detenuto ha la mania di scrivere lettere ingiuriose », forse lo avranno punito, con qualche notte sul pancaccio.
All’inizio, il lavoro dei detenuti-schedatori era perfino contrastato; «quando, la sera, tornavamo in carcere, gli agenti protestavano: mica potete guardare le nostre carte, i nostri documenti; voi siete carcerati, e noi guardie». Invece, hanno addirittura ricostruito l’uccisione di una di loro, Giuseppe Tomasiello, nel 1960: oggi, il museo è intitolato a lui, e gli hanno intestato anche il carcere di Alghero. E c’è, sempre per esemplificare, la vicenda di Nilo Vettorazzi, caporal maggiore della brigata Nembo, paracadutisti; dopo l’8 settembre e l’armistizio, forse per sopravvivere, con altri tre commilitoni ruba a un pastore una pecora: è degradato, quindici anni per rapina grave e lesioni. Da Tramariglio chiede di essere riammesso in servizio, per combattere accanto ai suoi compagni d’armi; domanda anche «un quarto di latte al giorno per potermi rimettere dall’estrema debolezza per la recen- te febbre malarica»; è «avvilito più che per la pena di reclusione, per la degradazione; sapendomi nuovamente un soldato, sarebbe un sollievo»; presenta domanda di grazia, con il parere favorevole del direttore; alla fine, otterrà sei anni di condono (nel 1945), e sarà scarcerato appena nel 1949.
La scuola; i pasti in comune; i brevi momenti di relax; i film che ogni quindici giorni venivano proiettati, per i detenuti e gli agenti, separati; la chiesa (c’è ancora); le spese per acquistare altoparlanti e trasmettere musica; il forno; i lavori all’aperto; le nuove strade; gli infortuni; le morti sul lavoro; il poverissimo vitto; i menù delle feste; le proteste, addirittura un ammutinamento; i consigli di disciplina; la scuola; anche il teatro, già nel 1952; i riti dell’ingresso e le “domandine” per qualsiasi esigenza; le nostalgie, ma anche qualche promessa d’amore.
Un microcosmo, rimasto ignoto per mezzo secolo, è stato ormai accuratamente ricostruito. Ed è raccontato in tre sale e nelle quindici ex celle di punizione (un pancaccio, un bugliolo e null’altro: niente servizi, né acqua, davanti a un mare stupendo, però negato a chi qui, si fa per dire, campava). Con il sussidio di disegni e grafici, ha aiutato i detenuti-archivisti un anziano e bravo artista del luogo, Elio Pulli, che ha anche insegnato loro come fare per ricostruire, anche visivamente, ciò che qui era. È il passato ritrovato; è un esercizio della memoria. A proposito della quale, da qualche anno, un istituto culturale ebraico di Roma, il centro Pitigliani, riflette su come tramandare quella della Shoah, quando anche gli ultimi testimoni diretti se ne saranno purtroppo andati. E, da qualche tempo, ha domandato che chiunque sia interessato cerchi documenti e lettere nelle case, e nelle soffitte. Nel Giorno della memoria, i figli e i nipoti leggono quanto era stato appuntato dai padri e dai nonni. Per esempio, le cronache dell’infamia delle leggi razziali: nel 1938, un colonnello saluta il suo reggimento con parole assai nobili, ma non spiega perché se ne deve andare; forse, per scongiurare una figuraccia al paese; forse, soltanto per un suo personale pudore.
Le ricchezze che contraddistinguono un paese, e che lo rendono diverso da qualsiasi altro, non sono soltanto le sue architetture, i quadri, le sculture, insomma “Giotto & Company”: sono anche quel che vi è successo; le “radici”; il passato. Quante lettere e diari come quelli che, ogni anno, il centro Pitigliani va scovando, quanti altri luoghi, come Tramariglio e la sua colonia penale agricola, giacciono ancora inesplorati, non conosciuti, dimenticati? Forse, una buona campagna di propaganda non soltanto per gli ingressi gratuiti la domenica nei musei, ma anche per il recupero di infiniti nostri passati, non stonerebbe. Invece, no: almeno per questo, non si fa proprio nulla


la colonia penale appena costruita (1933).

le condizioni in cui versavano alcuni dei documenti ritrovati;

le celle del carcere, divenute museo dopo i lavori di ripristino.

ART E DOSSIER N. 316
ART E DOSSIER N. 316
DICEMBRE 2014
In questo numero: CORPO E METAMORFOSI Da Cleopatra al Posthuman; La carne e il dolore; Da Carpaccio a Pirandello. IN MOSTRA: Memling, Dai samurai a Mazinga, Doni di nozze.Direttore: Philippe Daverio