Grandi mostre. 2
Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu a Venezia

IL GRANDE GIOCODELL’IO

Cinque curatori d’eccezione per cinque mostre nella mostra: dai celeberrimi scatti della Master Collection di Cartier-Bresson una selezione declinata secondo cinque personalissimi punti di vista, con accostamenti inusuali che aprono nuove possibilità interpretative.

Ilaria Ferraris

Per la seconda mostra di fotografia organizzata al piano nobile di Palazzo Grassi dopo la grande retrospettiva su Irving Penn, chi meglio di Henri Cartier-Bresson (1908-2004), l’“occhio del secolo”? Per presentare l’opera di un maestro così noto, il progetto espositivo - che poi dal 13 aprile al 21 agosto 2021 sarà ospitato a Parigi alla Bibliothèque nationale de France - non ha ricalcato nessuna delle mostre del passato sul fotografo francese, per quanto esaustiva, varia o innovativa possa essere stata in quanto a impostazione, originalità o numero di scatti esposti(1)

Il punto di partenza è la Master Collection, per gli intimi “Grand Jeu” (grande gioco)(2), una selezione di trecentottantacinque immagini completata nel 1973 dallo stesso Cartier-Bresson su suggerimento dei mecenati texani John e Dominique de Menil, sostenitori dell’agenzia Magnum, attingendo alle decine di migliaia di fotografie della sua produzione, dai primi scatti influenzati dal surrealismo al fotogiornalismo, ai ritratti, alle scene di strada. «Stampe perfette delle mie foto migliori»(3), classificate per paese ma senza un particolare ordine o sequenza: una sorta di testamento in un momento cruciale della vita del fotografo, che a quasi sessantacinque anni stava per lasciare la Magnum per dedicarsi alla pittura e al disegno. Una pietra miliare, da quel momento in poi, alla base di numerosi libri e mostre. Riprodotta in sei esemplari nel formato 30 x 40 cm, la Master Collection si trova oggi presso il Victoria and Albert Museum di Londra, la University of Fine Arts di Osaka, la Bibliothèque nationale de France, la Menil Foundation di Houston, la Fondation Cartier-Bresson e nella collezione di François Pinault. 

È la prima volta che viene esposta in Europa, e per questa occasione il curatore generale Matthieu Humery ha voluto alzare la posta: il “Grand Jeu” a Palazzo Grassi si declina in cinque diverse mostre ideate da cinque curatori d’eccezione, lo stesso collezionista François Pinault, la fotografa Annie Leibovitz, lo scrittore Javier Cercas, il regista Wim Wenders e la conservatrice della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas.


Simianela- Rotonde, Francia (1969).

(1) Tra le tante, ricordiamo Henri Cartier-Bresson, a cura di Clément Chéroux, Parigi, Centre Pompidou 12 febbraio - 9 giugno 2014; Roma, Ara Pacis, 26 settembre 2014 - 25 gennaio 2015.
(2) Con molteplici sfumature di significato. Per esempio “sortir le grand jeu” è un’espressione idiomatica che si può tradurre con “mettercela tutta”, “fare del proprio meglio”, “calare l’asso”. Non casuale anche il riferimento all’omonima rivista vicina ai surrealisti, ai quali guardava il fotografo da giovane. Vedi anche S. Aubenas, Linee di vita, linee di fuga, in Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Grassi, 11 luglio 2020 - 20 marzo 2021), Venezia, 2020, p. 201.
(3) Henri Cartier-Bresson in una lettera a John de Menil, inizio maggio 1972, Menil Archives, Houston, citata in S. Aubenas, op. cit., p. 204, nota 12.

Un luogo per le arti visive lituane


Quasi un azzardo: una mostra non sull’opera di Cartier-Bresson, ma sulla percezione della sua opera, a partire dalla visione del fotografo stesso che ha selezionato le immagini della Master Collection, fino a includere anche il punto di vista di ciascuno dei curatori. Il gioco con le immagini diventa quindi anche un gioco di parole: al “jeu” si sovrappone l’omofono “je”, l’io, lo sguardo del fotografo in primis, e dei curatori poi, che con l’allestimento e la scelta di una cinquantina di scatti per ciascuno raccontano il proprio rapporto con il maestro e con le fotografie scelte, svelando anche molto di sé, dei propri gusti, della propria vita e del proprio lavoro. Alcuni scatti, ovviamente, si ripetono (una delle regole del gioco, come spiega Matthieu Humery, è che ciascuno dei curatori non fosse a conoscenza della scelta degli altri): ma è ancora più affascinante vedere come le peculiarità di ciascun allestimento, la posizione nel percorso narrativo, i diversi accostamenti riescano a modificare il significato e la valenza di ogni foto e a influire sulla percezione del visitatore (anch’esso un “io”), creando, di fatto, nuove possibilità interpretative. 

La prima testimonianza è quella di François Pinault, con il punto di vista del collezionista. Per presentare la sua scelta, oltre a dare risalto a ogni singola opera, Pinault ha voluto creare una vera e propria installazione. Le cornici sono bianche, le immagini distanziate e alla stessa altezza, con un’evidente dicotomia tra l’allestimento minimale e i soggetti scelti: scene di strada, immagini gioiose e piene di vita, un inno al tempo perduto, momenti unici, allo stesso tempo effimeri ed eterni; ritratti di persone famose o sconosciute. «Verità, semplicità, umiltà», queste le caratteristiche, secondo Pinault, dell’opera di Cartier-Bresson, legata, secondo lui, all’arte minimalista da un’affinità, dalla capacità di «dire molto con pochi mezzi»(4)

Annie Leibovitz, fotografa americana celebre per i suoi ritratti, racconta che è stato grazie alle opere di Cartier-Bresson, e in particolare ai suoi servizi in giro per il mondo, che ha deciso di dedicarsi al suo stesso mestiere. Anche dal punto di vista scenografico, il suo allestimento ha un approccio più “fisico”, da addetta ai lavori: il posizionamento delle foto vicine, singole o a gruppi, incorniciate di nero, intervallate da testi esplicativi che riportano il pensiero e i commenti della fotografa, ricalcano lo stile di un reportage sulle pagine di una rivista. Dalla Master Collection Leibovitz ha estratto gli scatti che hanno maggiormente influenzato il suo lavoro, a partire da due immagini intime, il ritratto di Matisse e il pic-nic vicino all’acqua, fino alle famose immagini della fine del secondo conflitto mondiale, dei reportage in India, con il funerale di Gandhi, e dell’avvento del comunismo in Cina.


L’allestimento scelto da François Pinault.


Dietro la Gare Saint- Lazare, place de l’Europe, Parigi, Francia (1932).

(4) F. Pinault, Il filo del tempo, banale e fantastico, in Henri Cartier-Bresson, op. cit., p. 41.

La passione per l’umano, l’accidentale, il fortuito


Lo scrittore spagnolo Javier Cercas ha cercato di individuare alcuni temi nella produzione del maestro francese mescolando le immagini senza vincoli cronologici o di altro tipo, e ne ha costruito una narrazione. Un allestimento molto lineare, quasi a ricostruire l’impaginazione di un libro, raggruppa la selezione in capitoli, ciascuno introdotto da un ritratto di un grande scrittore, accompagnato da una citazione, come un indizio: Ezra Pound, Albert Camus, William Faulkner e Samuel Beckett, il cui ritratto chiude l’allestimento, e - secondo una logica dell’assurdo, che per Cercas fa parte del vissuto di ciascuno di noi - invita a ripercorrere la mostra. Sono inclusi anche tre filmati di Cartier-Bresson sulla guerra civile spagnola, tema assai caro a Cercas. 

Lo spazio curato da Wim Wenders ricorda la sala di un cinema, in cui le fotografie diventano quasi fotogrammi proiettati sullo schermo, punti di luce isolati su uno sfondo nero. Sulla scia del ricordo di un breve incontro con il fotografo a Parigi negli anni Ottanta, Wenders ha cercato di ricostruire un ritratto di Cartier-Bresson attraverso una selezione di immagini valorizzate singolarmente, di cui ha scelto con accuratezza la sequenza, come una “playlist”(5), che svela il rapporto complesso di punti di vista tra artefice, spettatore e scena fotografata, e una galleria di ritratti. Non solo foto: oltre ad alcuni oggetti significativi che lo aiutano a evocare episodi salienti della vita del maestro (come la finta Leica regalata da Saul Steinberg al fotografo), Wenders ha preparato un breve film che racconta la propria personale esperienza con le immagini della Master Collection, Alla ricerca degli occhi di Henri Cartier- Bresson

Chiude la mostra la selezione di Sylvie Aubenas, conservatrice alla Bibliothèque nationale, un momento volutamente più accademico, storico- critico, una rilettura degli scatti fondamentali inclusi nella Master Collection - ma anche della raccolta nel suo insieme - attraverso gli scritti e le interviste rilasciate da Cartier-Bresson, che ne mettono in luce l’organizzazione rigorosa, nonché i principi semplici e programmatici che lo hanno ispirato: la fotografia come «tiro al bersaglio»; la passione per l’umano, l’accidentale, il fortuito; la lezione appresa dal maestro pittore André Lhote, secondo la quale «non c’è libertà senza disciplina». Aubenas ha scelto cinquantatre foto, allestite su uno sfondo neutro, le cornici di legno chiaro. Oltre alla prima, che raffigura i protagonisti di un gioco d’azzardo (riecco il “grand jeu”), le altre sono state raggruppate in sezioni per insiemi, per soggetti, per ossessioni: l’alternanza di luce e ombra, l’”umanesimo” delle immagini di bambini, di persone comuni in situazioni di serena quotidianità o di difficoltà e tragedia, l’“istante decisivo” colto dall’occhio del fotografo, il paesaggio abitato dall’uomo e l’uso del grigio, l’utilizzo grafico del bianco e del nero, le serie di ritratti. Per illustrare quell’enunciato che è visibile in ogni immagine di Cartier-Bresson: «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere».


Dettaglio dell’allestimento ideato da Sylvie Aubenas.


L’allestimento ideato da Wim Wenders.

(5) W. Wenders, Occhio per occhio, in ivi, p. 157.

Youssef Nabil. Once upon a Dream
“C’era una volta un sogno”: il titolo riassume perfettamente lo spirito della monografica dedicata alla produzione del fotografo Youssef Nabil (Il Cairo, 1972), a cura di Matthieu Humery e Jean-Jacques Aillagon, che si svolge a Palazzo Grassi in contemporanea con la mostra di Cartier-Bresson (fino al 20 marzo 2021). Dalle sue prime opere alla produzione più recente, che il percorso espositivo raccoglie in sezioni tematiche, il fotografo evoca l’atmosfera sognante di un Egitto che non c’è più, anche in termini di libertà culturali e di usi e costumi, ricorrendo alla tecnica tradizionale della pittura manuale su stampe fotografiche, tecnica che corregge le imperfezioni e trasfigura le immagini, sospese tra volontà estetizzante e richiami alla cultura pop. Molti ritratti (per i quali hanno posato anche alcune note “celebrities”) evocano i cartelloni dei film che si potevano vedere nelle strade del Cairo negli anni Cinquanta e Sessanta, l’età dell’oro del cinema egiziano. Ricorrono nella produzione di Nabil il problema dell’identità politica e sociale nel mondo attuale - ma anche riflessioni personali sulla propria individualità, tra realtà e sogno - , nonché la malinconia e la nostalgia per un passato ormai perduto.

Youssef Nabil, Self-Portrait with Roots, Los Angeles (2008).

Capolavori dalle collezioni Netter e Alexandre

Livorno, Museo della città
a cura di Marc Restellini, fino al 16 febbraio
orario 10-19, sabato e domenica 10-23
catalogo Sillabe
www.mostramodigliani.livorno.it

ART E DOSSIER N. 382
ART E DOSSIER N. 382
DICEMBRE 2020
In questo numero: ATTIVISMO, ARTE E SOCIETA': Intervista a William Kentridge. Banksy: l'artista invisibile. IN MOSTRA: Banksy a Roma, Enzo Mari a Milano, Cartier-Bresson a Venezia, Derain/Le Corbusier a Mendrisio, I Macchiaioli a Padova, Michelangelo a Genova.Direttore: Philippe Daverio