La valle di Faul, ai piedi di Viterbo, non è soltanto un notevole polmone verde; ma, sotto il colle dominato dal Palazzo papale, costituisce anche un’invidiabile porta d’ingresso alla città. A fine Ottocento, uno studioso scriveva che «è l’ultima contrada inclusa nella città», e s’interrogava sulla sua etimologia: un remoto campo di fave, o terreni appartenuti a un tal Faulo, il cui nome ricorre nei documenti? Ha anche avuto un ragguardevole passato. Come ricorda Mauro Galeotti, direttore del quotidiano online “La citta” (www.lacitta.eu), vi si svolgevano i giochi popolari: corse di uomini, di asini, il tiro con le frecce. Nel 1475 si decise che quattro volte all’anno si corresse un palio con «cavalli barberi », e, a mezz’agosto, anche una «giostra del toro feroce». Il premio del palio era collocato sulla colonna «di ser Monaldo», allora qui e ormai, dopo qualche peregrinazione, in piazza dei Caduti. Sul capitello è scritto «Memoriale domini Monaldi»: iscrizione che ricorda forse condanna a morte di Monaldo de’ Monaldeschi, il 23 dicembre 1456, come omicida di Guglielmo Gatti, esponente di una famiglia rivale di parte guelfa? Oltre al ricordo, dei Monaldeschi ci è rimasta, comunque, la torre del Palazzo del podestà, alta quarantaquattro metri, innalzata nel 1489 dopo il crollo di quella precedente. E tra le memorie, c’è anche quella di un palio con cavalli e cavalieri al Faul, nel 1481: alla fine, il vescovo scomunicò i priori della città, perché avevano usato un pulpito come palco per la giuria.
La pagina nera
È CROLLATO ANCHE
IL TETTO
DI QUEL TEMPIO
ASSAI NEGLETTO
Sembra che nel nostro paese l’attesa sia l’unico comportamento possibile. Per fare cosa? Per assistere, impotenti, allo sfacelo di luoghi e memorie? Ripercorrendo le vicende della chiesa duecentesca di Santa Croce nel Viterbese, ridotta ormai a un rudere, la conferma è sconcertante. E di certo non ci consola l’idea che un edificio storico possa essere sostituito da uno nuovo, privo di qualsiasi aggancio con il “genius loci”.
di Fabio Isman
Comunque sia, da decenni, con progetti più o meno cervellotici, si discute che fare della valle di Faul. Dove, di antico, è rimasta solo una chiesa in disarmo, senza particolari pregi, tuttavia inserita in un bellissimo panorama verde: un esempio delle “bellezze diffuse” nel nostro paese. In ogni angolo d’Italia qualcosa meriterebbe d’essere salvato e purtroppo, di solito gode dell’assenza di ogni manutenzione. Virtù antica, «e ormai totalmente dimenticata », s’indigna lo storico d’arte Bruno Toscano, quella per cui s’interveniva sui monumenti prima che servissero profondi restauri. Vale anche per la nostra chiesa di Santa Croce, ma già dedicata allo Spirito Santo, ormai di proprietà privata: nell’incuria più assoluta, recentemente è crollata perfino una parte del tetto che ancora c’era; una ferita che si aggiunge a tutte le altre: negli ultimi decenni, infatti, il complesso è stato ridotto a un autentico rudere. Se costituisce un biglietto da visita per la città, è davvero una gran bella presentazione.
Santa Croce possiede un campanile a forma triangolare, unico a Viterbo. Sin dal 1206 si ricorda in loco l’ospedale di Santo Spirito, nel 1341 distinto da uno «de Fabuli». Nel 1275 ospitava i trovatelli. Varie volte, dal 1357 al 1436, i documenti citano un chiostro, che ovviamente non c’è più. Nel 1363 si ricordano un tabernacolo in argento e un dipinto dello Spirito Santo. Nel Quattrocento la chiesa passa ai crociferi, poi alla confraternita della Misericordia. Segue un restauro: e nel 1520 si vende un terreno per affrontare le spese; si introducono i banchi dei fedeli; si appone allo stipite della porta la data del 1530, e sull’architrave la testa di Gesù, con accanto quelle degli apostoli e di sant’Angelo con la spada: un importante reperto che, per fortuna, è ormai in salvo al Museo civico.
Già alla fine dello stesso secolo, tuttavia, si realizza un altro ospedale, più capiente; e pure un cimitero per seppellire chi non ne usciva sulle proprie gambe. Il vecchio locale del nosocomio è ridotto a magazzino, pur così capace che poteva contenere «fino a duemila some di grano». Ancora nell’Ottocento, in sacrestia, un quadro ritraeva un miracolo avvenuto appunto nel 1828: un grosso masso si era staccato da una rupe, quando era appena passata una processione. Si vedono tuttora una serie di archetti con cornici in parte scalpellate, che indicavano l’utilizzo dei locali sotto la chiesa, dove era appunto l’ospedale. Una pietra murata sulla facciata destra, sopra la fessura per raccogliere le offerte, recitava: «Elemosina per i poveri malati».
ART E DOSSIER N. 374
MARZO 2020
In questo numero: RISCOPERTE E RIFLESSIONI: Daverio: La luce di La Tour in un'Europa in guerra. Saffo nel Parnaso di Raffaello. La scultura performativa di Mary Vieira. . RESTAURI A FIRENZE: La Porta sud del battistero. IN MOSTRA: 3 Body Configutations a Bologna, Gio Ponti a Roma, Divisionismo a Novara, Tissot a Parigi, La Tour a Milano.Direttore: Philippe Daverio