Dentro l'opera


LA PAROLA
È IMMAGINE

di Cristina Baldacci

Un primo piano su opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Vincenzo Agnetti, Autoritratto

Dopo gli esordi come poeta, attore di teatro, pittore informale e critico letterario (sulla rivista “Azimuth” scrive di Enrico Castellani e Piero Manzoni), Vincenzo Agnetti (Milano, 1926-1981) è diventato un grande sperimentatore della parola nell’arte. Dagli anni Sessanta l’ha dipinta su feltro, incisa su bachelite, tratteggiata su stampa fotografica, registrata su nastro, pronunciata in performance. Amante dell’ossimoro e del paradosso, ci ha giocato con abile ironia inserendosi da protagonista nel contesto italiano delle ricerche verbovisuali delle seconde avanguardie. Di questo suo atteggiamento sagace e irriverente, anche verso se stesso, ma sempre profondamente impegnato, è caratteristico l’Autoritratto del 1971(1). Composto dalla scritta «Quando mi vidi non c’ero», prima incisa a fuoco e poi dipinta tono su tono su un riquadro di feltro grigio, è un autoritratto che, in un certo senso, si può ritenere eseguito alla lettera, nonostante la forma sia piuttosto singolare per il genere a cui appartiene. Se si considera l’etimo del termine ritrarre, dal latino “retrahe˘re”, sembrerebbe che Agnetti «si sia ritratto a se stesso». Come a dire che, nel momento in cui si è guardato metaforicamente allo specchio, ha cancellato il suo volto, lasciando come unica traccia di sé una dichiarazione del suo “tirarsi indietro”.

Non si tratta di un rifiuto intellettuale del ruolo d’artista (si potrebbe quasi pensare a un’influenza barthesiana, dato che il filosofo francese aveva teorizzato la «morte dell’autore» pochi anni prima, nel 1968), bensì di un arretramento parziale, subito sconfessato dalle sue parole. Per questo, l’Autoritratto è stato interpretato come «speech act»(2); come atto performativo che elimina l’autoreferenzialità visiva a favore dell’autorialità poetica, come gesto esistenziale che si discosta dai rigorosi “statements” che gli artisti concettuali americani promulgavano negli stessi anni. «Quando mi vidi non c’ero» è un’affermazione di sé, non il suo contrario: come accade per molti lavori di Agnetti, che inizialmente potrebbero trarre in inganno, non riguarda perciò un’assenza. Si pensi al celebre Libro dimenticato a memoria (1970), che precede di un anno l’Autoritratto: un volume sovradimensionato con pagine simili a passe-partout o cornici il cui centro è un rettangolo cavo. Questo vuoto, che sostituisce lo spazio della scrittura, non rappresenta l’oblio ma, semmai, infinite possibilità di pensiero e parola. Eppure, come ha notato Achille Bonito Oliva, l’autoritratto su feltro è anche una soffice lapide, instabile e fuggevole quanto l’identità, su cui è stato inciso un paradossale epitaffio(3), prematuro come un coccodrillo giornalistico e solenne come un “memento mori”, che Agnetti ha lasciato come manifesto poetico di sé e della sua arte.

(1) L’opera è attualmente in mostra nella personale Autoritratti Ritratti, Scrivere (Milano, galleria BUILDING, fino al 18 gennaio 2020), a cura di Giovanni Iovane.

(2) Questa espressione è ripresa dal filosofo del linguaggio britannico John Langshaw Austin. Cfr. How to Do Things with Words, Cambridge 1962.

(3) Cfr. A. Bonito Oliva, Ritratto dell’artista che non c’è, in “La Repubblica”, 20 agosto 2017.

ART E DOSSIER N. 370
ART E DOSSIER N. 370
NOVEMBRE 2019
In questo numero: Palazzo Grimani La collezione del patriarca. Eros e Bellezza Giù le mani da Susanna. Elogio della curva. Se la grottesca accende la fantasia. In mostra:Bacon a Parigi. Chagall, Picasso, Mondrian ad Amsterdam. Goncarova a Firenze. Rembrandt e Velázquez ad Amsterdam. Gli aztechi a Stoccarda.Direttore: Philippe Daverio.