Studi e riscoperte. 2
La rappresentazione della sofferenza in Ribera

UN TEATRODELLA CRUDELTÀ

La presenza ricorrente di scene di tortura e supplizio nella pittura di Ribera rivela una tendenza alla spettacolarizzazione del dolore, quasi la reiterata rappresentazione di un inevitabile destino di punizione senza redenzione.

Daniele Trucco

Del carattere altezzoso di Jusepe de Ribera (1591-1652), delle tresche con il perverso Belisario Corenzio e delle sue liti con il Domenichino e il Caracciolo già è stato scritto tutto(1), ma tali informazioni, unite a quelle relative al suo stile di vita disordinato e alle fughe dai creditori, rappresentano solo una base umorale non del tutto utile per comprendere il pittore della crudeltà. La corrente romantica, per esempio, ha cercato, sbagliando, di interpretarne la vita attraverso l’analisi dei soggetti delle sue opere trasformandolo così in un “maudit”. 

Quello che in realtà si sa di lui è ben poco: nato in Spagna nella zona di Valencia, emigrò in Italia, viaggiò tra Parma e Roma impregnandosi di naturalismo caravaggesco e si trasferì infine a Napoli, dove con buone probabilità l’estro partenopeo forgerà l’epiteto di Spagnoletto. 

Senza dubbio, parlando della sua arte, si nota in Ribera una tendenza alla ripetitività dei soggetti già messa in luce nel secolo XVIII da Bernardo De Dominici(2); nulla di strano, a parte il fatto che tali soggetti riguardano figure di vecchi o scene di tortura. Ci si dedicò con accanimento, studiando nel dettaglio le pose irregolari dei corpi cadenti e le espressioni sofferenti dei volti: i disegni e gli schizzi preparatori ci hanno lasciato oltretutto moltissimi dettagli. 

Lo scorticamento di san Bartolomeo - forse proprio per l’efferatezza della scena - è stato un tema caro a Ribera, tanto da averlo iterato più di dieci volte con variazioni anche notevoli. L’iconografia dedicata ai martiri mostra di solito l’atto che conduce alla morte o al miracolo, con il santo in gloria o con la palma, retta con ieratica disinvoltura, e gli strumenti del supplizio utili per l’identificazione. Il San Bartolomeo conservato a Firenze a palazzo Pitti (1628-1630), però, ci mostra la preparazione, il mo mento che precede la violenza del carnefice.


Martirio di san Bartolomeo (1628-1630), Firenze, Gallerie degli Uffizi, palazzo Pitti, Galleria palatina.

(1) A partire dalle testimonianze che ne dà Giovan Pietro Bellori nel suo Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni (1672), gli screzi del Ribera con i pittori locali diverranno una costante delle Vite redatte successivamente da altri autori.
(2) «[…] e massimamente di S. Girolamo, che ne ha dipinti infiniti per un genio particolare, forse per mostrare la fecondità della sua immaginazione nel farli tutti di variate azioni, e con le teste di morte anche diverse, e così vere, che hanno del maraviglioso», B. De Dominici, Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, vol. 3, Napoli 1844, p. 137.

La composizione è studiatissima: il vecchio apostolo attraversa diagonalmente la superficie della tela come già Caravaggio aveva fatto con il suo Martirio di san Pietro (Roma, Santa Maria del Popolo, 1600-1601) e punta gli occhi verso l’alto, verso quel Dio assente nella composizione ma contrapposto (e dunque presente e aleggiante) alla divinità pagana spezzata e con il volto simbolicamente riverso al suolo. Tutto il dramma che deve consumarsi però è relegato nella figura espressionisticamente grottesca sulla destra in atto di affilare il coltello destinato alla vivisezione del santo. I sette personaggi ritratti sullo sfondo non si curano di ciò che accade: rappresentano l’indifferenza del mondo di fronte all’atto di violenza esercitato con gaia spensieratezza dai due carnefici sorridenti. 

Ciò che Ribera fa emergere è una gioia sadica e dunque erotica, quella gioia nell’arrecar dolore e nel voler indagare l’interno del corpo che è tipica dei bambini che si accaniscono sulle bestiole inermi(3). L’infante, come il pazzo, sfugge alla ragione e si bea dell’ebbrezza scaturita dallo slancio, vissuto nel presente, totalmente distaccato da qualunque morale: parimenti gli aguzzini dello Spagnoletto, che inscenano sempre la parte dei folli all’interno di una teatralità tragica costruita intorno a episodi mitici o di santità, rappresentando con la loro crudeltà sia il male sia un regresso all’infanzia. 

La morte in Ribera deve essere spettacolo: essendo la tortura una trasgressione estrema legalizzata dall’autorità, la sua rappresentazione diventa un mezzo per appagare una sete repressa di violenza. Oltretutto l’azione teatrale tragica si amplifica tenendo conto che il martire riceve morte senza averla arrecata, anzi: solo per aver tentato di ricercare un sommo piacere derivante dalla comunione con la divinità. Lo spettatore dell’azione, di fronte alle figure grottesche di questi carnefici, non può provare empatia ma solo distacco: Brecht ci parlerebbe di “Verfremdungseffekt”, un “effetto di estraniazione” utile a produrre una riflessione critica su ciò che si vede. 

L’arte di Ribera tutta - lo si noti nel dettaglio in questo San Bartolomeo - ci parla di divieti: il divieto e la sua trasgressione hanno fatto sì che ci fossero il giudizio e la tortura del trasgressore. A loro volta la tortura e l’esecuzione capitale violano anch’essi dei divieti che vanno oltre la sfera dell’umano e concernono giudizi morali ed estetici. Ecco il senso dell’urlo del santo in questa tela: non è ancora dolore ma una sua prefigurazione; non è sguaiato ma sinesteticamente muto. 

«Ella sa che Parrasio, per figurare Prometeo dilaniato dall’avvoltoio, comprò un prigioniero vecchio e venerabile, poi, fattoselo condurre in bottega, con un ferro aguzzo gli andò lacerando il fegato, e, mentre il vecchio agonizzava fra i più atroci tormenti, il pittore calmo osservava, studiava, dipingeva». Così Camillo Boito, nel suo racconto Un corpo (1870), ci descrive la realizzazione di un famoso Prometeo dell’antichità parafrasando le Controversiae di Seneca il Vecchio. 

La scena truce calza in modo quasi verosimile con quella che avrebbe potuto essere l’esigenza di verità di Ribera durante la pittura del suo Prometeo (in col lezione privata) o del Tizio (Madrid, Museo del Prado, 1632).


Spazi mentali ed esistenziali, in cui ogni persona può ritrovare una parte di se stessa


Tizio (1632), Madrid, Museo del Prado.

Prometeo (1630).

(3) Feci notare in un mio studio sul Carpaccio (Vittore Carpaccio e l’esasperazione dell’orrido nell’iconografia del Rinascimento, in “Letteratura & Arte”, n. 12, 2014, pp. 9-23) che in un racconto dell’ungherese Géza Csáth intitolato Matricidio emerge come in nessun altro autore mai (nemmeno in Sade o in Bataille) la volontà del bambino di indagare l’interno attraverso l’uso del corpo vivisezionato: «Squarciavano la cassa toracica del cane, tamponavano il sangue e mentre procedevano col loro lavoro ascoltavano i mugolii strazianti dell’animale ridotto all’impotenza» (G. Csáth, Oppio e altre storie, Roma 1998, p. 66).

Prima però di tentarne una lettura ci si concentri su un dettaglio anomalo: il gigante presenta un problema anatomico curioso poiché l’aquila non gli sta rodendo il fegato - come previsto dal mito - ma strappando gli intestini. Questo per un semplice motivo: il fegato non si trova da quel lato del corpo. Si mettano a confronto il Tizio rappresentato da Tiziano (Madrid, Museo del Prado, 1548 circa) o il Prometeo di Rubens (Philadelphia Museum of Art, 1612), soggetto utilizzabile allo stesso modo data la similarità di pena dei due personaggi mitici: il rapace scava correttamente nella parte destra dell’addome. 

Anche nel disegno di Michelangelo conservato a Windsor, sebbene l’uccello non abbia ancora perforato il corpo, punta il rostro nella direzione giusta in relazione al fegato. 

Non è concepibile un errore così grossolano da parte di un artista come Ribera: il mito impone un suo rigore(4), esattamente come l’anatomia. Non credo sia avanzabile l’ipotesi che per due volte Ribera si sia sbagliato a collocare il fegato; oltretutto non mi risulta che ci siano state testimonianze in cui si attesti una qualche sorpresa da parte dei commentatori dell’opera. Ma se non si tratta di errore, possono ancora dirsi Prometeo o Tizio i soggetti raffigurati nelle tele? 

Qualsivoglia sia l’esito dell’indagine, torniamo al punto della nostra analisi: si provi a capovolgere la tela con il Tizio, ottenendo quasi come effetto che la morte stia giungendo al malcapitato per caduta libera. 

L’espressione del volto e il grido di sofferenza fermano la dolorosa vicenda del supplizio al suo apice e trasformano lo stupefatto sconcerto di san Bartolomeo di fronte all’immagine del dolore che giungerà nella consapevolezza di essere divenuto parte di un meccanismo teatrale autorigenerantesi. Questa volta gli occhi non hanno più nulla da guardare perché la sofferenza è voluta da Dio e non è mezzo di redenzione: la punizione che sconta deriva dalla violenza e il suo urlo serve solo a maledire se stesso.


L’arte di Ribera ci parla di divieti: il divieto e la sua trasgressione hanno fatto sì che ci fossero il giudizio e la tortura del trasgressore


Bocche che urlano (1622 circa), Londra, British Museum.

(4) Gli artisti sono talvolta imprecisi: si ricordi che Omero (Odissea, 11, 580) ci descrive Tizio dilaniato da due aquile e non una.

Tiziano Vecellio, Tizio (1548 circa), Madrid, Museo del Prado;


Pieter Paul Rubens, Prometeo (1612), Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.

ART E DOSSIER N. 363
ART E DOSSIER N. 363
MARZO 2019
In questo numero: Expat: artisti senza patria. Anguissola, una cremonese in Sicilia. Cassatt, dalla Pennsylvania a Parigi. Ribera, uno 'Spagnoletto' a Napoli. In mostra: Hokney e Van Gogh ad Amsterdam. Futuruins a Venezia. Hammershoi a Parigi. Boldini a Ferrara. Hollar a Vinci.Direttore: Philippe Daverio