Grandi mostre. 4
L’arte dell’Oceania a Londra

QUANDO IL PACIFICO
SI CHIAMA “MOANA”

Nel celebrare i duecentocinquant’anni del primo viaggio di Cook nel Pacifico, la mostra alla Royal Academy offre illuminanti aperture sull’arte dell’Oceania, con oggetti antichi e opere di artisti contemporanei.


Gloria Fossi

«Vorrei parlarti del Sud Pacifico. Com’era veramente. Un oceano senza fine, infiniti granelli di corallo che dicevamo isole. Palme che annuivano con grazia all’oceano. [...] E l’attesa. Senza tempo, continua». Così scriveva James A. Michener in Tales of the South Pacific, col quale vinse il Pulitzer nel 1948: retorica rievocazione occidentale, fra le tante nella letteratura e nel cinema, di un’Oceania atemporale, di un paradiso che Victor Segalen considerava “perduto” già nel 1907. In Les Immémoriaux l’antropologo e scrittore francese fece invocare al recitante Teri’i: «Son tornato a Tahiti. Ma dove sono i maori? Non li conosco più: hanno cambiato pelle»(1).


Gli «argonauti del Pacifico», come li chiamò Malinowski, ebbero grande senso creativo


Ottant’anni dopo James Clifford ricorreva a un verso di William C. Williams - «anche i frutti puri impazziscono» - per riesaminare la formazione, poi il disfacimento dell’autorità etnografica postcoloniale(2).
Oggi etnologi, archeologi, storici dell’arte, indagano con nuovi punti di vista origini, attitudini, coscienza di sé e del proprio ambiente degli abitanti dell’Oceania. Vengono così decostruite o almeno ridimensionate le tradizionali teorie sul primitivismo, a favore di «una nuova storia», «una nuova società», perfino «una nuova storia dell’arte» del Pacifico, contestualizzata secondo significati che in minima parte coincidono con la nostra idea di “arte”(3). 

Ne troviamo conferma alla bella mostra della Royal Academy, Oceania, curata da due studiosi attivi in Inghilterra (l’antropologo Nicholas Thomas, nativo però di Sydney) e in Nuova Zelanda (Peter Brunt), con specialisti non solo occidentali ma anche polinesiani. La rassegna, che poi andrà a Parigi, espone duecento opere - tessuti di fibra vegetale, caschi piumati, idoli antropomorfi, prue e pagaie decorate, amuleti, ingegnose mappe nautiche fatte di bastoncini, abiti cerimoniali - suddivise per temi e non per regioni: navigazione, senso del territorio, incontri. Scopo dei curatori è far comprendere culture e mentalità distanti dal nostro immaginario, con aperture anche su artisti contemporanei. A lungo quelle isole hanno suscitato paura mista ad attrazione, disseminate come sono in un mare sconfinato che il nome Oceania - coniato da un danese ai primi del XIX secolo - rievoca: un oceano che nel 1520 fu chiamato «Pacifico» dal vicentino Antonio Pigafetta, al seguito della spedizione di Magellano. A Tahiti e in Nuova Zelanda, però, quel mare si chiama “moana”, per i samoani è “vasa”, all’isola di Pasqua è “vai kava”. E quella che per noi è la Nuova Zelanda per i maori è «Aotearoa », “la terra dalla lunga nuvola bianca”. L’Oceania fu abitata da popoli di bellezza statuaria ma anche da cacciatori di teste e cannibali, alcuni sopravvissuti fino a pochi decenni fa in zone inesplorate della Nuova Guinea.

In piena epoca illuminista James Cook assisté a Tahiti anche a sacrifici umani. Nonostante amichevoli rapporti di scambio, Cook fu ucciso nel 1779 alle Hawaii dagli indigeni in circostanze controverse, e lo stesso accadde alle Tonga a uno degli uomini di William Bligh, capitano del Bounty. Per Bligh, tuttavia, più crudele degli indigeni fu il suo equipaggio, che nel 1789 si ammutinò e lo abbandonò su una scialuppa al largo delle isolette vulcaniche di Haapai’i, arcipelago tongano. In seguito, fin negli atolli più sperduti, missionari di varie fedi e colonizzatori di pochi scrupoli costrinsero i nativi a nuove regole di vita, facendo loro rinnegare miti, costumi, leggende, e trattandoli come esseri primitivi. Poi, fra XIX e XX secolo, le isole del Pacifico furono teatro delle contese imperialiste. In epoca postcoloniale, fra illusioni e contraddizioni, l’Eden continua a essere ricercato in scenari smaglianti che incarnano l’idea di felicità primigenia, di natura incontaminata. Nonostante gli scempi di fast food e “honeymoon hotel”, comuni alla globalizzazione di migliaia di località tropicali, le isole del Pacifico restano incantevoli. Questo non è tuttavia il loro aspetto più interessante.


Tene Waitere, Ta Moko (1896-1899), Wellington, Museum of New Zealand Te Papa Tongarewa.

Negli ultimi anni un nuovo modello etnografico ha messo in discussione, in primo luogo, il concetto occidentale di “esplorazione”. Come focalizza la mostra, la vera scoperta dell’Oceania non si deve agli europei, ma a coloro che cominciarono a popolarla in tempi remoti. Fra i trentamila e i cinquantamila anni fa genti la cui etnia è ancora dibattuta migrarono dal Sud-Ovest asiatico verso est, per proseguire, nel corso di molti secoli, verso gli odierni arcipelaghi di Fiji, Samoa, Tonga, e sempre più a est, verso Tahiti, le Tuamotu, le Marchesi, poi a sud in Nuova Zelanda, infine ancora più a est, nell’isola di Pasqua, e a nord, alle Hawaii. Gli «argonauti del Pacifico», come li chiamò Malinowski nel 1922, ebbero grande senso creativo nel rielaborare i propri miti, trasformando con eccellente abilità e una particolare predilezione alla decorazione, piume di volatili, fibre vegetali, legni, conchiglie, in oggetti ornamentali e cerimoniali. Disegnarono complessi tatuaggi sul viso e sul corpo, la cui cura e fisicità ha sempre avuto per loro valenze mitiche. Talento e autonomia sono stati rivendicati di recente da scrittori come il samoano Albert Wendt (1939), etnologi come il tongano Epeli Hau‘Ofa (1939-2009), musicisti come l’hawaiano Israel Kamakawiwo‘ole (1959-1997). Nel teatro, nella danza, nelle arti multimediali la rivendicazione di appartenenza può anche passare tramite topoi occidentali. Così il samoano Lemi Ponifasio mette in scena una rielaborazione coreografica maori dell’Angelus Novus di Walter Benjamin e Paul Klee, mentre la neozelandese Lisa Reihana sigla POV un video sullo sbarco a Tahiti di Cook. Come sfondo alla sua animazione in HD, usa Les sauvages de la mer Pacifique, una carta da parati che Jean Gabriel Charvet dipinse nel 1804 per europei attratti dall’esotico. In quella figurazione i tahitiani sembrano però elegiache figurine di Poussin anziché possenti maori. L’animazione di Reihana non è idilliaca, quasi disneyana come può sembrare. POV allude alla Pointe Venus, striscia di sabbia nera nella baia di Matavai a Tahiti, dove gli scienziati di Cook osservarono nel 1769 il transito di Venere, e che significa anche “In pursuit of Venus” (in cerca di Venere). Soprattutto, però, vuol dire “Point of View”: un altro punto di vista.


Coccodrillo con testa umana, grande coppa cerimoniale per cibo (prima del 1891), dal villaggio di Kaligomgu, laguna di Roviana, isole Salomone, Londra, British Museum.

LA MOSTRA
La Royal Academy di Londra celebra i duecentocinquant’anni del primo viaggio di James Cook nel sud Pacifico con una mostra di duecento opere dai musei etnografici di tutto il mondo, e uno sguardo anche alle più significative espressioni di artisti nativi contemporanei. Oceania (Londra, Royal Academy, fino al 10 dicembre, orario 10-18, venerdì 10-22, www.royalacademy.org. uk; Parigi, Musée du Quai Branly, 1° febbraio - 1° maggio 2019, www.quaibranly.fr) è curata da Nicholas Thomas e Peter Brunt con Adam Locke. Catalogo Royal Academy of Arts a cura di N. Thomas, P. Brunt con N. Kahanu, E. Kasarhérou, S. Mallon, M. Mel, D. A. Salmond.

(1) V. Segalen, Le isole dei senza memoria (1907), ed. it. a cura di U. Fabietti, Roma 2000. Per questi temi si rimanda al nostro Mari del Sud. Artisti ai Tropici dal Settecento a Matisse, fascicolo monografico allegato ad “Art e Dossier”, n. 279, luglio-agosto 2011. Per una disamina sull’arte oceanica, si veda il dossier Oceania allegato a questo numero, frutto di ricerche sul campo nelle biblioteche e i musei nazionali di diversi arcipelaghi del Pacifico e di Auckland.

(2) J. Clifford, I frutti puri impazziscono (1988), Torino 1999.

(3) A New Oceania: Rediscovering our Sea of Island, ed. a cura di E. Waddell, V. Naidu, E. Hau’Ofa, Suva 1993; P. Brunt et alii, Art in Oceania. A New History, New Haven 2012; P. V. Kirch, On the Roads of the Wind: an Archeological History of the Pacific Islands before European Contact (2000), ed. riveduta Berkeley, Los Angeles 2017.

ART E DOSSIER N. 359
ART E DOSSIER N. 359
NOVEMBRE 2018
In questo numero: Laboratorio futuro - Gli scenari di Adelita Husni-Bey; Nuovi spazi per l'arte - In Cina, nelle Fiandre, in Lucchesia; Medioevo inquieto - Maria protettrice: un'iconografia fortunata In mostra: Picasso a Milano; Chagall a Mantova; Ghiglia a Viareggio; l'Oceania a Londra; Brouwer a Oudenaarde; da Tiziano a Van Dyck a Treviso.Direttore: Philippe Daverio