Grandi mostre. 4
Giacomo Puccini e le arti visive a Lucca

UNA LIRICAD’AVANGUARDIA

La musica di Giacomo Puccini acquista nuove possibilità interpretative se approfondiamo il rapporto che il compositore toscano ebbe con le istanze artistiche del suo tempo: dalla Scapigliatura milanese al divisionismo, dal Liberty al simbolismo. Ecco qui i dettagli nel racconto di uno dei curatori del progetto espositivo.

Fabio Benzi

La mostra della Fondazione centro studi Ragghianti è la prima, completa presentazione del mondo figurativo che accompagna Puccini nel corso della sua vita. I risultati sono estremamente innovativi, assai più vasti e modulati di quanto solitamente si pensasse, portando a nuove possibilità di interpretazione della stessa musica pucciniana, evidenziando un tessuto di scambi e una dialettica assai peculiare del musicista con i fatti artistici del proprio tempo. 

Puccini non sembra portato nella sua giovinezza toscana per i rapporti artistici. Il suo carattere inquieto e incostante non lo induce inizialmente ad approfondire le relazioni tra le arti: negli studi classici è pigro, non ama leggere libri, e tantomeno s’interessa d’arte. Una vera maturazione “visiva” dovette però avvenire a Milano, quando conobbe il suo librettista Ferdinando Fontana nel 1883 (aveva allora venticinque anni). Fontana era uno scrittore della cosiddetta Scapigliatura milanese, e suo fratello Roberto era un pittore vicino allo stesso movimento. Il termine nasce come una trasposizione del termine francese “bohème” (che ci suggerisce una lunga discendenza, assai specifica, nello stesso Puccini), sicché possiamo immaginare il giovane compositore calato d’un tratto in un contesto in cui finalmente l’interazione tra le arti gli si mostrava appieno. In una versione, occorre dire, addomesticata e languida, velata da un naturalismo borghese dai risvolti spesso sdolcinati, ma certo con una vitalità che dovette sembrargli appassionante, soprattutto in quanto neofita dell’arte nonché della letteratura. Questo contesto scapigliato milanese (Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Luigi Conconi, Eugenio Gignous e altri), più indotto da conoscenze incrociate che scelto per vocazione profonda, permea tuttavia il clima delle sue prime opere, da Le Villi, a Manon a Tosca, e agì sull’immaginario pucciniano come corrispondenza di sentimenti espressi attraverso un impressionismo romantico, toni sfumati ma di pregnanza veristica mai scivolati nell’indecisione della “sensiblerie”.


Leopoldo Metlicovitz, manifesto Ricordi per Madama Butterfly (1904), Milano, Civica raccolta delle stampe Achille Bertarelli.

Abbandonata Milano, che non lo soddisfaceva, Puccini iniziò a gravitare su Lucca e infine Torre del Lago (nel 1891), nella stessa provincia. Il ritorno nella nativa Toscana, pur tenendo i logici contatti con Milano, fu l’inizio di una nuova stagione, che portò alla composizione di Manon (1893). Qui frequenta in maniera più assidua artisti come Edoardo Gelli e Giovanni Muzzioli, assai diversi da quelli della Scapigliatura milanese: esponenti di una ritrattistica alto borghese, levigata e accademica, nonché di scene di genere alla Fortuny, oppure storiche e all’antica alla Alma-Tadema; o ancora come Cipriano Cei, pittore di realismo borghese decisamente commerciale, e il tardo macchiaiolo Ferruccio Pagni (che Diego Martelli inserì nel gruppo degli “impressionisti livornesi”). 

È una parentesi apparentemente discordante con gli indirizzi degli esordi e, al di là della gittata dei singoli artisti, questa nuova visione di eleganza anche formale e tecnica, forse più intimamente condivisa di quella milanese scapigliata, aprì il mondo pucciniano alla sua prima e grande affermazione personale di stile che condurrà il compositore alla composizione della Bohème (1896) e di Tosca (1900). Probabilmente quella pittura aveva per lui anche il valore di una scelta artistica più spontanea e autonoma, non imposta dallo strutturato ambiente intellettuale milanese ma personalmente e intimamente conquistata presso i suoi conterranei.

I rapporti con Giovanni Verga, di cui progetta di mettere in scena La lupa, contribuiscono a sottolineare gli accenti di verismo che ancora a lungo rimarranno nella sua sensibilità, anche se trasfigurati da un lirismo profondo e melanconico che costituisce una sua vena peculiare, crepuscolare. 

Non vi sono a quest’altezza cronologica elementi per così dire “moderni” nella sua cultura visiva, al punto che nel 1895 prende in giro l’amico Pagni perché sperimenta occasionalmente (e per brevissimo tempo, forse dissuaso dallo stesso Puccini) una pittura divisionista più sperimentale. 

Un balzo di qualità, una ricerca più complessa d’intellettualità nell’espressione artistica, avviene però al torno del secolo. Poco prima del 1900 Puccini aveva conosciuto Plinio Nomellini, uno dei primi pittori in Italia ad applicare, con grande precocità, il metodo divisionista alle sue opere. Questa amicizia determina certamente anche uno scarto estetico in Puccini. Le sue 39 frequentazioni si aprono ad Antonio Discovolo, Galileo Chini, Libero Andreotti, Edoardo De Albertis, Duilio Cambellotti, Carlo Bugatti, Paolo Troubetzkoy, Alberto Martini, determinando un evidente mutamento di gusto e di ispirazione estetica: più ampia, più possibilista, in una parola più “moderna”. Il risultato musicale è la Butterfly. Il suo interesse reale sembra ormai indirizzarsi a quei pittori e scultori d’avanguardia, tra divisionismo e Liberty, ma soprattutto di aura simbolista, che costituiscono il suo interesse apparentemente, ormai, più vivo. È d’altra parte il momento in cui sembra dover collaborare con D’Annunzio: non solo perché considerato il maggior poeta italiano del tempo, ma evidentemente anche perché portato a condividerne la flessione decadentistica (anche se la collaborazione, protratta nell’arco di molti anni, non vedrà mai una conclusione). 

Dall’amicizia con Nomellini, di cui lo incantano le ecloghe pastorali e simboliste, discende la conoscenza tra il compositore e Galileo Chini, che rivestirà un ruolo forse anche maggiore di Nomellini per Puccini. Pure l’ammirazione per il «grande artista» Gaetano Previati aveva il valore di un’apertura avanguardistica verso dimensioni non più eminentemente “realistiche” dell’espressione, ma in cui il lirismo si tende in un simbolismo dalle linee innervate al limite dell’espressionismo, in colorazioni spirituali notturne e sonorità oniriche.


Corrispondenza di sentimenti espressi attraverso un impressionismo romantico


Paolo Troubetzkoy, Dopo la posa (Fanciulla che si pettina) (senza data), Genova, Raccolte Frugone.

Luigi Conconi, Ritratto di Giacomo Puccini (1885-1890 circa), Lucca, Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini.


Plinio Nomellini, Notturno (1905).

Fu comunque con Galileo Chini che si creò un sodalizio fondamentale, che incise anche direttamente e significativamente sull’attività pucciniana, al punto che l’artista divenne il referente principale per la messa in scena delle opere di Puccini, a partire dal 1918. Si trattava di un salto di qualità notevole: scegliere di lavorare con un artista a tutto tondo, di fama internazionale, rivestiva evidentemente una grande e sostanziale novità nella concezione stessa della messa in scena. 

Ciò che sedusse Puccini fu indubbiamente il materiale eccezionale che Chini aveva riportato dall’Oriente, dove tra 1911 e 1913 aveva affrescato il salone del trono del Palazzo reale di Bangkok: quadri di straordinaria forza evocativa, di un simbolismo moderato dalla forza di un richiamo di impressioni interiori piuttosto che di semplice colore esotico. Un Oriente interiorizzato, reinventato, non privo di connotazioni acutamente antropologiche, intellettuali; era la medesima direzione intrapresa da Puccini con la sua musica, aperta a innovazioni tonali extraeuropee. Chini fu coinvolto nel Trittico (1918) e infine nella meravigliosa messa in scena di Turandot (1924), l’ultima e più sperimentale opera del musicista. 

Questa scelta “alta” di collaborazione aveva ovviamente un valore consapevole di trasformazione dell’opera lirica, da spettacolo musicale e scenico a opera d’arte a tutto tondo, che apriva il teatro d’opera italiano verso una direzione di esperimento artistico “totale”. Se questo indirizzo era stato elaborato all’inizio del decennio dai Balletti russi di Diaghilev e dalla sua collaborazione con Léon Bakst e in seguito con altri artisti, Puccini lo colse tempestivamente e consapevolmente, accompagnando ai suoi ultimi capolavori l’immaginario struggente ed esotico di Chini: l’interiorità cromatica di un modo assolutamente novecentesco, bergsoniano, di percepire la realtà.


Il lirismo si tende in un simbolismo dalle linee innervate al limite dell’espressionismo


Gaetano Previati, Notturno (Il silenzio) (1908), Gardone Rivera (Brescia), Fondazione Il Vittoriale degli italiani.

Galileo Chini, Turandot, bozzetto per l’atto II, scena I, versione I (1924).


Galileo Chini, Il tempio del figlio del Sole a Colombo (1911).

ART E DOSSIER N. 357
ART E DOSSIER N. 357
SETTEMBRE 2018
In questo numero: MICHELANGELO INEDITO Il primo progetto della tomba di Giulio II. VENEZIA La biennale di architettura. I SACRI MONTI Itinerari tra arte, fede e natura. IN MOSTRA Abramović a Firenze, Fotografia e Astrattismo a Londra, Puccini e l'arte a Lucca, Arte islamica a Firenze, Pittura a Gubbio al tempo di Giotto. Direttore: Philippe Daverio