Grandi mostre. 2 
Marina Abramović a Firenze

DEL PASSATO,SOLO CIÒ
CHE SERVE

Il direttore di Palazzo Strozzi e curatore della prima retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramović ci presenta il lavoro della protagonista della Performance Art, capace ancora di reinventarsi e pronta, dopo oltre cinquant’anni di attività, a eliminare il superfluo per mantenere viva l’essenza.

Arturo Galansino

Il titolo della mostra The Cleaner, a Palazzo Strozzi, a Firenze, fa riferimento a una riflessione di Marina Abramović sulla propria vita: «Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino». Ciò che resta dopo questo repulisti esistenziale si trova nella prima grande retrospettiva italiana a lei dedicata, allestita in tutti gli spazi espositivi di Palazzo Strozzi - piano nobile, Strozzina, cortile - e che con oltre cento opere abbraccia più di mezzo secolo di attività, dai primi anni Sessanta a oggi, della «nonna della Performance Art», come lei stessa ama definirsi. 

Per la prima volta, inoltre, una donna è protagonista assoluta di una mostra di Palazzo Strozzi, e lo fa con un impressionante percorso umano e professionale, frutto di un lavoro sempre in divenire, attraverso il quale l’artista continua instancabilmente a sviluppare i propri mezzi espressivi.


Le immagini riprodotte in questo articolo riguardano performace realizzate solo da Marina Abramović , dove non diversamente indicato. Ulay/Marina Abramović , Relation in Space (luglio 1976), performance di 58 minuti, 38. Biennale d’arte di Venezia.

Marina (1946) nasce nella Jugoslavia di Tito da una famiglia di eroi della seconda guerra mondiale, atei, convinti comunisti e sostenitori del regime, ma viene allevata da una nonna fervente cristiana ortodossa. Frequenta l’Accademia di belle arti di Belgrado dal 1965 al 1970 ed esordisce giovanissima come pittrice. Della sua prima produzione, praticamente sconosciuta al pubblico, sono esposti in mostra dipinti in cui sono ripetute scene di incidenti di camion e studi astratti di nuvole, e dove l’artista già sta cercando altri strumenti di comunicazione. 

Tra il 1970 e il 1973 continua gli studi all’Accademia di belle arti di Zagabria cominciando a usare il proprio corpo come mezzo artistico e, non appena scopre le potenzialità dell’arte performativa, abbandona ogni altra forma creativa. Momento di svolta è l’incontro con Joseph Beuys, nel 1973, e quelli con altri padri nobili della Performance Art come Chris Burden e Vito Acconci. Da qui nascono le prime, epocali performance degli anni Settanta, in cui Marina mette alla prova il proprio corpo, le sue capacità espressive e di resistenza, come la serie Rhythm (1973-1975), Lips of Thomas (1975), Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful (1975) o la serie Freeing (1975). Il 1975 è un anno prolifico, importante per Marina anche perché conosce l’artista tedesco Ulay (1943; vero nome Frank Uwe Laysiepen) cui la lega fino al 1988 un profondo rapporto sentimentale e professionale: una simbiosi artistica e personale che rappresenta un unicum nella storia della Performance Art. Da questo sodalizio nascono pietre miliari dell’arte performativa in cui il tempo viene scandito da ritmi prodotti dai loro corpi a contatto, da respiri, colpi, urla, scontri. Nel cortile di Palazzo Strozzi è anche esposto il furgone Citroën, un ex cellulare della polizia, in cui i due artisti hanno vissuto tre anni, viaggiando incessantemente per l’Europa: un moto perpetuo che ben si accorda con il loro manifesto Art Vital

Negli anni Ottanta Marina e Ulay intraprendono lunghi viaggi di scoperta antropologica, alla ricerca di una spiritualità che diventa sempre più elemento imprescindibile della loro arte. Studiano le pratiche di meditazione durante soggiorni in Australia, in India e Thailandia, inseguendo nelle culture indigene «un rapporto diverso tra corpo ed energia mentale». 

I due performer, allenandosi nel deserto australiano, sviluppano così la capacità di rimanere immobili per giorni, come faranno poi nelle serie Nightsea Crossing (1982-1986) e Nightsea Crossing Conjunction (1983), in cui vengono messe in contatto le culture aborigena e tibetana. Sempre più la coppia cerca di dilatare gli orizzonti e gli elementi temporali della propria opera.


Gesto di denuncia
e purificazione dagli orrori
della guerra nei Balcani


Balkan Baroque (giugno 1997), performance di 4 giorni e 6 ore, 47. Biennale d’arte di Venezia.

Dopo il logoramento del rapporto, il loro addio si celebra con la performance The Lovers (1988), svoltasi sulla Grande muraglia cinese. Marina parte dall’estremità orientale, mentre Ulay da quella occidentale. 

Secondo una leggenda, sotto la muraglia si nascondono draghi giganti e chi ci cammina sopra assorbe la loro energia attraverso le piante dei piedi. Da questa esperienza, seguendo la forza magnetica della terra, Marina comincia a riflettere sulla forza energetica racchiusa nelle pietre e nei minerali, che ritroveremo declinata nella serie dei Transitory Objects degli anni Novanta-Duemila. L’incontro con l’ormai ex compagno, avvenuto dopo aver percorso ciascuno duemilacinquecento chilometri, pone fine anche alla loro collaborazione artistica. 

Dopo la separazione, Marina è in grado di ricominciare e di reinventarsi. Segnata profondamente dal dramma della guerra in Bosnia, che coinvolge anche la sua famiglia, viene invitata a rappresentare ufficialmente la Serbia e il Montenegro alla Biennale veneziana del 1997, per poi esserne improvvisamente esclusa. Non si dà per vinta e, invitata dal curatore della Biennale di quell’anno, Germano Celant, a esporre nel Padiglione Centrale ai Giardini, allestisce la sconvolgente performance Balkan Baroque in un cavernoso sottoscala. Come gesto di denuncia e purificazione dagli orrori della guerra nei Balcani, accovacciata su una catasta di ossa di bovino, l’artista puliva le carcasse dal sangue e dalle cartilagini cantando canzoni del repertorio folkloristico della ex Jugoslavia. L’impatto visivo dell’opera, con Marina tutta 23 ricoperta di sangue, era scioccante e veniva aumentato dal puzzo delle carni in putrefazione in quello scantinato. Questa ritualità sacrificale, metafora della sanguinosa guerra fratricida che stava distruggendo il suo paese natale, diventava un inno contro tutte le guerre e le faceva vincere il Leone d’oro.


The Lovers (1988), performance svolta da Marina Abramovic´ con Ulay sulla Grande muraglia cinese per celebrare il loro addio. I due artisti, partendo l’una dall’estremità orientale, l’altro da quella occidentale, si sono incontrati dopo aver percorso ciascuno 2500 chilometri.


Ulay/Marina Abramović , Rhythm 0 (1974), performance di 6 ore, Napoli, studio Morra.

I loro corpi nudi diventano cariatidi
di una porta vivente


La vittoria alla Biennale è solo un episodio tra i tanti che costituiscono il rapporto speciale di Marina con l’Italia sin dagli anni Settanta. Dalle prime, ormai mitiche performance come Rhythm 10 (1973) e Rhythm 4 (1974), realizzati rispettivamente a Roma e Milano, e il fondamentale Rhythm 0 (1975), a Napoli (dove Marina lascia che il suo corpo, in balia del pubblico, diventi oggetto di piacere o di dolore), a quelle con Ulay, come Relation in Space (1976), per la Biennale di Venezia, Relation in Time (1977), a Bologna, e l’iconico Imponderabilia (1977) - in cui i loro due corpi nudi diventano cariatidi di una porta vivente attraverso cui il pubblico deve passare -, fino alle più recenti serie Stromboli (2002) e Back to Simplicity (2010). Inoltre, non è la prima volta che i passi di Marina incrociano Firenze: nel 1985, molti anni prima della grande mostra di Palazzo Strozzi, l’artista lavorò a Villa Romana, ancora insieme a Ulay, alla “pièce” Fragilissimo, che sarà poi messa in scena ad Amsterdam e Stoccolma. Sempre in Toscana poi, ma già da sola, Marina esegue la performance Mambo a Marienbad all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra (2001). 

L’arte di Marina è effimera, basata su una durata temporale che si è dilatata con gli anni: dalle poche ore delle performance degli anni Settanta ai dodici giorni di The House with the Ocean View (2002), passati in una “casettapalcoscenico” nella Sean Kelly Gallery di New York, fino ai tre mesi di The Artist is Present (2010) al MoMA, durante i quali è rimasta per 736 ore e 30 minuti muta e immobile, senza mangiare, bere o andare alla toilette, fissando i visitatori con gli occhi pieni di dolore. Questa comunicazione di energia spirituale ed emotiva tra artista e pubblico è diventata negli anni sempre più elemento fondamentale dei suoi lavori. 

La Performance Art è effimera per eccellenza. Per mantenere vive le sue opere, che esisterebbero solo come documentazione d’archivio, Marina Abramović, a partire dagli anni Duemila, usa la re-performance come metodo. Esemplare di questa azione è Seven Easy Pieces (2005) al Guggenheim Museum di New York, dove l’artista omaggia i pionieri dell’arte performativa (Valie Export, Vito Acconci, Bruce Nauman, Gina Pane, Joseph Beuys, oltre se stessa) riperformando i loro lavori più celebri. Attraverso il Marina Abramović Institute for the Preservation of Performance Art (MAI, fondato nel 2010) e con il cosiddetto “Abramović Method”, sviluppato nel corso della sua carriera come pratica fisica e mentale per realizzare una performance, l’artista ha posto le basi per oltrepassare il limite della temporalità delle sue opere e reinventare l’idea stessa di performance nel XXI secolo: coinvolgendo spettatori e performer diversi, la performance stessa cambia e viene rinnovata dai differenti contesti. Così, anche a Firenze, alcuni celebri lavori di Marina Abramović sono fatti rivivere nelle sale rinascimentali di Palazzo Strozzi.


Marina Abramović con Ulay, The Artist is Present (2010), performance di 3 mesi, New York, MoMA - Museum of Modern Art.


Ulay/Marina Abramović , Imponderabilia (giugno 1977), performance di 90 minuti, Bologna, Galleria comunale d’arte moderna.


The House with the Ocean View (2002), performance di 12 giorni, New York, Sean Kelly Gallery.

ART E DOSSIER N. 357
ART E DOSSIER N. 357
SETTEMBRE 2018
In questo numero: MICHELANGELO INEDITO Il primo progetto della tomba di Giulio II. VENEZIA La biennale di architettura. I SACRI MONTI Itinerari tra arte, fede e natura. IN MOSTRA Abramović a Firenze, Fotografia e Astrattismo a Londra, Puccini e l'arte a Lucca, Arte islamica a Firenze, Pittura a Gubbio al tempo di Giotto. Direttore: Philippe Daverio