Grandi mostre. 2
William Eugene Smith a Bologna

NEL BUIO DELLA CITTÀ,L’ESSENZA DELLA VITA

Solitario e tormentato, William Eugene Smith ha trovato nella fotografia la strada per catturare l’autenticità delle cose.
Difficilmente classificabile come puro fotoreporter, puntava il suo obiettivo non solo per documentare ma anche e soprattutto per esprimere il suo impeto creativo, incarnato nella sua forma più alta negli scatti dedicati a Pittsburgh.
Ce ne parla qui il curatore.

Urs Sthael

All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso il sistema della stampa illustrata aveva raggiunto un suo primo momento culminante. Inventata e sviluppata nell’Ottocento quale forma abbreviata e parallelo visivo della novella o del romanzo borghese, negli anni Venti la fotografia iniziava la sua marcia trionfale grazie a numerose novità, come la macchina da stampa veloce, la rotativa, il procedimento a scala di grigi, la stampa a due e a più colori. Pioniere in Germania furono la “Berliner Illustrierte Zeitung” e la “Arbeiter Illustrierte Zeitung”, con una tiratura che superava, in entrambi i casi, le cinquecentomila copie. Negli anni Trenta questa nuova forma di “storytelling”, con molte fotografie e testi di accompagnamento, si diffuse in tutti i paesi, dapprima in Europa, quindi anche negli Stati Uniti. Parallelamente, la Leica introdusse una rivoluzione nelle procedure e nei modi della fotografia. Nel 1914 Oskar Barnack inventò la prima Leica, nel 1925 la Leica I iniziò a essere prodotta in serie e fu presentata alla fiera di Lipsia nei primi mesi dell’anno; nel 1932 arrivò il vero successo commerciale con la Leica II, che aveva telemetro incorporato e obiettivi sostituibili. Immediatamente la fotografia divenne leggera, mobile, a portata di mano, dinamica, abbandonò la rigidità dello stativo, il criterio di misura dell’altezza degli occhi; fin da subito fu possibile viaggiare per il mondo e inviare resoconti fotografici da qualunque luogo in modo rapido, versatile e vivido. I pionieri del reportage fotografico di documentazione sociale - Jacob Riis e Lewis Hine, tra gli altri - trovarono valanghe di successori. Erich Salomon, Henri Cartier-Bresson, Germaine Krull, Margaret Bourke-White, Werner Bischof, Robert Capa sono solo alcuni dei fotoreporter di fama mondiale; “Picture Post”, “Paris Match”, “Life”, “Sports Illustrated”, “Daily Mirror” e “Daily Graphic” rappresentano alcuni dei periodici più celebri dell’epoca. 

È questo il periodo in cui nacque William Eugene Smith, più precisamente nel 1918 a Wichita, nel Kansas. Già a sedici anni iniziava a fotografare e pubblicare.


Tutte le foto qui riprodotte sono state realizzate da William Eugene Smith nel 1955- 1957 e provengono dal Carnegie Museum of Art di Pittsburgh. Ragazza accanto a un parchimetro, Camera di commercio di Shadyside, Walnut Street.

Le sue immagini, a volte, erano perfino cupe, non intendevano descrivere il mondo ma contenerlo


Dopo il suicidio del padre, una tragedia per la famiglia, studiò fotografia all’Università di Notre Dame in Indiana, ma dopo un anno abbandonò i corsi, si trasferì a New York e proseguì come “freelance” per la Black Star Agency e, tramite quest’agenzia, per molte importanti riviste americane quali “Collier’s”, “Parade”, “Time”, “Fortune”, “Look” e “Life”. Dal 1944 cominciò a viaggiare come corrispondente di guerra per “Life”, fu gravemente ferito in Giappone e dal 1947 al 1954 lavorò a tempo pieno per lo stesso magazine. In pochi anni diventò, insieme a Margaret Bourke- White, uno dei grandi eroi del reportage e del saggio fotografico. Il medico di campagna, Vita senza germi, Il villaggio spagnolo, La levatrice, Charlie Chaplin al lavoro, Il regno della chimica e Un uomo compassionevole sono, oggi come allora, tra i servizi più noti che siano mai stati realizzati per riviste illustrate. Sequenze di fotografie che intendevano rappresentare di per sé il nucleo essenziale di una storia, accompagnate da didascalie e infine corredate da un testo: le fotografie di Smith andavano molto oltre i consueti reportage fotografici. Le sue immagini erano buie, a volte perfino cupe, non intendevano descrivere il mondo ma contenerlo, non riprodurlo ma darlo Forgiatore. alla luce loro stesse. 

John Berger, il celebre storico dell’arte inglese recentemente scomparso, fa derivare l’arte di Smith dalla figura di sua madre - donna forte, scontrosa e molto credente -, dal conflitto con lei, a cui pure il fotografo era legato da un grande e corrisposto amore, dal conflitto con il mondo intero, dalla ricerca della verità nelle cose. «Per lui l’arte era una specie di redenzione. Musica e parole facevano da contorno al dramma della ricerca della bontà. La fotografia rappresentava il suo modo di cercarla, la sua ricerca. […] Era un solitario. Era alla ricerca di una verità che, per sua natura, non era palese. Una verità che aspettava di essere rivelata da lui e da lui solo. […] Il suo eccezionale uso del bianco e nero era strettamente connesso al suo senso della vocazione. Attraverso l’oscurità Smith si appropria del mondo: lo trasforma in un cupo, terribile, teatro morale dove le anime cercano bellezza o redenzione. [...] Oscura, per Smith, era la valle dell’ombra della morte. La luce era speranza»(*)

Al culmine della sua fama di fotografo per riviste, dopo soli sette anni di impiego a tempo pieno per “Life” - seguiti da un altro paio d’anni di lavoro su commissione - nel 1954 Smith abbandonò tutto e lasciò la rivista per un diverbio. Era un fotografo difficile, il suo modo di portare avanti le commissioni ricevute era complesso, tortuoso, non consegnava mai un lavoro in tempo, non era mai soddisfatto del layout delle immagini, dell’impaginazione, dell’intensità delle foto stampate, delle didascalie, dell’intera presentazione della “story”, come si diceva. Si liberò dal sistema degli incarichi, dal lavoro dipendente, alla ricerca di maggiore profondità, autenticità, sospinto dal desiderio di trovare l’assoluto, di essere davvero pronto e presente nei rarissimi attimi in cui la verità della vita si manifesta nelle apparenze del mondo.


Forgiatore.


Area residenziale.


Operaio di un’acciaieria che prepara le bobine.

(*) J. Berger, Pietà: W. Eugene Smith, in W. E. Smith, The Big Book, Austin 2013, passim. Questo testo è un estratto-sintesi del saggio di Urs Sthael, Poesia per una città, poesia per il mondo, pubblicato nel catalogo della mostra W. Eugene Smith (Bologna, Fondazione Mast - Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia, 17 maggio - 16 settembre 2018), a cura di Urs Sthael, Bologna 2018.

Il suo eccezionale uso del bianco e nero era strettamente connesso al suo senso della vocazione


La rottura con la stampa, con le riviste, con i media, rappresentò una cesura nella sua vita, e da ultimo anche una frattura con la famiglia, con la moglie Carmen Martinez e con i quattro figli. Si trovò di fronte a un grande bivio personale e professionale: fu costretto a vendere la sua casa a Croton-on-Hudson (nello Stato di New York) e si trasferì a New York City, in un loft all’interno di un edificio in cui suonavano jazz, sulla Avenue of the Americas, dalle parti del tratto meridionale della 20th Street, in quello che un tempo era il Flower District di Manhattan. Ad acuire il suo isolamento gli giunse la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, tra le ottanta e le cento foto della città di Pittsburgh. L’incarico si trasformò gradualmente nel progetto più ambizioso della sua vita, e poi nel suo fallimento più doloroso. Invece che per un paio di mesi, Smith continuò a fotografare per due o tre anni, rimanendo poi impegnato per il resto della vita in innumerevoli tentativi di produrre, a partire dai quasi ventimila negativi e duemila “masterprints”, il grande colpo, il libro definitivo su Pittsburgh, la città industriale più famosa del primo Novecento: sulla città dell’acciaio, sul suo capitale, sulla cultura delle persone, sugli operai, sull’anima di questa metropoli nella parte sudoccidentale dello Stato della Pennsylvania, in una conca situata alla confluenza tra i fiumi Monongahela e Allegheny e il fiume Ohio. 

Smith non riuscì a soddisfare le proprie aspirazioni, che non potevano essere più ambiziose. Voleva creare l’assoluto, cogliere i momenti in cui tutta la verità della vita - cielo e inferno, luce e ombra - si manifestava negli avvenimenti effimeri della città. Stephan Lorant, il committente, aspettò per due anni le foto che aveva ordinato. “Life” offrì a Smith tredicimila dollari per i diritti d’autore e per pubblicare sulla rivista una “story” così ampia, ma Smith rifiutò. Alla fine si conquistò trentasei pagine sulla rivista “Photography Annual 1959” e cercò di ottenere il massimo su pagine di piccolo formato, con un contributo dal titolo Pittsburgh. W. Eugene Smith’s Monumental Poem to a City. E fallì miseramente. Poco prima di morire, nel 1978, lasciò al Center of Creative Photography di Tucson, Arizona, di recente fondazione, il suo archivio: decine di migliaia di negativi, migliaia di stampe, lettere, un’enorme mole di appunti e quasi quattromilacinquecento ore di registrazioni su nastro delle “jazz sessions” nel loft di New York. Oltre a questo grande archivio, quasi seicento scatti di Pittsburgh si trovano nelle raccolte del Carnegie Museum of Art a Pittsburgh. È da questa collezione che abbiamo tratto il materiale per la mostra alla Fondazione Mast. 

William Eugene Smith lottava per rappresentare l’assoluto. Ben lungi dall’accontentarsi di documentare il mondo, voleva “afferrare”, almeno in alcune immagini, niente di meno che l’essenza stessa della vita umana.


Bambini che giocano tra Colwell Street e Pride Street, Hill District.

Riferendosi alla veglia al capezzale di un moribondo, o alla Pietà, la foto in bianco e nero forse più straordinaria, in cui una madre solleva dal quotidiano bagno d’olio la figlia completamente paralizzata a seguito dell’avvelenamento da mercurio nel mare giapponese di Minamata, John Berger mostra il modo in cui Smith combina e contrasta linee orizzontali e verticali: la vittima con il carnefice, i morti con i vivi, l’amore con l’odio, in senso metaforico anche il Cristo defunto con il Risorto. «Ed eccoci arrivati al fulcro del suo genio. [Smith] accettava la visione del mondo severa e punitiva della madre, ma la giudicava meno duramente di lei perché aveva trasformato l’amore scoperto per suo tramite in un principio da perseguire dovunque andasse. L’amore è sempre, tra le altre cose, pietà. È l’amore della figura verticale. L’amore di chi piange e di chi cura; l’amore del sopravvissuto per i morti». 

Dobbiamo a lui, fotografo pressoché folle, uno dei ritratti di città più grandiosi e alcune delle fotografie più profondamente umane che si conoscano, nonostante egli abbia lottato invano per vent’anni della sua vita per passare dalla rappresentazione al quadrato nero (come Malevič), dall’immagine alla reliquia, dall’effimero alla verità. Nella storia della fotografia nessuno mai aveva tentato questa impresa con una tale tormentosa veemenza: Smith non voleva rappresentare il sangue, lui cercava il sangue.


Stabilimento National Tube Company, U.S. Steel Corporation, McKeesport, e ponte ferroviario sul fiume Monongahela;


Deposito U.S. Steel, Rankin.

W. Eugene Smith. Pittsburgh, ritratto di una città industriale

Bologna, Fondazione Mast - Manifattura di arti, sperimentazione
e tecnologia
a cura di Urs Sthael
fino al 16 settembre; orario 10-19, chiuso lunedì
catalogo Mast - Electa
www.mast.org

ART E DOSSIER N. 356
ART E DOSSIER N. 356
LUGLIO-AGOSTO 2018
In questo numero: ESTATE AL MUSEO La Rubenshuis di Anversa, il Museo diocesano di Feltre. I RESTAURI E LE SCOPERTE Pisa: gli affreschi restaurati; Pontormo: un nome per un ritratto. IN MOSTRA Christo a Londra, W.E. Smith a Bologna, Matisse ad Aosta, Kupka a Parigi, La collezione Agrati a Milano, Traiano a Roma.Direttore: Philippe Daverio