Grandi mostre. 1 
Franco Fontana a Bergamo

RENDERE VISIBILE
L'INVISIBILE

mente i segni premonitori degli attentati che distrussero le torri di New York l’11 settembre. Poi tutto ritornò nell’ordine, in una Pax Amerikana sofferta che sembrava volere il riscatto mondiale con la supremazia senz’appello della propria arte e dei propri commerci: Venezia si faceva sommesso palcoscenico a disposizione del miglior offerente. E l’arte tornò a consolidarsi nel retrobottega delle gallerie del dollaro per manifestarsi in mondane epifanie fra fondazioni di ditte del prêt-à-porter o aziende del lusso in palazzo Grassi.Fotografare per esprimere il proprio punto di vista, per palesare l’essenza delle cose. Così Franco Fontana vive la fotografia: immagini cariche di memoria pittorica ma soprattutto dettate dall’intimo desiderio di scoprire ciò che si nasconde dietro l’evidenza della natura, del quotidiano, tra luci e ombre, forma e colori, spazio e tempo.

Mauro Zanchi

per Franco Fontana la fotografia è un pretesto per testimoniare la sua visione del mondo, espressa attraverso una fascinazione legata a quanto di invisibile si nasconde dietro al paesaggio (così come appare) e al mistero del colore: «Fotografare è un atto di conoscenza: è possedere. Quello che si fotografa non sono immagini ma è una riproduzione di noi stessi. La creatività non illustra, non imita, ma interpreta diventando la ricerca della verità ideale. La fotografia creativa non deve riprodurre ma interpretare rendendo visibile l’invisibile». Molte sue immagini sono astrazioni interiori, incontrate e riconosciute nel paesaggio. Esemplari sono gli orizzonti marini, fotografati dal 1962, colti in rapporti elegiaci tra i colori del cielo e del mare, che ricordano opere astratte, soprattutto dell’ultimo periodo di Mark Rothko. Pur rifacendosi a una tradizione di matrice pittorica, Fontana lascia intendere con i suoi scatti che ognuno dev’essere testimone di quello che vede, in modo personale, e spostare ulteriormente altre questioni, domande, approfondimenti, per indagare ciò che sta oltre il velo della prima impressione. I suoi orizzonti marini sono notevoli esempi di quanto si è appena detto, di “abstrait trouvé”, visioni di un mondo interiore, intimo, quasi sacrale, ritrovato nella natura. Nel 1980 questa modalità affascina anche Hiroshi Sugimoto, nella serie Seascapes, declinata in bianco e nero, ma con altri riferimenti derivati dalla sua cultura e dalla tradizione giapponese.



Orizzonti marini colti in rapporti elegiaci
tra i colori del cielo e del mare


La complessità cromatica visibile nelle fotografie di Fontana, invece, è da leggere come qualcosa che viene emanato nella co-azione fra paesaggio, sensazioni fisiologiche, emozioni e interpretazioni psicologiche, dentro un divenire che genera vita. E il colore poi si fa spazio nella natura, nelle città, nelle strutture architettoniche, nelle strade, nei segni del tempo. La figura umana, nel paesaggio urbano, è una parte funzionale al tutto. Molto spesso è presente in negativo, in forme d’ombre, lì a fungere da simulacro della presenza-assenza, come se Fontana volesse necessariamente sottrarre qualcosa in funzione di equilibri e di rapporti cromatici e luminosi, per comprendere un universo ancora sconosciuto. E le sue fotografie testimoniano la vita che svolge in superficie la sua non superficialità: rivelano qualcosa che può essere colto nella semplice complessità del reale, che continua a reiterare accadimenti quotidiani nella mutevolezza, con lievi variazioni. Per Fontana capire il rapporto poetico fra forma, colore, spazio e tempo significa trovare una chiave di lettura indispensabile: «La forma è la chiave dell’esistenza, ed io cerco di esprimerla fotografando lo spazio, in correlazione con le cose coinvolte in esso. Lo spazio non è ciò che contiene la cosa ma ciò che emerge in relazione alla cosa. Tutto ciò che ci circonda può venire ripreso per essere testimoniato con significato. Non si può conoscere l’essenza delle cose se si crede che un fiore sia solo un fiore, che una nuvola sia solo una nuvola, che il mare sia solo il mare: vorrebbe dire che la conoscenza si limita alla superficie, mentre l’esistenza risiede nel contenuto».


Palazzo della civiltà, Eur, Roma (1979).

Orizzonte, Comacchio (1976).

Fontana cerca di rendere visibili i contenuti della superficie, per tradurre in immagini, attraverso innumerevoli svolgimenti nei colori, l’essenza delle cose, il loro aspetto meno consueto, celato dall’evidenza. Ovviamente agisce seguendo la sua visione e le sue proiezioni sul mondo, nella speranza di cogliere ogni volta un aspetto nuovo di ciò che non si vede di solito nel flusso quotidiano. I numerosi tentativi seguono un’indicazione che giunge direttamente dalla natura, ovvero da un organismo che continua a mutare e a spostare qualcosa pur rimanendo sempre quello che è dall’origine.
In Palazzo della civiltà, Eur, Roma (1979) una persona entra in campo, parzialmente, nella scena costituita da una scansione ritmica di ombre riflesse sulle pareti. In fondo, nel lato destro, una statua vista di spalle è rivolta verso le chiome di alti alberi secolari. Ricorda la sagoma scura presente in Ulisse e Calipso (1883) di Arnold Böcklin, ripresa da de Chirico in L’enigma dell’oracolo (1910) e in La meditazione autunnale (1912), assunta a simulacro dell’enigma metafisico. L’ombra, essendo un prodotto di proiezione, non può esistere senza una superficie che la renda percepibile. Quindi non può vivere nella sostanza leggera dell’aria o del cielo. Ha bisogno del suo contrario, del peso o della solidità, per svolgere la sua azione. L’ombra sembra leggera, ma è destinata a essere così pesante da rimanere sempre zavorrata alla terra, aderente agli schermi e alle pareti del mondo visibile. Nella fotografia Parigi (1979), Fontana coglie un momento che può essere proiettato in un non-tempo, dove le ombre vivono in due dimensioni diverse, una reale e una riprodotta da una meta-fotografia, un’immagine nell’immagine, uno schermo dentro le architetture della città, come in un cartellone pubblicitario che anticipa ogni metafora e si frappone allo sfondo del cielo: all’interno dell’ombra visibile pulsa un’altra ombra invisibile? Come sono da interpretare queste ombre? Sono manifestazioni di altri significati proiettati attraverso i nostri pensieri, o, come immagina Pindaro, «l’uomo è sogno di un’ombra»? La proiezione immateriale e oscura è anche da considerare come la memoria in tempo reale della luce, qualcosa che conserva la traccia di ogni accadimento. D’altronde l’etimo greco 25 rivela questa sottigliezza, poiché la parola “skia” significa sia “ombra” sia “traccia”. Siccome il termine “skotos” indica l’oscurità, si può congetturare che le ombre celino tracce di problematiche di coloro che le proiettano. I modelli bidimensionali proiettati dai corpi permettono, a colui che sa parlare con le ombre, di cogliere interessanti intuizioni.

Un non-tempo, dove le ombre vivono in due dimensioni diverse,
una reale e una riprodotta da una meta-fotografia


Due scatti della serie People (1986) sono emblematici per immergersi nell’atmosfera filmica ricreata da Fontana, che nelle strade di New York ha colto abitanti illuminati da luci molto particolari, filtrate dalle distanze tra i vari grattacieli, da riflessi del sole e dai movimenti delle ombre sulle facciate. Sono sublimi testimonianze della bellezza, banale e seducente al contempo, nel quotidiano scorrere dei giorni, carpite dalla macchina fotografica come in un momento magico e irripetibile. Le persone paiono muoversi in un acquario immaginifico, dove si sta manifestando l’eccezionalità di un momento estatico, catturato per caso, pescato nel flusso imperturbabile di una metropoli. E pur diametralmente opposta, anche la fotografia People - Collina del Modenese (1986) evoca qualcosa di straordinario in un contesto appartato, rurale, ai margini della provincia, dove le persone si sono riunite, a debita distanza l’una dall’altra (paiono aste di meridiane che proiettano ombre a terra), e sembrano attendere una rivelazione dall’alto, un evento spettacolare o un’apparizione.


Los Angeles (1979).

Parigi (1979).

Nella fotografia Los Angeles (1979) le strisce segnaletiche di una strada, i colori bianco, giallo e mattone, le gradazioni dei grigi dell’asfalto e del marciapiede dialogano con analoghi colori presenti all’interno di una vetrina, dove un manichino femminile con abito nero e giacca rossa fissa oltre il vetro una pausa silenziosa del tempo, colta da Fontana nella frenesia della metropoli, una strada vuota, dall’apparenza più astratta che reale. Lo scatto del fotografo cattura anche l’istante in cui un’auto bianca passa in corsa e lascia la sua immagine sulla superficie riflettente della vetrina, come fosse un fantasma che testimonia la “trascorrenza” nello spazio e nel tempo, lì oltre l’immobilità silente del manichino.
Immaginiamo le ombre, le sagome o i simulacri come presenze di un pensiero parallelo, ovvero come frammenti percepiti dalla mente, senza che venga attivato il pensiero razionale. Intanto il sole continua a spostare le ombre sulle meridiane del tempo e del non tempo, le ombre delle nuvole sulle terre e sulle abitazioni, le ombre della coscienza e le luci della consapevolezza, oltre la levità del nulla. E in questa superficie si muovono i contenuti dei colori, le loro connessioni, il loro mistero.

New York (1986);


New York (1986).

ART E DOSSIER N. 355
ART E DOSSIER N. 355
GIUGNO 2018
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO Quando l'arte annuncia le rivoluzioni: i primi sintomi del Sessantotto. SAVE ITALY Il sito di Casignana in Calabria. IN MOSTRA Franco Fontana a Bergamo, Black & White a Düsseldorf, Abscondita a Bassano, Cassatt a Parigi.Direttore: Philippe Daverio