XX secolo
Gli artisti che anticiparono il Sessantotto

La RIVOLTA
HA I SUOI SINTOMI

L’arte previene gli eventi. Soprattutto quelli rivoluzionari. Accadde così anche per il Sessantotto: a chi avesse saputo leggere gli indizi giusti - rovistando fra esistenzialisti e situazionisti - già il decennio precedente avrebbe rivelato i contorni di un cambiamento imminente nell’arte, nei costumi, nella società.

Philippe Daverio

Le grandi mutazioni della Storia, sia quella del costume che quelli talvolta più drammatici della politica, sono solitamente annunciati da eventi artistici, sia letterari che visivi, che ne contengono già i germi ideali. È successo, così, che quattro anni prima della Rivoluzione francese del 1789 Jacques- Louis David dipingesse il Giuramento degli Orazi che esaltava la virtù politica della “res publica” romana antica. È successo così che il Nabucco di Giuseppe Verdi, presentato alla Scala di Milano nel marzo del 1842, anticipasse una volontà d’emancipazione che gli spettatori di quell’augusto teatro stavano covando e che sarebbe esplosa nel marzo di sei anni dopo durante le Cinque Giornate.
Le arti in quest’ottica si trovano a esprimere sentimenti non ancora del tutto individuati dallo stesso pubblico. L’arte ha una duplice funzione: è preveggente e può sentirsi anche stimolatrice. Gli spettacoli teatrali provocatori di Marinetti infiammavano gli animi e generavano risse nei teatri ancor prima della pubblicazione del suo Manifesto a Parigi il 20 febbraio del 1909: a Trieste recitava poesie provocatorie già nel marzo del 1908 e declamava l’Inno all’automobile esaltando lo scoppiettare dei motori. Con la stessa passione per i motori, Gabriele D’Annunzio sorvolava la medesima città nell’agosto del 1915, a guerra iniziata, per lanciare manifesti irredentisti.
Il 1968 fu innegabilmente un anno di presa di coscienza in tutta Europa, e di mutazioni della percezione pubblica con conseguenze radicali sui comportamenti dei singoli. Le cose erano nell’aria da oltre un decennio e venivano agitate nelle menti degli intellettuali quanto nel fare degli artisti.


Le grand tableau antifasciste collectif (1960), di Jean-Jacques Lebel e altri, Nantes, Musée des Beaux-Arts.

Si stava formando sin dai primi anni Sessanta una sensibilità che avrebbe portato a una percezione collettiva


Già nel 1954 il cantautore poeta e scrittore Boris Vian a Parigi aveva composto ed eseguito negli ambienti esistenzialisti una canzone che divenne immediatamente mitica, Le déserteur. In quell’anno la Francia stava per concludere la disastrosa guerra d’Indocina e vedeva iniziare la guerra d’Algeria con i massacri dell’“Ognissanti rosso” del mese di novembre. «La canzone venne proibita in modo particolare per via degli ultimi versi: S’il faut donner son sang / Allez donner le vôtre / Vous êtes bon apôtre / Monsieur le Président / Si vous me poursuivez / Prévenez vos gendarmes / Que je n’aurai pas d’armes / Et qu’ils pourront tirer» (Se occorre versare il proprio sangue / Vada a versare il suo / Lei è buon apostolo / Signor presidente. / Se mi perseguite / Avvertite i vostri gendarmi / Che non avrò io armi / E che potranno sparare).
Il seme è gettato e molti giovani francesi si rifugeranno oltre frontiera per non finire nel carnaio. Si tratta della prima manifestazione d’opposizione politica per un’intera nuova generazione pacifista. A Parigi appare nel 1960 il Manifeste des 121, una pubblicazione nella quale centoventuno intellettuali e artisti si dichiarano a favore della disobbedienza militare.
Alcuni artisti d’origine francese si ritrovano a Milano e si legano alle nuove leve italiane. Così nasce nello stesso anno un grande dipinto dal titolo Le grand tableau antifasciste collectif, che viene realizzato “collettivamente”, appunto, dal francese Jean- Jacques Lebel assieme a Enrico Baj, Roberto Crippa, Gianni Dova, Antonio Recalcati e un curioso islandese dallo pseudonimo Errò (Gudmundur Gudmundsson). L’opera viene esposta nel giugno del 1961 in una mostra collettiva intitolata Anti-Procès III, alla quale partecipano con loro opere César e Lucio Fontana, gli artisti pop Raymond Hains e Robert Rauschenberg, gli avanguardisti Jean Tinguely e Cy Twombly assieme a intellettuali come Alain Resnais, Michel Leiris (l’antropologo, marito della Louise 19 Leiris della nota, omonima galleria dove esponeva Picasso), la scrittrice Nathalie Sarraute e il guru Jean-Paul Sartre. Il dipinto viene posto sotto sequestro dalla questura di Milano. Riemerge dagli scantinati di polizia negli anni Novanta e viene esposto all’Hôtel national des Invalides nel 1992.
Si stava quindi formando sin dai primi anni Sessanta una sensibilità che in poco tempo avrebbe portato alla percezione collettiva delle mutazioni sessantottine. Milano pubblicava allora una piccola rivista underground dal nome “BiT”, la quale riprendeva parecchi fra i moventi etici del situazionismo e fu fra le prime a stampare testi provocatori. Lo stesso situazionismo era sorto attorno a Guy Debord e ai suoi amici a Cosio, un paesino montano dell’entroterra ligure posto sopra a Imperia, quindi a un passo dalla Francia ma in territorio apparentemente neutro. Lì, nell’estate del 1957 alcuni componenti dell’Internazionale lettrista assieme a praticanti londinesi della psicogeografia (analisi critica dei rapporti tra ambiente e psiche), si erano fusi con esponenti del gruppo olandese di CoBrA e del Movimento per una Bauhaus immaginista: un’accozzaglia sostanzialmente tanto simpatica quanto improbabile si ritrovò così a prendere aria fresca e a inventare aria nuova.


Guy Debord al III congresso dell’Internazionale situazionista a Monaco di Baviera nell’aprile 1969.

Guy Debord col gruppo lettrista a Cosio (Imperia) nell’estate 1957.


Una radicale critica
alla società dei consumi


Nel 1967 la rivista “Internationale situationniste”, diretta da Debord, riprende le tesi di Marx e di Feuerbach: «Occorre realizzare la filosofia», e suggerisce che è venuto il tempo di realizzare l’arte. Nello stesso anno Debord pubblica La société du spectacle, una radicale critica alla società dei consumi che prende spunto dal pensiero marxista eterodosso di Georg Lukács. Segue la stampa del Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes générations del situazionista Raoul Vaneigem.
Si combinano, questi testi, nella mente delle giovani generazioni d’intellettuali d’avanguardia, con le tesi di Herbert Marcuse, berlinese diventato americano. In Eros e civiltà del 1955 sostiene la tesi opposta a quella di Freud in Il disagio della civiltà: la liberazione dell’individuo passa dalla liberazione della società in cui vive. La questione da individuale si fa quindi sociale. E la pubblicazione in Italia del suo testo centrale L’uomo a una dimensione, presso Einaudi, nel 1967 diventerà la bibbia della generazione sessantottina più avveduta.
Il resto è storia nota: a Parigi s’accende la miccia del maggio, a Roma avviene la repressione di Valle Giulia che Pasolini non condivide, a Milano la città s’infiamma per la stolta repressione poliziesca degli studenti all’Università cattolica in largo Gemelli e viene immediatamente occupata la Triennale, a Torino si scende in piazza e a Venezia si inaugura la Biennale che viene a sua volta occupata per trasformarsi in arena del dibattito politico artistico.
La rivoluzione non ci sarà, ovviamente, se non nei costumi. I capelli si allungano definitivamente, la libertà sessuale si diffonde allegramente, almeno fino al diffondersi ansiogeno dell’Aids vent’anni dopo, le arti mutano: si faranno protagonisti gli artisti concettuali e i pensatori dell’arte povera, la quale deve la sua stessa legittimazione linguistica all’esaltazione d’una autentica frugalità antiborghese. Si tentò un riscatto della pittura di tradizione con i Neue Wilde germanici e la Transavanguardia italica.
Durò questa militanza fino a tutta la Biennale di Harald Szeeman nel 2001, quella nella quale apparvero addirittura profeticamente i segni premonitori degli attentati che distrussero le torri di New York l’11 settembre. Poi tutto ritornò nell’ordine, in una Pax Amerikana sofferta che sembrava volere il riscatto mondiale con la supremazia senz’appello della propria arte e dei propri commerci: Venezia si faceva sommesso palcoscenico a disposizione del miglior offerente. E l’arte tornò a consolidarsi nel retrobottega delle gallerie del dollaro per manifestarsi in mondane epifanie fra fondazioni di ditte del prêt-à-porter o aziende del lusso in palazzo Grassi.


Il terzo numero di “Internationale Lettriste” (1953).

Guy Deboord, The Naked City (1957).

momento della manifestazione contro la BIennale di Venezia del 1968.


momento della manifestazione contro la BIennale di Venezia del 1968.

ART E DOSSIER N. 355
ART E DOSSIER N. 355
GIUGNO 2018
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO Quando l'arte annuncia le rivoluzioni: i primi sintomi del Sessantotto. SAVE ITALY Il sito di Casignana in Calabria. IN MOSTRA Franco Fontana a Bergamo, Black & White a Düsseldorf, Abscondita a Bassano, Cassatt a Parigi.Direttore: Philippe Daverio