La pagina nera

MA QUI SONO PADRONI
L’INCURIA E I PICCIONI

Chiesa di Sant’Antonio Abate a Rieti: progettata dal Vignola nel 1570 versa, dal 1972, in una condizione di grave sofferenza. Tra i pochi interventi, i terremoti - causa di pesanti lesioni -, i fondi mai spesi, l’occupazione abusiva, il prezioso edificio potrebbe avere i giorni contati. A meno che qualcuno non decida di porre fine a questo scempio.


di Fabio Isman

Jacopo Barozzi da Vignola (1507-1573), di solito conosciuto con il solo nome della città in cui è nato, è stato tra i maggiori architetti e teorici del suo tempo. Aveva iniziato, come assistente di Francesco Primaticcio, nel cantiere di Fontainebleau. Del 1562 è la Regola delli cinque ordini d’architettura, fino all’Ottocento assai diffusa in tutta Europa; e suoi sono, per esempio, palazzo Farnese a Caprarola e villa Lante a Bagnaia (entrambi in provincia di Viterbo), o, a Roma, villa Giulia, la chiesa di Sant’Andrea in via Flaminia e la chiesa del Gesù, la facciata di Santa Maria dell’Orto, gli Orti farnesiani al Palatino, il progetto per Sant’Anna dei Palafrenieri in Vaticano e uno, mai eseguito, per la facciata di San Petronio a Bologna, e tanto altro ancora. Ma, in pieno centro a Rieti, gli appartiene anche la chiesa di Sant’Antonio Abate: lo documenta un pagamento del 1570, quando il Vignola aveva sessantatre anni e gliene mancavano tre per andarsene. Solo che, da quasi mezzo secolo, quarantasei anni per essere precisi, nessuno si ricorda più di questo edificio di culto. E il luogo versa in un incredibile stato di abbandono: le scritte all’interno mostrano che è stato probabilmente teatro di messe nere, satanisti e vandalismi vari; la navata è il regno di piccioni morti e di strati di guano; l’arredamento, tutto rimosso e scomparso.

«Prima del terremoto del 2016», dice Letizia Rosati, consigliere comunale che insegna al Liceo artistico della stessa città e ha preso a cuore la vicenda, «sulla cantoria dove c’era l’organo, restava la balaustra dorata: l’avevamo vista “in situ” in un sopralluogo del 2006; poi, a terra nel 2009; ma dopo non è stata più trovata». Le pale degli altari laterali erano ancora al loro posto nel 1966, almeno secondo una fonte; ma poi, sparite, e «non se ne ha più notizia».


Per terra, trenta centimetri di guano, e carcasse di piccioni morti. Un angolo è stato usato come wc; un altro, come cucina


L’agonia inizia nel 1972: quando smette di funzionare l’attiguo ospedale, sorto nel 1337, di cui resta un bel cortile rinascimentale a quattro logge, due ordini sovrapposti, totalmente sbrecciato. Del complesso faceva parte la chiesa, i cui lavori, però, iniziano sette anni dopo che l’architetto è defunto: sicuramente sue soltanto la pianta e il progetto della facciata (1570), davanti alla quale c’è oggi un posteggio “tollerato” di automobili; si spingono fin sugli scalini d’accesso, e ne celano addirittura i pur semplici pregi: un bel portale, sei paraste, due nicchie irrimediabilmente vuote, due finte finestre. L’edificio è costruito su un terreno in discesa, sul perimetro delle mura romane: anzi, un muro laterale svela che tutta la chiesa è costruita su grandi blocchi antichi. E dal 1580 (inizio dei lavori) servono quarant’anni perché sia completata e consacrata. Soltanto nel 1752 sono terminate la decorazione interna, l’arredo pittorico e le statue dell’altare maggiore.
Ma la chiesa è l’unica sorta a Rieti sulla base dei dettami del Concilio di Trento, concluso sette anni prima del progetto del Vignola: navata unica, cappelle laterali, altare scenograficamente sopraelevato, volta a botte. Di questi canoni, il prototipo è quella del Gesù a Roma, chiesa appunto dei gesuiti, ideata dal Vignola stesso appena due anni prima di Sant’Antonio Abate e consacrata nel 1584. Quindi, il tempio di Rieti costituisce anche un documento storico, di non piccolo valore e significato.


L’interno della chiesa, visibilmente fatiscente e in completo abbandono, con l’altare maggiore e tre statue in gesso: le uniche opere rimaste.

Prima che fosse definitivamente assegnato al Vignola, il progetto era attribuito a Onorio Longhi (ma qualcuno diceva pure al figlio Martino), soprattutto per la modanatura curvilinea che corona il portale e la cornice in stucco con un drappeggio; e già nel 1635, veniva lodato; ma poi, i documenti ritrovati ne hanno inequivocabilmente dimostrato il vero autore: a luglio 1570 il Vignola riceve, per questo, dieci scudi. La facciata, con il portale scolpito da Gregorio Fontana nel 1611, segue proprio i dettami della sua Regola architettonica, e ne mostra la devozione ai modelli di Michelangelo. È in mattoni e travertino, materiali del luogo; mai rivestita di marmo, e si vedono ancora i fori per le impalcature usate durante la costruzione. Ora, vi si sono installate piante rampicanti selvatiche e gli scalini d’accesso sono sbrecciati. Dentro, tre cappelle per lato, comunicanti; ancora originale il pavimento, in cotto. Sull’altare maggiore, tre statue in gesso, tutto quanto è rimasto: rappresentano sant’Antonio, con ai lati i santi Bernardo e Balduino da Rieti. Sparita anche la targa che, evidentemente, era in facciata, sopra il portale (ma per qualcuno, non era mai stata montata). Nelle cappelle, colonne, timpani, putti, figure angeliche, lacerti di affreschi a “trompel’oeil”. In controfacciata, la cantoria già con l’organo; ma crollate le due scale a chiocciola per accedervi. Di agibile resta solo la strada antistante, intitolata al famoso architetto.


L’interno con resti di escrementi; una delle cappelle laterali con lacerti di affreschi in “trompe-l’oeil”; l’antico muro romano su cui poggia la parete orientale della chiesa.

Il terremoto del 1997, e quelli del 2009 e 2016, hanno causato lesioni alle arcate; nel 2003, stanziati i fondi per un intervento almeno di consolidamento, se non di restauro; soldi, però, mai spesi, a causa di complessi motivi burocratici. La chiesa appartiene alla Regione Lazio.

Dalla fondazione, l’attiguo nosocomio, almeno cinquemila metri quadrati e di cui sopravvive quasi unicamente un bel cortile con un loggiato rinascimentale a due piani che abbiamo già citato, è concesso a tre differenti ordini religiosi; e nel 1972, dopo decenni di amministrazione delle suore camilline, presenti a partire dal 1906, l’ospedale chiude e trasloca: resta intitolato a San Camillo de Lellis ma va in periferia, in via Kennedy; diventa un grande falansterio. È la fine: la mancanza di qualsiasi manutenzione, e l’abbandono, sono perniciosi per il complesso e per la chiesa del Vignola.

Già al primo sopralluogo del 2006 da parte del Liceo artistico con Letizia Rosati, il portone è trovato aperto. Dentro, tutto portato via. E sugli altari, strane scritte («Altare delle ossa», «della morte», «dei demoni») sono i residui di un’occupazione almeno singolare, forse di satanisti; per terra, trenta centimetri di guano, e carcasse di piccioni morti. Un angolo è stato usato come wc; un altro come cucina. Nel 2006, Rosati e il suo liceo riescono a far finire lo scandalo sui giornali locali.


Ma all’intervento della Soprintendenza sulle coperture, nel 1994, ben poco è seguito: una prima pulizia fatta eseguire dalla Regione, nel 2015, riguarda gli spazi esterni; un’altra, a maggio 2017, ha finalmente chiuso almeno le finestre e rimosso un po’ di guano; ma poi, basta. A febbraio scorso, c’erano di nuovo a terra, per esempio, un paio di piccioni morti.

A un passo dalla chiesa, l’immenso ex ospedale, esso pure abbandonato. Nel bel cortile, ancora qualche traccia di stucchi e, nell’androne, la targa dei benefattori, con ventotto nomi. Risulta che ne era il massimo contributore, con 80mila lire, Mattia Battistini (1856-1928): immenso baritono in tutto il mondo e in tutti i teatri (ma una sola volta in Argentina: paura del viaggio per mare), un maestro massone ritenuto un “arbiter elegantiarum” che trascorreva le estati a Rieti per esercitarsi con il maestro Luigi Stame. Possedeva un repertorio di ottanta opere liriche, e a settant’anni si era ritirato non lontano, a Collebaccaro, frazione di Contigliano (Rieti), dove è sepolto nella sua villa. Poco prima di andarsene, si era esibito ancora, proprio a Rieti. Ma allora, la chiesa di Sant’Antonio era in pieno fulgore. Qualcuno si deciderà, finalmente, a soccorrere questo piccolo tesoro d’arte e cultura, dichiarato ormai pericolante e quasi dimenticato?


ART E DOSSIER N. 354
ART E DOSSIER N. 354
MAGGIO 2018
In questo numero: MOSTRE D'ESTATE Guttuso a Torino, De Chirico a Rivoli, Arte e fascismo a Milano, Wolf Ferrari a Conegliano, Rodin a Treviso, High Society ad Amsterdam, Italia e Spagna a Firenze, Dürer a Milano. VILLA CARLOTTA Trecento anni di collezionismo. CAMILLE CLAUDEL Il genio, il dolore, la perdita.Direttore: Philippe Daverio