«Lusingando l’orecchio con l’arpa mostravasi vaga di maneggiare sull’arpa le linee armoniose di Apollo lei che sapeva emulare sulle tele tutte le linee colorite di Apelle»(1).
Figlia di Giovanni Andrea Sirani, tra i più fedeli seguaci di Guido Reni e creatore di un’attivissima bottega d’arte frequentata dalla migliore società bolognese, Elisabetta (1638-1655) ebbe la fortuna di ereditare dal padre la passione del dipingere mostrandosi, come scrisse Cesare Malvasia «ardita e animosa, operando in un modo che ebbe del virile e del grande, superando quasi anche il padre»(2). Colpisce quanto scrive Malvasia riguardo il «modo virile», significativo del pregiudizio largamente diffuso a quei tempi, che il genio fosse naturalmente virile, e non femminile. Fu Malvasia a incoraggiare il talento naturale di Elisabetta che, a differenza della Tintoretta e della con terranea Lavinia Fontana, non fu avviata e aiutata dal padre, piuttosto riluttante, pronto ad approfittare del di lei successo per inglobarne i guadagni nel patrimonio familiare a tal punto che Elisabetta «di soppiatto e senza saputa del padre dipingeva testicciole e picciole figurette in rame e perlopiù Madonne le più belle dopo quelle del gran Guido»(3).
Tipica di Elisabetta era la «sveltezza nel tratteggiare le figure e nello schizzarle ad acquerello tanto che la sua invenzione si poteva dire senza segni disegnata, ombrata ed insieme lumeggiata tutta in un tempo»(4); se ne ebbe la prova nel Battesimo di Cristo, accostato nella certosa di Bologna al Cristo in casa del fariseo di Giovanni Andrea Sirani, che mostra come la maniera neoveneta, assimilata dal padre in un contesto classicista di stampo reniano, si carichi di più audaci contrasti luministici e di una più ampia partitura spaziale.