XX secolo
I paradigmi progettuali di Gio Ponti

ANTROPOLOGIE
CONTEMPORANEE

Visionario, moderno ma anche legato alle proprie radici, Gio Ponti ha disegnato spazi e oggetti capaci di comunicare con le persone, in armonia, al di là del tempo e delle mode, con un autentico senso dell’abitare.


Aldo Colonetti

Per Gio Ponti abitare ha sempre significato disegnare spazi e oggetti, capaci di dialogare con le persone, senza imporre una particolare ideologia, ma cercando d’interpretare il fatto che i nuclei familiari cambiano nel tempo, per cui, senza abbattere i muri, bisogna pensare a una “leggera” e facile flessibilità compositiva. Nell’ambito di questa visione antropologica, soprattutto le sue architetture d’interni e, di conseguenza, il disegno architettonico in generale rappresentano i parametri entro i quali sono nati i suoi oggetti, di qualsiasi scala e destinati a tutte le funzioni necessarie per vivere bene nelle proprie case. Come scrive Fulvio Irace, uno dei più attenti studiosi di Ponti, «attraverso il disegno delle cose, bisognava contribuire a creare e diffondere un “gusto” per il nuovo che avrebbe permesso alla tradizione italiana di aggiornarsi naturalmente, con continuità e senza le scosse di un moderno imposto dalle élites avanguardistiche».

La rivista “Domus”, che Ponti fondò insieme all’editore Giovanni Mazzocchi nel 1928, rappresenta il manifesto “militante” non solo delle basi del made in Italy, ma soprattutto di quel cosiddetto stile di vita italiano, nel quale è inscritta la storia del nostro sistema di valori simbolici, ma anche la nostra identità progettuale e produttiva. Da questo punto di vista, Gillo Dorfles, anche in recentissimi colloqui di lavoro per una pubblicazione dedicata al famoso grattacielo Pirelli di Milano, sottolinea: «Gio Ponti, con cui ho avuto una lunga amicizia ma con cui soprattutto sono stato assiduo collaboratore di “Domus”, ha sempre pensato a un progetto integrato, dove gli oggetti ma anche gli stessi particolari costruttivi di un’architettura dovevano svilupparsi in relazione a spazi, funzioni, ma anche “antropologie” determinate e mai generiche. Poi, ovviamente, poteva accadere che un’invenzione progettuale potesse viaggiare per conto proprio, una volta sperimentata per una specifica occasione e committenza». Basti pensare, a proposito del Pirellone, alla lampada da terra nata in relazione a questa architettura, che ha avuto poi vita propria, conservando lo stesso nome del progetto per cui è nata.

«Gio Ponti ha sempre pensato a un progetto integrato»
(Gillo Dorfles)


Proviamo a spiegare, pur brevemente, perché l’archivio Ponti, coordinato da Salvatore Licitra e Paolo Rosselli, rappresenta ancora un pozzo infinito di invenzioni sempre più attuali, una serie di prodotti che, nonostante gli anni nei quali sono stati disegnati, parlano il linguaggio della contemporaneità, visto che, con i materiali e le tecnologie di allora, comunque affrontano e risolvono alcune delle grandi questioni dell’abitare oggi.


Ancora un’immagine di L’infinito blu.

Una sorta di paradigmi. Ecco alcuni esempi: la luce che diventa protagonista dell’architettura d’interni, senza perdere la riconoscibilità pontiana, le lampade per Fontana Arte o i quadri luminosi per Arredoluce e Lumi; il sistema di arredi per gli uffici del primo e del secondo palazzo Montecatini, realizzati tra il 1936 e il 1951, da cui si sono sviluppate diverse serie di oggetti presenti in tutti i repertori dei progettisti contemporanei. I cicli di tavoli e tavolini, per esempio, che per invenzione compositiva sono diventati, attraverso la produzione attuale di Molteni, una sorta di manifesto di leggerezza, trasparenza e flessibilità abitativa; ovviamente la famosa Superleggera, disegnata per Cassina nel 1957, ancora oggi un’icona non solo di “armonia compositiva”, ma soprattutto geniale perché “ispirata” alla sedia qualunque, una sorta di “No logo”, dove comunque l’autore è presente in ogni dettaglio costruttivo; anche le posate degli anni Trenta parlano il linguaggio della componibilità, mantenendo le proprie funzioni d’uso come se fossero sempre esistite.


Gio Ponti al lavoro nella ditta D’Agostino di Salerno (1970).


“Domus”, aprile 1930.

«Queste opere non debbono ornare solo la nostra casa ma anche la nostra mente, appartenere alla cultura italiana»
(Gio Ponti)


Infine, l’attenzione che Ponti, prima di tutti gli altri, pone alla grande tradizione artigianale del proprio paese, che l’architetto milanese andava a scovare personalmente. E là dove trovava qualità e sensibilità all’ascolto, si fermava lavorando giorno dopo giorno con gli artigiani e gli operai; un solo esempio, la composizione L’infinito blu - trenta piastrelle disegnate per l’Hotel Parco dei principi, Villa Siracusa di Sorrento (Napoli) e realizzate dalla ditta D’Agostino di Salerno - oggi ridiventata un sistema compositivo che, a distanza di circa sessant’anni, è sempre più attuale e diffuso nel mondo.


Poltrona Distex, disegnata nel 1953 per la propria casa di via Dezza a Milano, riprodotta con la collaborazione dell’archivio Ponti nel 2016.


Sedia Superleggera (1957), modello 699, ditta Cassina di Meda (Monza e Brianza).

I paradigmi di Gio Ponti non muoiono mai; bisogna saperli interpretare senza tradire mai la sua poetica. Come scriveva Edoardo Persico nel 1934, parlando del suo lavoro, «per Ponti la conquista del gusto moderno è consistita nel trovare il senso della propria attività in un mondo di idee che superasse i limiti angusti della tradizione paesana. Fondamentale la sua responsabilità rispetto al gusto europeo e soprattutto la sua necessità di essere moderno ad ogni costo». La sua attualità è tutta nel lavorare e progettare, avendo sempre la mente aperta, senza pregiudizi, se non quello di “amare l’architettura”, per parafrasare il titolo di un suo celebre scritto. A questo proposito, sia il suo design che la sua architettura, pur mantenendo un’identità espressiva che è riconducibile agli anni della sua maturità, e quindi a uno specifico “gusto” dell’abitare borghese, nel rispetto delle funzioni e dell’organizzazione resistono nel tempo, anche a distanza di alcuni decenni, proprio perché, come scrive lo stesso Ponti nella rivista “Stile”, nel 1946, «questi oggetti, queste opere, questi lavori non debbono ornare solo la nostra casa, ma anche la nostra mente, ovvero appartenere alla cultura italiana, come le [alla stessa cultura] appartengono musicisti, scrittori, attori, ecc.». Da questa particolare sensibilità nel sentirsi “italiano”, crediamo abbia origine il fatto che i progetti di Ponti sono senza tempo, proprio perché s’inscrivono in un orizzonte che non appartiene solo alla cronaca. Rappresentano una filosofia dell’abitare che ha radici lontane, ovvero nel nostro “sapere fare”, nei nostri artigiani, negli artisti e soprattutto nelle tradizioni di un territorio capace d’interpretare il particolare con l’universale, il dettaglio con l’insieme di un’opera. La parte per il tutto, e Gio Ponti è una sorta di capostipite di questo modo di vedere e progettare “il mondo”.


Cassettone disegnato negli anni Cinquanta, riprodotto dal 2015 dalla ditta Molteni di Giussano (Monza e Brianza).


Posate in acciaio (1933), ditta Krupp Berndorf di Vienna.

ART E DOSSIER N. 352
ART E DOSSIER N. 352
MARZO 2018
In questo numero: GIO PONTI OGGI La chiesa abbandonata; Un design senza tempo. SPAZI D'ARTE L'isola di Hombroich; Tefaf a Maastricht. IN MOSTRA I volti di Menazzi Moretti a Matera; Arte e psiche a Ferrara; I napoletani ''parigini'' a Napoli; Raffaello a Bergamo; Tessuto e ricchezza a Firenze; Perù preincaico a Parigi.Direttore: Philippe Daverio