Studi e riscoperte. 3
Il moto dei capelli nella Dafne di Bernini

INERZIA
D’AMORE

Una delle opere più note di Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, rivela sia la libertà dello scultore rispetto alla tradizione iconografica del mito narrato da Ovidio, sia il suo acume nell’osservazione della realtà e l’attenzione ai più recenti studi galileiani sulla forza d’inerzia.


Marco Bussagli

Ci sono opere che conosciamo benissimo, note non solo agli studiosi e agli specialisti ma anche agli appassionati, ai cultori, ai curiosi e perfino a quella che si usa definire “gente comune”; opere che guardate in un certo modo, però, rivelano aspetti a cui non si era posta adeguata attenzione. A volte, infatti, basta variare di poco il punto di vista per vedersi squadernare davanti agli occhi e alla mente interi universi culturali, altrimenti del tutto insospettabili. È il caso dei meravigliosi capelli di marmo della Dafne di Bernini nel gruppo di Apollo e Dafne (1622- 1625), conservato a Roma nella Galleria Borghese. In genere, infatti, siamo attratti soprattutto dall’abilità dello scultore napoletano, forse coadiuvato da quel Giuliano Finelli, cui la critica più accorta ha voluto attribuire la realizzazione anche delle foglie di alloro, oltre che delle incredibili ciocche - inevitabilmente bionde anche se di candida pietra - dei capelli della ninfa(1). Poco, però, si è riflettuto sulla posizione di questi capelli, che non stanno fermi, ma si spingono in avanti con un movimento che consideriamo del tutto naturale. Invece, non è così ovvio che i capelli di Dafne assumano quella posizione. Perché questo accada, è necessario che lo scultore abbia fatto un ragionamento che non è né scontato né semplice, giacché è figlio di un’inusuale capacità di osservazione, oltre che di una serie di conoscenze che esulano dalla semplice rappresentazione artistica per sconfinare nella scienza sperimentale che proprio in quel tempo si andava affermando(2).

Per rendercene conto, sarà sufficiente confrontare il gruppo scultoreo di Bernini con le opere immediatamente precedenti l’età barocca, ovvero quelle dei secoli XV e XVI che rappresentano la medesima scena. In tutte, infatti, i capelli non hanno alcuna funzione dinamica, ma scendono lungo le spalle o, al più, sono spostati all’indietro dal vento della corsa, ma mai si slanciano in avanti in un movimento che pare contrario al verso della direzione seguita dalla povera Dafne.

«I capelli si allungano fino a divenire fronde, le braccia rami; / i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici»
(Ovidio, Metamorfosi)


La storia, narrata dai versi di Ovidio nelle Metamorfosi è ben nota. Dispettoso come pochi, Cupido, figlio di Afrodite, si era divertito a colpire il bellissimo e luminoso Febo con una delle sue frecce dorate che scatenavano un incoercibile innamoramento, mentre quella di piombo l’aveva usata per ferire il cuore di Dafne che, così, avrebbe provato solo repulsione per il suo innamorato. Guidati da questi sentimenti contrapposti i due si ritrovano travolti da una passione devastante che obbliga Febo a inseguire Dafne e quest’ultima a scappare a perdifiato. Vistasi persa, la ninfa si rivolge ai numi per chiedere di essere liberata dalla sua bellezza, causa della sua stessa rovina. Ovidio allora scrive: «[Dafne] Ha appena finito di pronunciare queste parole che un / pesante torpore le invade le membra: / il morbido petto è racchiuso in una sottile corteccia; / i capelli si allungano fino a divenire fronde, le braccia rami; / i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici; / il viso diviene la cima dell’albero. Solo il suo splendore le resta»(3).

I versi del grande poeta latino sono chiarissimi e rimandano a una dinamica che l’artista napoletano rispecchia puntualmente, ma la completa con quel particolare dei capelli in avanti, fin qui mai notato o, meglio, fin qui mai contestualizzato e compreso del tutto, che deriva dall’osservazione scientifica alla quale Gian Lorenzo potrebbe essere arrivato grazie alla sua personale esperienza di uomo di teatro. Per capire di cosa si tratta, conviene fare il confronto con vari esempi precedenti e successivi.


Gian Lorenzo Bernini (con Giuliano Finelli?), Apollo e Dafne (1622-1625), Roma, Galleria Borghese.

L’opera più nota è l’Apollo e Dafne di Piero del Pollaiolo, conservata alla National Gallery di Londra, dove la ninfa si vede trasformate le braccia in grossi tronchi ramificati e fronzuti, con i capelli biondi che, nonostante la corsa, ricadono placidi sulle spalle. In altri casi, come quelli di certe stampe, i capelli non sono neppure presenti. Al più, può accadere, in certe grafiche, che i capelli di Dafne svolazzino dietro la nuca, come nel caso della xilografia (f. 7r) che illustra la traduzione in volgare del poema di Ovidio curata da Giovanni Bonsignori, pubblicata presso l’editore Zoan Rosso nel 1497 a Venezia. Il bel bulino di Agostino Musi detto Agostino Veneziano - ispirato all’Apollo e Dafne di Baccio Bandinelli -, conservato a Bologna (Pinacoteca nazionale, Gabinetto disegni e stampe inv. PN 2362), mostra una Dafne che si volge indietro mentre è colta d’improvviso dalla sua trasformazione vegetale, ma i capelli scendono morbidi sulla schiena. Un altro esempio interessante per capire come non sia affatto scontato che i capelli seguano l’andamento naturale di chi corre, è la bella tela di Paolo Veronese, conservata presso la Fine Arts Gallery di San Diego (California), dove il pittore, per non avere problemi, taglia “alla maschietta” la capigliatura di Dafne, già mutata in rami fronzuti di alloro.

Per concludere questa breve carrellata che certo potrebbe arricchirsi di ulteriori esempi, piace ricordare una piccola tempera di collezione privata, pubblicata da chi scrive per la prima volta, vicina ai modi di Antonio Diziani (1737-1797), dove l’episodio mitologico, ridotto a termini quasi miniaturistici, predilige una soluzione della composizione che esclude il tema dei capelli mossi. Tuttavia, il fatto interessante è che l’ipotetico Diziani si pone il problema della corsa e ne affida la resa dinamica alla veste svolazzante. In questa scelta, però, nonostante realizzi l’opera in un’epoca nella quale il tema della forza d’inerzia era ampiamente acquisito, sbaglia. Infatti, dipingendo i piedi della ninfa come radici, si trova nella stessa situazione contemplata da Bernini.


Piero del Pollaiolo, Apollo e Dafne (1470-1480), Londra, National Gallery.

Ovvero nella necessità di descrivere la posizione della ninfa che, correndo, si vede istantaneamente bloccata la sua corsa perché, come scrive Ovidio nei ricordati versi, «i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici». La veste, allora, si sarebbe dovuta spostare in avanti e non essere dipinta convenzionalmente all’indietro per dare l’idea di una corsa che, ormai, è arrestata dalla fissità dell’albero in cui si trasforma.

Questo esempio spiega più di lunghi discorsi quanto sia grande la genialità di Bernini che, a differenza dello pseudo-Diziani, ha tenuto conto della forza d’inerzia per i capelli della sua Dafne(4). Se, infatti, osserviamo il gruppo scultoreo della Borghese ponendoci dinanzi alla ninfa - con lo sguardo all’insù - i nostri occhi saranno riempiti dall’imponente massa dei capelli proiettati in avanti non perché si allunghino, come dice il poema, ma perché, per inerzia, sono costretti a proseguire, ancora per poco, la corsa che il rapido movimento dei piedi aveva prodotto.

La ninfa, infatti, non può più proseguire perché le dita sono state mutate in radici che penetrano ormai nella profondità del terreno.


Antonio Diziani (?), Apollo e Dafne (1770 circa), particolare.

Bernini, a differenza di altri, ha tenuto conto della forza d’inerzia per i capelli della sua Dafne


Così facendo, il grande scultore si smarca dai modelli iconografici antecedenti e crea una scena diversa e significativa dell’episodio che - di fatto - annullerà tutte le precedenti immagini nella coscienza collettiva. La domanda che ci si deve porre, allora, è: Bernini aveva gli strumenti intellettuali per poter pensare alla forza d’inerzia e averne in certo modo esperienza?

Bisogna, a questo punto, ricordare che Galileo fin dal 1583 aveva cominciato a occuparsi di quel fenomeno fisico che riguarda il periodo di oscillazione del pendolo e che altro non è se non un caso particolare di forza d’inerzia. Il tema venne affrontato nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, un testo scritto come un dialogo ambientato in palazzo Segaredo a Venezia, dove tre personaggi (ossia Salviati che ha il ruolo del ricercatore innovatore e progressista, Simplicio che si pone come il dotto accademico ancorato alla tradizione e Segaredo, cioè il signore del palazzo, attento a mediare fra i due colleghi e le loro convinzioni, con uno sguardo pure agli aspetti tecnici ed economici delle nuove scienze) danno origine a un continuo scambio d’idee. Qui si descrive l’esperimento che consiste nel fare oscillare due sfere, una di sughero e una di piombo che, nonostante la differenza di peso e materiale, mostrano lo stesso periodo di oscillazione(5). Questo studio apriva bene la strada a osservazioni empiriche quali potevano essere quelle relative al moto “pendulo” dei capelli di Dafne. L’opera di Galileo fu pubblicata a Leida solo nel 1638, ma lo scienziato aveva ben presente la problematica fin dai suoi esordi e, dunque, nulla vieta che il tema fosse filtrato in ambito berniniano quattordici anni prima, quando l’artista stava affrontando il gruppo di Apollo e Dafne. Bisogna ricordare, infatti, che lo studioso conosceva Maffeo Barberini fin da quando questi era cardinale. È nota, infatti, la corposa corrispondenza fra Galileo e il porporato che data dal 1611 al 1623, dove il secondo mostrava stima e simpatia per lo scienziato toscano. Non solo, ma dopo l’ascesa al soglio pontificio del 3 agosto 1623, quando Barberini prese il nome di Urbano VIII, i rapporti divennero addirittura personali. Infatti, Galileo soggiornò a Roma per oltre un mese e mezzo, nel corso del quale fu ricevuto dal papa ben sei volte. Un’accoglienza che sappiamo essere stata festosa, con tanto di pensione procurata al figlio del grande scienziato, Vincenzo. Nulla vieta, allora, in linea teorica, che si possano essere recati a vedere la meraviglia che Bernini stava scolpendo. Sarà appena il caso di ricordare che l’Apollo e Dafne, iniziato nel 1622, fu finito solo nel 1625 perché interrotto dall’impresa del Davide e che Maffeo ammirava così tanto Gian Lorenzo da reggergli lo specchio mentre scolpiva il Davide che è il suo autoritratto(6).


Baccio Bandinelli, Apollo e Dafne (1515), Bologna, Pinacoteca nazionale, Gabinetto disegni e stampe.

Naturalmente siamo nel campo delle ipotesi, ma anche di recente un accurato articolo di Geneviève Warwik sottolinea come si possa cogliere un intreccio fra il pensiero di Galilei e l’arte di Bernini che, del resto, possedeva una copia del trattato sulle Mecchaniche del grande scienziato. Non si tratta di un fatto secondario e il motivo - in apparenza anomalo - è presto spiegato con la dimensione teatrale di Bernini. Un recente studio di Elena Tamburini affronta il tema descrivendo e individuando i teatri barberiniani, ma dedicando anche ampio spazio alle macchine teatrali che così sapientemente l’artista sapeva utilizzare per quelli che oggi chiameremmo gli “effetti speciali”. Spiega, infatti, la studiosa, come «i crolli, le inondazioni, gli incendi degli spettacoli berniniani non si svolgevano in una scena separata, ma coinvolgevano all’improvviso e pericolosamente gli spettatori, dapprima terrorizzati, poi felicemente meravigliati»(7). Così, l’uso delle carrucole, delle leve, dei piani inclinati nei ponteggi, per una mente fervida come quella di Bernini era più che sufficiente per affinare l’osservazione di fenomeni fisici come quelli di un peso in oscillazione.

A queste considerazioni se ne deve aggiungere un’altra, ovvero la constatazione che, almeno per certi aspetti, il modo di procedere di Bernini alla creazione delle sue opere si avvicina di molto a quello galileiano che la storiografia scientifica ci ha consegnato come sperimentale. Naturalmente, dobbiamo intenderci bene su quel che vogliamo dire, nel senso che il grande artista napoletano non si poneva per nulla il problema della riproducibilità dell’esperimento che invece è centrale per Galileo. Tuttavia, l’idea di avere esperienza diretta di quel che si vuole rappresentare prima di scolpirlo ha in comune con la concezione sperimentale la volontà di non affidarsi a quanto tramandato dalla tradizione o da altri. Del resto, prima di ogni altra cosa, questo è un principio dell’Ars poetica di Orazio. Non è un caso che già Sebastian Schütze avesse posto in relazione il metodo per realizzare quel capolavoro che è l’Anima dannata con il verso che recita: «Si vis me flere dolendum est / primum ipsi tibi» («Se vuoi far piangere me, a dolerti per primo devi essere tu»)(8). Forti di questa constatazione, possiamo affermare che la posizione scelta dal maestro per i capelli della ninfa è un’altra delle “invenzioni” dell’inarrivabile artista napoletano.


Paolo Veronese, Apollo e Dafne (1575 circa), San Diego (California), Fine Arts Gallery.

IN MOSTRA
Alla Galleria Borghese di Roma è in corso la mostra intitolata Bernini (fino al 4 febbraio; orario 9-19, chiuso il lunedì; 06 8413979; ga-bor@beniculturali.it). Il museo celebra così il ventennale della riapertura, che avvenne con una mostra dedicata a Bernini scultore. Ed è proprio alla Borghese, del resto, che si trovano le principali opere dello scultore. Le diverse sezioni della mostra, affidate a vari specialisti, affrontano i temi principali della carriera dell’artista (come la formazione col padre Pietro Bernini, o l’attività di restauro dell’antico, o ancora la committenza di una scultura equestre da parte di re Luigi XIV) e del suo contributo alla definizione del linguaggio plastico, architettonico, pittorico e concettuale del Barocco, con una particolare attenzione all'ambito scultoreo, che fu il più praticato da Bernini, e ai tre capolavori conservati nella galleria, Apollo e Dafne, Enea e Anchise, il Davide, più la Santa Bibiana che per la prima volta lascia l’omonima chiesa per trasferirsi alla Borghese per un restauro a vista.

(1) Su Giuliano Finelli e la Dafne: J. Montagu, La scultura barocca romana. Un’industria dell’arte, Torino 1991, p. 104. Su Apollo e Dafne: M. G. Bernardini, Bernini. Le sculture, Roma 2013, pp. 21-23.

(2) M. Bussagli, La rappresentazione della forza d’inerzia ed altri artifici del Seicento tra scienza e arte, in D. Frascarelli (a cura di), L’altro Seicento. Arte a Roma tra eterodossia libertinismo e scienza, Atti del convegno di studi, Accademia di belle arti di Roma, 14-15 maggio 2015, Roma 2016, pp. 41-54. La lettura è stata condivisa da M. Fagiolo dell’Arco (Il Tempo del Desiderio e della Metamorfosi nel giovane Bernini, in "Studiolo. Revue d’histoire de l’art de l’Académie de France à Rome”, 14, 2017, p. 95).

(3) Ovidio, Metamorphoseon libri XV, I, vv. 546-552. La traduzione è in Ovidio, Metamorfosi, a cura di G. Rosati Faranda Villa, con note di R. Corti, Milano 2014, pp. 82-83.

(4) Su Antonio Diziani: R. Pallucchini, La pittura veneziana del Settecento, Bologna 1952, pp. 82-83. Per quanto detto: M. Bussagli, op. cit., pp. 41-44.

(5) Così scrive, infatti, Galileo dell’esperimento di Salviati: «O finalmente ho preso due palle, una di piombo ed una di sughero, quella ben più di cento volte più grave di questa, e ciascuna di loro ho attaccata a due sottili spaghetti eguali […] gli ho dato l’andare nell’istesso momento, ed esso, scendendo per le circonferenze de’ cerchi descritto dagli stati uguali, lor semidiametri, […] hanno sensatamente mostrato, come la grave va talmente sotto il tempo della leggiera […] ma camminano con passo egualissimo […] son eglin passati sotto i medesimi tempi». Il testo sta in: Le opere di Galileo, VIII, Firenze 1898, pp. 128- 131; in particolare: pp. 128-129.

(6) Sul Davide: M.G. Bernardini, op. cit., pp. 16-20. Per i rapporti fra Galileo Galilei e papa Urbano VIII: D. Gallavotti Cavallero, Il programma iconografico per la Divina Sapienza nel palazzo Barberini: una proposta, in S. Macchioni (a cura di), Studi in onore di Giulio Carlo Argan, I, Firenze 1984, pp. 275-276 e n. 61.

(7) E. Tamburini, Gian Lorenzo Bernini e il teatro dell’arte, Firenze 2012, pp. 43-114. La citazione è a p. 35. Si veda pure G. Warwick, “The Story of the Man Who Whitened His Face”: Bernini, Galileo, and the Science of Relief in "The Seventeenth Century”, I, gennaio 2014, pp. 1-29, p. 25.

(8) Orazio, Ars poetica, v. 102. S. Schütze, Anima dannata, in Bernini scultore. La nascita del Barocco in Casa Borghese, catalogo della mostra (Roma, Galleria Borghese, 15 maggio - 20 settembre 1998), a cura di A. Coliva, S. Schütze, Roma 1998, p. 164.

ART E DOSSIER N. 350
ART E DOSSIER N. 350
GENNAIO 2018
In questo numero: I DILEMMI DELL'ARCHITETTURA Modernismo e tradizione a Firenze; Sottsass: la fantasia della ragione; Analogie: forme da altre forme. IN MOSTRA Sottsass a Milano e Parma, Impressionisti a Londra; Canova e Hayez a Venezia, Bernini a Roma, Giorgione a Castelfranco Veneto.Direttore: Philippe Daverio