IL “MUSEO”DELL’OCEANIA

Nelle lingue del Pacifico non esiste un vocabolo che corrisponda alla nostra parola “arte”.
L’espressione hawaiana più vicina è hana no’eau.

Hana significa attività, no’eau intelligenza, abilità, e in senso lato possiamo intenderla come attività artistica. In effetti tutta l’“arte” oceanica risponde all’idea di eccellenza, squisita perfezione. Per gli artisti del Pacifico, rimasti in gran parte anonimi, il “fare arte” doveva voler dire, in primo luogo, creare al massimo livello qualitativo qualsiasi oggetto: statuette antropomorfe, maschere, giganteschi coccodrilli scolpiti nel legno di sandalo, canoe cerimoniali e da guerra. E ancora, come si è visto, monili, copricapi e perfino vestiti sontuosi per le cerimonie funebri. Era ed è tuttora arte quella dei tatuaggi, che assume svariati significati simbolici a seconda degli arcipelaghi. Alle Samoa, ma anche a Tahiti, alle Tonga e alle Marchesi, chi la pratica incidendo sulla pelle complessi disegni, agisce seguendo solenni riti come un sacerdote; chi la riceve sul proprio corpo, spesso a fronte di estenuanti sedute e sofferenze, affronta un rito iniziatico, una prova di coraggio e forza, che conferma il passaggio all’età adulta; ciò accade, per esempio, con il pe’a, il tipico tatuaggio, dolorosissimo, praticato su precise zone del corpo ai giovani samoani. E così, anche, nei moko della Nuova Zelanda, disegnati su tutto il volto.


interno di un tambaran (casa degli uomini iniziati e degli spiriti); Kanganama, Sepik (Papua Nuova Guinea).

abito da sposa tongano interamente tessuto con fibre vegetali (XIX secolo); Nuku’alofa (regno di Tonga), Tonga National Museum and Cultural Center.


tatuaggio samoano (XIX secolo).

Questi artefici, sacerdoti o meno che fossero, dovevano avere un ruolo importante nella società. Non a caso tutte le espressioni maori legate al concetto di bravura si riferiscono sempre a un’opera o un’attività che richiede predisposizione alla creatività, talento esecutivo e fantasia. 

Ci sono poi i simboli, onnipresenti. I tongani chiamano heliaki, e gli hawaiani kaona, tutto ciò che ha un significato nascosto ma che può esser svelato. In altre parole, un oggetto creato con abilità e talento è anche la quintessenza di un linguaggio metaforico, e richiede adeguati strumenti di conoscenza, i significati socio-culturali che meglio si accordano ai concetti base della civiltà polinesiana. Ecco perché abbiamo qui cercato, soprattutto, di indagare su questi temi, seppure sinteticamente. 

Quella dell’Oceania è d’altra parte un’arte variatissima, a seconda delle culture e degli arcipelaghi, talvolta con caratteristiche così localizzate, come si è accennato per Aitutaki, da mostrare fogge e stili talvolta solo in un’unica, minuscola isola. 

Talaltra invece si osservano tipologie comuni in arcipelaghi assai distanti, come alle Hawaii e a Tahiti, dove, per fare un esempio, le canoe o i copricapi e i mantelli cerimoniali con piume gialle e rosse sono molto simili. 

Sintetizzando al massimo, giacché non basta un’enciclopedia o un intero museo a illustrare gli stili di questi magnifici oggetti, si può affermare che l’arte oceanica del passato risponda a esigenze spirituali, in funzione di riti legati alla vita e alla morte e all’ostentazione del prestigio di un clan o di un singolo capo. Esaminare questi oggetti significa penetrare in usanze diversissime da quelle che ci ha abituato la storia dell’arte occidentale. Non esiste, per esempio, pittura da cavalletto. 

Non esisteva il museo. Nel piccolo museo di Rarotonga, nelle Cook, tengono a spiegare tuttavia che anche loro avevano in passato, in qualche maniera, il loro museo. E molto prima, ci dicono, che gli spagnoli Alvaro de Mendaña e Pedro Quiros avvistassero l’abbagliante atollo di Pukapuka il 20 agosto del 1595. Ogni isola aveva le sue strutture sociali, ognuna dedicata a varie forme ed espressioni artistiche: Pia-Atua era la casa degli spiriti, o delle divinità, dove si tenevano gli oggetti cultuali e si svolgevano importanti riti sacri. Are Karioi era la casa della danza e dell’intrattenimento; Are Pana quella dove s’insegnavano alle donne i diversi ruoli e comportamenti, a seconda della loro classe sociale; Are Toa dove s’insegnava l’arte della guerra ai giovani uomini; Are Korero, dove i recitanti maori narravano le storie dei loro antenati. Are Vananga, infine, dove si trasmetteva la conoscenza di riti esoterici. Con nomi diversi, queste strutture sono comuni in tutte le culture dell’Oceania, con sensibili varianti soprattutto nelle ricchissime tradizioni delle zone più interne di Papua Nuova Guinea. 

Per capire quanto complessa, evocativa e fortemente simbolica sia la produzione artistica dell’Oceania, terminiamo con tre esempi.

Osserviamo un nguzunguzu (o musumusu), del quale si è già accennato per la sua funzione apotropaica. La scultura veniva posta all’altezza della linea di galleggiamento, per scacciare gli spiriti maligni dell’acqua. Sul volto a tutto tondo dall’accentuato prognatismo, sono ripetute le scarificazioni rituali dei volti dei guerrieri o di qualche antenato, ma quel che è più significativo è che tra le mani questo spirito protettore tiene di solito una piccola testa umana (a simboleggiare la testa del nemico). Nel caso qui illustrato, vediamo però un uccellino: il macabro riferimento è diventato, per influenza dei missionari, un simbolo di pace. Tuttavia non è escluso che esprima anche la riconoscenza per gli uccelli migratori, che guidarono con la loro rotta i primi intrepidi navigatori del Pacifico. 

Heva Tupapau è invece il ricchissimo costume a lutto indossato dal maestro cerimoniere in occasione dei funerali per la morte di un capo di alto rango della comunità tahitiana. Il cerimoniere era un parente del dignitario deceduto e veniva accompagnato da un gruppo di guardiani-difensori, con la pelle annerita da fuliggine e dipinta.


Tooi (Tuai), Disegno per un moko Korokoro (tatuaggio facciale maori) (1818); Auckland, Auckland Libraries, Sir George Grey Special Collections.


Nguzunguzu (o musumusu), prua scolpita di canoa (prima del 1929), dalla laguna di Marovo, Nuova Georgia (isole Salomone); Basilea, Museum der Kulturen Basel.

Costume da lutto del cerimoniere (prima del 1792), da Tahiti (isole della Società); Exeter, Royal Albert Memorial Museum & Art Gallery.


Rambaramp (manichino del defunto a grandezza naturale) (prima del 1880), dalle isole Vanuatu; New York, Brooklyn Museum.


Tupaia, Danzatrice tahitiana e costume da lutto (Tahiti, luglioagosto 1769); Londra, British Library.

Chi partecipava manifestava gesti estremi, a sottolineare un dolore insopportabile. Per questo, oltre al sontuoso vestito, il cerimoniere aveva in dotazione una spada ornata con denti di squalo alla sommità, e un batacchio con biglie di perle, il cui suono avvertiva la gente di togliersi di mezzo. Se qualcuno lo ostacolava poteva essere ferito o ucciso. Il numero di persone in lutto variava, come la durata del pianto, subordinata alla ricchezza della famiglia del defunto. Cook assistette a uno di questi eventi, e proprio il costume qui illustrato è quello che gli fu donato per portarlo in Europa, dove ancora si trova. 

Vediamo poi una maschera, il malangan tipico della Nuova Irlanda (arcipelago Bismarck). Malangan è il culto degli antenati, celebrato regolarmente dai parenti con feste rituali che rinforzano i legami familiari. Le maschere, per estensione anch’esse dette malangan, hanno molta importanza e sono di diversi tipi, a seconda dello spirito o della divinità che rappresentano. 

Il culto dei morti è vivissimo in tutta l’Oceania ancora oggi, e non è un caso che gli storici dell’arte del Pacifico considerino alla stregua di vera e propria arte performativa contemporanea le colorate decorazioni tombali sulla sabbia, vicino al mare, nell’arcipelago di Vava’u (regno di Tonga): arte che si tramanda di madre in figlia, solo in via matrilineare. 

Il mare, il cielo, la vita, la morte, la musica, la danza, la poesia, tutto si riflette nella cultura di questi popoli straordinari.


Tombe presso la costa, decorate per tradizione dalle donne tongane dell’arcipelago di Ha’apai; Pangai (regno di Tonga).


Malangan, maschera usata per cerimonia funebre (XIX secolo), dalla Nuova Irlanda (arcipelago Bismarck, Papua Nuova Guinea); Parigi, Musée du Quai Branly.

Mappa delle razze dell’Oceania e dell’Australasia, da The History of Mankind di Friedrich Ratzel (Londra 1896). In questa grande cartina del celebre etnologo tedesco troviamo già la suddivisione delle isole dell’Oceania in Micronesia, Melanesia, Polinesia secondo le norme comunemente adottate anche ai nostri giorni.


I mari del Sud (a esclusione della Polinesia francese) secondo la geopolitica attuale.


Una carta dettagliata delle isole della Polinesia francese, che oggi fanno parte dei territori francesi d’oltremare.

ARTE DELL'OCEANIA
ARTE DELL'OCEANIA
Gloria Fossi
Le culture dell’oceano Pacifico si sono sviluppate per millenni in assoluta autonomia rispetto al resto del mondo. Fino a quando, alla fine del XVIII secolo, i viaggi di Cook non hanno rotto quell’incantesimo e aperto la strada alla colonizzazione occidentale. Una galassia di isole che va dalle Hawaii all’isola di Pasqua – con i suoi grandi moai monolitici –, alla Polinesia e alla Nuova Zelanda. Una cultura affascinante che rivela tratti comuni nonostante le distanze apparentemente incolmabili tra isola e isola. Un popolo che elabora in autonomia una produzione artistica dai caratteri originali, nell’uso dei materiali (legno, stoffa, pietra), nella destinazione d’uso, prevalentemente magico-rituale, nel simbolismo di base dei soggetti.