Eppure ad avvicinare il giovane Baburen a Caravaggio, paradossalmente, è proprio la distanza più oggettiva, quella geografica. A Utrecht, infatti, una serie di fortunate coincidenze concorrevano a far maturare un terreno fertile per l’arte di Caravaggio, pronta a essere trasformata in caravaggismo: la fede cattolica, che qui rimase latentemente radicata assieme alla committenza artistica, nonostante il calvinismo dominante nei Paesi Bassi del Nord; due ottimi e lungimiranti maestri locali - Abraham Blomaert e Paulus Moreelse - e una serie di giovani promettenti che vennero incitati a sperimentare con mano che cosa volesse dire “Roma” nel XVII secolo. Non “solo” antichità monumentali e grandi esempi classici, ma anche un’arte nuova, immediata, diretta, tanto più seducente perché torva, scura, sessuale, tanto più seducente perché coglieva impreparati il giovane Dirk e gli altri “ragazzi di Utrecht”. La commistione tra il terreno fertile, seminato nella lontana Olanda meridionale, e il vissuto personale di ciascuno di questi ragazzi del Nord, diede vita a un’esperienza nuova, così fortemente caravaggista, così fortemente “straniera”. Così vitale, nel caso di Baburen; rispetto all’opera di Caravaggio - violenta, cruda, quasi cinematografica -, Dirk mostra uno stile più giovane, agitato, meno esperto di vita in sostanza, ma ricco di colore e di entusiasmo.
E che dire di Gerrit van Honthorst, il geniale “Gherardo delle Notti” attivo a Roma dal 1610 al 1619? Lui è un ragazzo con le idee chiare: è a Roma per fare carriera. Lo stile e i temi di Caravaggio sono seducenti, sì. Ma ancora più seducenti sono la protezione dei principi e il consenso dei cardinali, nonché le monete sonanti.
La grande pala con Cristo davanti a Caifa del 1617 è la migliore espressione della poetica honthorstiana giunta alla maturità del periodo trascorso a Roma. Un dipinto che è caravaggista nell’anima, ma che non segue alcun modello diretto di base. La candela illumina un momento di estrema drammaticità, mostrando un ambiente ridotto all’essenziale, sintentico, focale. Il clima è teso ma mai violento, rivelandosi, anzi, silenzioso, intimo, educatissimo, perfetto come lo sarebbe stato - per i committenti - Caravaggio stesso se avesse imparato un po’ di più a stare al mondo.
Tornato in patria nel 1620, Honthorst concluderà la sua carriera da uomo imborghesito, pittore di corte per molti principi d’Europa, lontano da tutto ciò che aveva caratterizzato la sua arte giovanile. Prima di invecchiare così, però, avrà un decennio strepitoso, nel quale distillerà un elisir raffinatissimo, in cui l’esperienza italiana viene lasciata in eredità al cosiddetto classicismo olandese. Lo spiega bene il suo Granida e Dafilo: la luce è ora argentata, i colori saturi, i volti leggiadri e l’ambiente arcadico. Ma i piedi di Dafilo in primo piano sono sozzi, neri, in memoria del Caravaggio di più di vent’anni prima.
Più problematico, infine, è il caso di Hendrick ter Brugghen. Di lui sappiamo tre cose: da giovane fu un soldato (documentato in Italia già nel 1614), non ci sono dipinti certi realizzati a Roma, a Utrecht fece opere caravaggiste straordinarie. Opere che, in taluni casi, sono smaccate reinterpretazioni da modelli del maestro italiano. La sua Vocazione di san Matteo è una “variazione sul tema” semplicemente geniale. La struttura pensata da Caravaggio è ribaltata, mettendo Cristo in scorcio angolare, quasi una quinta teatrale alla scena, col dito a indicare il centro dell’azione. La struttura del dipinto è così intelligente da far trasparire l’opinione di Ter Brugghen in merito ai noti problemi di identificazione dei personaggi nella tela di Caravaggio. Matteo è l’uomo anziano, il gabelliere già in avanti con gli anni, incerto se la “chiamata” sia per lui o piuttosto per i due giovinastri dalla faccia beota e i vestiti sgargianti che gli stanno attorno, l’uno col sopracciglio alzato e l’altro bloccato ad ascoltare parole inaspettate mentre indica i soldi sul tavolo, imprigionati in una selva di mani dal sapore düreriano.
L’esperienza italiana viene lasciata in eredità al cosiddetto classicismo olandese
Ter Brugghen lascia ben trasparire la sua professione primaria di soldato: la gente dei suoi quadri è rude, la pennellata è diretta, senza fronzoli né troppi artifici mentali. Un ragazzo concreto, che con Caravaggio condivide l’essere a contatto con un mondo in cui la spada ne sistema più della parola. In cui le prostitute - neanche troppo avvenenti - si concedono a vecchi bavosi e in cui i giovani barano ai dadi truffando i più vecchi, perché anche l’intelligenza è dimostrazione di forza.
Al di là del dato luministico, dunque, il grande merito dei caravaggisti olandesi è forse stato proprio quello di cogliere in Caravaggio non una verità o la sua verità, ma il senso della Verità in assoluto, nel quale il contributo personale rende l’arte uno specchio di chi l’ha prodotta.