Studi e riscoperte. 3
La scuola di Utrecht

Caravaggio
NELLO specchio del Nord

Tra i principali seguaci-continuatori di Caravaggio in Europa si distinguono gli olandesi della scuola di Utrecht: una versione trattenuta ed elegante dei drammatici chiaroscuri che caratterizzano la pittura del maestro.

Massimiliano Caretto

Sei personaggi vivono un dramma che a stento emerge dalle tenebre di una notte teatrale e icastica. Tre donne urlano e gridano allo scandalo della Morte, mentre due uomini – un giovane e un vecchio – risollevano un cadavere muscoloso e livido nei cui arti il sangue si è già coagulato, prima di lasciarlo sprofondare nel sepolcro. Eppure il corpo esangue è proporzionato, ben tornito, educato, mentre i volti in lacrime non soffrono: fanno vedere che stanno soffrendo. Invero qualcosa è trattenuto, domato, calcolato rispetto all’istinto iniziale, con la stessa differenza che intercorre tra un salto nel vuoto e pensare al salto prima di compierlo. Anche i costumi degli attori in scena sono eleganti, coi colori ben pensati, a modo. È la Deposizione di Dirk van Baburen, così simile a quella di Caravaggio eppure così diversa; manifesto di quello slancio genuinamente giovanile a tendere disperatamente verso qualcosa che non si è e a cui si anela, prova dell’incrollabilità di un sistema di valori che ci accompagna sin dalla nascita: la buona educazione, così come la cattiva, è difficile da nascondere quando è vera. Si, perché questo ragazzo che a ventitre anni, nel 1617, dipingeva la sua Deposizione, aveva davvero poco a che spartire con colui a cui si ispirava. Entrambi arrivano nella tumultuosa Roma barocca, entrambi lo fanno dalla provincia, entrambi lo fanno in giovane età, ma le loro somiglianze terminano qui. Come due ragazzi che s’imbarcano dall’Europa per la New York del dopoguerra, l’uno per studiare nelle migliori scuole, l’altro per “cercar fortuna”, i due hanno vissuti troppo diversi per usare schemi simili, gesti analoghi, parlano due lingue diverse.


Il clima è teso ma mai violento, rivelandosi, anzi, silenzioso, intimo, educatissimo

Dirk van Baburen, Deposizione (1617), Roma, San Pietro in Montorio.


Gerrit van Honthorst, Cristo davanti a Caifa (1617), Londra, National Gallery;

Eppure ad avvicinare il giovane Baburen a Caravaggio, paradossalmente, è proprio la distanza più oggettiva, quella geografica. A Utrecht, infatti, una serie di fortunate coincidenze concorrevano a far maturare un terreno fertile per l’arte di Caravaggio, pronta a essere trasformata in caravaggismo: la fede cattolica, che qui rimase latentemente radicata assieme alla committenza artistica, nonostante il calvinismo dominante nei Paesi Bassi del Nord; due ottimi e lungimiranti maestri locali - Abraham Blomaert e Paulus Moreelse - e una serie di giovani promettenti che vennero incitati a sperimentare con mano che cosa volesse dire “Roma” nel XVII secolo. Non “solo” antichità monumentali e grandi esempi classici, ma anche un’arte nuova, immediata, diretta, tanto più seducente perché torva, scura, sessuale, tanto più seducente perché coglieva impreparati il giovane Dirk e gli altri “ragazzi di Utrecht”. La commistione tra il terreno fertile, seminato nella lontana Olanda meridionale, e il vissuto personale di ciascuno di questi ragazzi del Nord, diede vita a un’esperienza nuova, così fortemente caravaggista, così fortemente “straniera”. Così vitale, nel caso di Baburen; rispetto all’opera di Caravaggio - violenta, cruda, quasi cinematografica -, Dirk mostra uno stile più giovane, agitato, meno esperto di vita in sostanza, ma ricco di colore e di entusiasmo.

E che dire di Gerrit van Honthorst, il geniale “Gherardo delle Notti” attivo a Roma dal 1610 al 1619? Lui è un ragazzo con le idee chiare: è a Roma per fare carriera. Lo stile e i temi di Caravaggio sono seducenti, sì. Ma ancora più seducenti sono la protezione dei principi e il consenso dei cardinali, nonché le monete sonanti.

La grande pala con Cristo davanti a Caifa del 1617 è la migliore espressione della poetica honthorstiana giunta alla maturità del periodo trascorso a Roma. Un dipinto che è caravaggista nell’anima, ma che non segue alcun modello diretto di base. La candela illumina un momento di estrema drammaticità, mostrando un ambiente ridotto all’essenziale, sintentico, focale. Il clima è teso ma mai violento, rivelandosi, anzi, silenzioso, intimo, educatissimo, perfetto come lo sarebbe stato - per i committenti - Caravaggio stesso se avesse imparato un po’ di più a stare al mondo.

Tornato in patria nel 1620, Honthorst concluderà la sua carriera da uomo imborghesito, pittore di corte per molti principi d’Europa, lontano da tutto ciò che aveva caratterizzato la sua arte giovanile. Prima di invecchiare così, però, avrà un decennio strepitoso, nel quale distillerà un elisir raffinatissimo, in cui l’esperienza italiana viene lasciata in eredità al cosiddetto classicismo olandese. Lo spiega bene il suo Granida e Dafilo: la luce è ora argentata, i colori saturi, i volti leggiadri e l’ambiente arcadico. Ma i piedi di Dafilo in primo piano sono sozzi, neri, in memoria del Caravaggio di più di vent’anni prima.

Più problematico, infine, è il caso di Hendrick ter Brugghen. Di lui sappiamo tre cose: da giovane fu un soldato (documentato in Italia già nel 1614), non ci sono dipinti certi realizzati a Roma, a Utrecht fece opere caravaggiste straordinarie. Opere che, in taluni casi, sono smaccate reinterpretazioni da modelli del maestro italiano. La sua Vocazione di san Matteo è una “variazione sul tema” semplicemente geniale. La struttura pensata da Caravaggio è ribaltata, mettendo Cristo in scorcio angolare, quasi una quinta teatrale alla scena, col dito a indicare il centro dell’azione. La struttura del dipinto è così intelligente da far trasparire l’opinione di Ter Brugghen in merito ai noti problemi di identificazione dei personaggi nella tela di Caravaggio. Matteo è l’uomo anziano, il gabelliere già in avanti con gli anni, incerto se la “chiamata” sia per lui o piuttosto per i due giovinastri dalla faccia beota e i vestiti sgargianti che gli stanno attorno, l’uno col sopracciglio alzato e l’altro bloccato ad ascoltare parole inaspettate mentre indica i soldi sul tavolo, imprigionati in una selva di mani dal sapore düreriano. 

L’esperienza italiana viene lasciata in eredità al cosiddetto classicismo olandese


Ter Brugghen lascia ben trasparire la sua professione primaria di soldato: la gente dei suoi quadri è rude, la pennellata è diretta, senza fronzoli né troppi artifici mentali. Un ragazzo concreto, che con Caravaggio condivide l’essere a contatto con un mondo in cui la spada ne sistema più della parola. In cui le prostitute - neanche troppo avvenenti - si concedono a vecchi bavosi e in cui i giovani barano ai dadi truffando i più vecchi, perché anche l’intelligenza è dimostrazione di forza. 


Al di là del dato luministico, dunque, il grande merito dei caravaggisti olandesi è forse stato proprio quello di cogliere in Caravaggio non una verità o la sua verità, ma il senso della Verità in assoluto, nel quale il contributo personale rende l’arte uno specchio di chi l’ha prodotta.


Hendrick ter Brugghen, Vocazione di Matteo (1621), Utrecht, Centraal Museum.


Caravaggio, Vocazione di Matteo (1600 circa), Roma, San Luigi dei Francesi.


Hendrick ter Brugghen, Coppia male assortita (1624).


Gerrit van Honthorst, Granida e Daflo (1625), Utrecht, Centraal Museum;

Hendrick ter Brugghen, I bari (1623), Minneapolis, Institute of Art.

ART E DOSSIER N. 308
ART E DOSSIER N. 308
MARZO 2014
In questo numero: MYTHOS ITALIEN L'Italia nell'immaginario europeo: dai caravaggisti olandesi alla Firenze del Grand Tour, dai sogni Art Déco ai vetrai muranesi. IN MOSTRA: Matisse, Ossessione Nordica, Montserrat, Este.Direttore: Philippe Daverio