Grandi mostre. 2
L'ossessione nordica a Rovigo

il richiamo
di Europa

All’inizio del secolo scorso - protagonista nelle prime edizioni della Biennale di Venezia - l’arte tedesca, svizzera, austroungarica e scandinava seduce e trasforma i pittori italiani aprendo le porte a una nuova modernità. Come racconta qui il curatore della rassegna in corso a palazzo Roverella.

Giandomenico Romanelli

Tutti riconoscono l’importanza e la centralità della Biennale di Venezia per l’aggiornamento della cultura artistica italiana e per la capacità che l’iniziativa ha sempre avuto di mettere in relazione e a confronto differenti matrici, correnti, fenomeni e personalità dell’arte del momento. Ma, da questo punto di vista, varie storie della Biennale nei suoi centoventi anni di vita sono state troppo spesso costruite come una serie di atti mancati, di occasioni perdute («non c’era, non c’è stato, era assente») piuttosto che come successione di scelte consapevoli. Questa mostra s’avventura proprio sul terreno delle scelte compiute a delineare il profilo – consapevole, lo si ripete – delle biennali d’esordio, in quell’intervallo critico e creativo che ha segnato profondamente natura e caratteri della più importante rassegna artistica sopravvissuta (e ancor oggi in buona salute) alle rovine e agli avvicendamenti del passaggio di due secoli (e di un cambio di millennio). La guida nel nostro percorso e della nostra avventura è Vittorio Pica, gran faccendiere biennalesco, dapprima occulto (quando è anche recensore arguto e informato delle varie edizioni della mostra) e successivamente esplicito, quale vicesegretario generale; divenuto negli anni Venti egli stesso segretario generale dell’ente, fino alla svolta istituzionale e culturale voluta dal fascismo.

Sua anche la citazione che costituisce il titolo della nostra mostra: è lui, infatti, che nel 1901, recensendo su “Emporium” la 4. Biennale esordisce con un capitolo che s’intitola, appunto, L’ossessione nordica. Nel testo, egli sottolinea come i pittori italiani, specie i veneti e i lombardi, siano in preda a una sorta di passione quasi incontrollata per la pittura nordica (ma Pica fa sornionamente occhieggiare le ragioni del mercato: e, peraltro, la Biennale era nata esplicitamente anche, ma non solo, per questo, cioè lanciare sul mercato gli italiani e far ri-diventare Venezia uno dei grandi mercati internazionali dell’arte). 


Che cosa significa tutto ciò? E che cosa Pica intendeva per “nordico”? Quantitativamente voleva dire che a una semplice rilevazione statistica, gli artisti stranieri, che oscillano agli esordi all’incirca tra il 55% e il 65% delle presenze ai Giardini, sono decisamente, in maggioranza, tedeschi, svizzeri, austroungarici e scandinavi. Il concetto di “Nord”, per il napoletano Pica, è piuttosto onnicomprensivo di quel che non è né spagnolo (e addentellati) né slavo e balcanico né, soprattutto, francese (e impressionista). Ma è piuttosto di un’arte che si colloca su una direttrice geografica che, partendo da Venezia, va grosso modo a Vienna, Darmstadt, Monaco e Berlino per raggiungere le diverse articolazioni del mondo scandinavo. Ma l’esordio della Biennale è nettamente intitolato e incardinato al mondo e alle figure di Böcklin e di Hodler; cioè, da una parte alla cultura tedesco-mediterranea delle mitologie primigenie e paniche (dopo Böcklin, Von Stuck, Klinger e Diefenbach e altri), e dall’altra al simbolismo idealista, cifrato, “alpino” e onirico di Hodler e alle sue derivazioni austrotedesche, da Zwintscher a Siber.

Merita un cenno a parte il passaggio di Klimt e della Secessione in chiave viennese: non solo per la qualità delle proposte (la sua personale del 1910 resta forse il momento più alto dell’intera storia della Biennale, per quel che seppe apportare al cammino di una modernità linguistica e concettuale nervosa e inquieta) ma anche per come, nei modi della presentazione, seppe svecchiare il concetto stesso di allestimento nell’insuperabile, essenziale ambientazione di Joseph Wimmer.

Ben diverso il “grande Nord” degli scandinavi: nevi e fiordi, paesaggi sconfinati e mari in burrasca; ovvero: l’intimità avvolgente e protettiva di un morrisiano come Larsson o la raffinatezza dolente e luminosa del più “Vermeer” dei pittori moderni, Vilhelm Hammershøi (che compare nell’affiche della mostra).


De Chirico proclama esplicitamente di ispirarsi a Böcklin e a Klinger, ai quali attribuisce la “scoperta” di una modernità contemporanea e sublime


Arnold Böcklin, Rovina sul mare (1880), Aarau, Aargauer Kunsthaus.


Giorgio de Chirico, Lotta di centauri (1909), Roma, GNAM - Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea.

Le opere in mostra trionfano in chiavi e suggestioni di fascino misterioso


E gli italiani che cosa trassero da una tale proposta (mentre Pica approvava la novità che queste presenze provocavano nei nostri artisti ma ammoniva severamente di evitare l’imitazione o la pedissequa sequela)? Nemmeno questa risposta può essere univoca: certo, ci sono i pittori “alla Klimt”, dal troppo citato Chini al bidimensionale, decorativo Zecchin; ma si può rinviare al più raffinato e secessionista Teodoro Wolf Ferrari. Sotto un altro profilo, potremo dire che tutti i paesaggisti italiani ne rimangono toccati, se pur in forme diverse e personali; da Bartolomeo Bezzi a Tullio Garbari e fino addirittura a Guglielmo ed Emma Ciardi o al quasi dimenticato Francesco Sartorelli; Hodler invece, oltre a Sartorelli, influenzerà profondamente Bonazza che appare spesso citarlo con ironia distaccata e virtuosistica.

Ma la zampata più possente la dà de Chirico (che, non per caso, scriverà nel 1920 le sue celebri, importanti pagine sia su Böcklin sia su Klinger) che si rifà a idee e modelli e utilizza citazioni da questi due artisti ai quali proclama esplicitamente di ispirarsi e ai quali attribuisce la “scoperta” di una modernità contemporanea e sublime, oltre la fisica, meta-fisica, appunto, e dell’onirico come “oggetto” e non solo come occasione o pretesto per la pittura “moderna”.

La mostra, nelle sue sette sezioni, propone scoperte e novità di grande fascino assieme a capolavori celebri e a ritrovate e magari dimenticate qualità mentre espone artisti offerti per la prima volta o in termini oggi inusitati per il pubblico italiano ma che si imposero all’attenzione di pubblico e critica all’inizio del XX secolo: da Zwintscher a Putz, da Bergh a Khnopff a Gallen-Kallela a Holmboe ad Ancher. Ma vede trionfare le tele di Böcklin e Klimt, di de Chirico, di Zorn, Von Stuck, Sartorio e Klinger in chiavi e suggestioni di fascino misterioso a costruire un filo d’Arianna che conduce, schivando i pericoli e le insidie del pittoresco e del letterario, all’emergere e affermarsi delle nuove scienze e alle declinazioni sconosciute e inquietanti dei recessi dell’inconscio.

L’ossessione nordica. Böcklin, Klimt, Munch
e la pittura italiana

a cura di Giandomenico Romanelli
Rovigo, palazzo Roverella, via Giuseppe Laurenti 8/10
telefono 0425-460093
orario 9-19, sabato e festivi 9-20
fino al 22 giugno
catalogo Marsilio Editori
www.mostraossessionenordica.it

ART E DOSSIER N. 308
ART E DOSSIER N. 308
MARZO 2014
In questo numero: MYTHOS ITALIEN L'Italia nell'immaginario europeo: dai caravaggisti olandesi alla Firenze del Grand Tour, dai sogni Art Déco ai vetrai muranesi. IN MOSTRA: Matisse, Ossessione Nordica, Montserrat, Este.Direttore: Philippe Daverio