Peregrinaggi italiani
(1527-1530)‌

I primi giorni di maggio del 1527 Roma venne messa a sacco dalle truppe dei lanzichenecchi di Carlo V, il papa imprigionato e il mondo per il quale il Rosso aveva lasciato Firenze fu distrutto per sempre insieme ai desideri del pittore di riuscire, in Italia, a risollevare la propria condizione.

«Fu il povero Rosso fatto prigione de’ Tedeschi e molto mal trattato. Perciò che oltra lo spogliarlo de’ vestimenti, scalzo e senza nulla in testa, gli fecero portare addosso pesi, e sgombrare quasi tutta la bottega d’un pizzicagnolo» (Vasari, IV, p. 481). Al pari di altri artisti il Rosso fuggì da Roma e risalì verso la Toscana pensando probabilmente di rientrare a Firenze, ma la repubblica popolare proclamata dopo la nuova cacciata dei Medici nel 1527 non doveva essere confacente alle sue aspettative. Fermatosi a Perugia venne accolto da Domenico di Paris, pittore anche lui, che lo rivestì e curò ricevendo in cambio un cartone per una tavola con l’Adorazione dei magi. «Né molto restò in tal luogo, perché intendendo ch’al Borgo [Sansepolcro] era venuto il vescovo de’ Tornabuoni fuggito egli ancora dal sacco, si trasferì quivi, perché gli era amicissimo» (Vasari, IV, p. 481). Dal 1527 al 1530, anno della partenza per la Francia, i peregrinaggi del pittore sono continui e testimoniano una situazione precaria che tuttavia non gli impedisce di dipingere alcune opere dalla complessa iconografia, elaborate attraverso una rete di amici artisti e letterati che cercarono di sostenerlo rinunciando in suo favore a eseguire alcune tavole. È il caso della Deposizione di Borgo Sansepolcro dipinta per la compagnia dei Battuti di Santa Croce ricorda Giorgio Vasari, della quale Raffaellino dal Colle, allievo di Giulio Romano e anche lui fuggito dal Sacco di Roma, «amorevole si spogliò, e la diede al Rosso, acciò che in quella città rimanesse qualche reliquia di suo» (Vasari, IV, p. 482). Vasari testimonia come le rimostranze della compagnia vennero sopite dal vescovo Tornabuoni che evidentemente partecipava dei medesimi pensieri dell’artista, capace di dare a quella Deposizione nei «colori un certo che, tenebroso per l’eclisse, che fu nella morte di Cristo, e per essere stata lavorata con grandissima diligenza» (Vasari, IV, p. 482). Il dipinto è testimonianza delle scelte eccentriche compiute dal Rosso riguardo all’iconografia di una tavola per la quale si sentì libero diaggiungere pensieri autonomi intorno alla morte di Cristo, sulla quale meditò più volte: nel giovanile tabernacolo affrescato di Marignolle, nella Deposizione di Volterra, nel perduto Cristo morto per Jacopo Appiani a Piombino, nella Pietà dipinta per Anne de Montmorency, connestabile del re di Francia. Nella tavola di Sansepolcro il corpo di Cristo appare segnato dalle sofferenze patite in croce, sottolineate come esempio per i confratelli della compagnia di flagellanti che aveva chiesto il dipinto. 

Deposizione dalla Croce (1527-1528), particolare con il pianto della Maddalena; Sansepolcro (Arezzo), San Lorenzo.


Studio per il corpo di Cristo della Deposizione dalla Croce di Sansepolcro (1527-1528); Vienna, Albertina, Graphische Sammlung.

Se il torace scardinato di Gesù in grembo alla Vergine sembra ancora contenere l’eco di alcune prediche di Savonarola, in quella composizione il Rosso inserì anche la figura di un giovane dai capelli fulvi che gira le spalle alla scena e nasconde il viso fra le mani, quasi una citazione del san Giovanni della pala di Volterra. Rispetto a quel dipinto, tuttavia, il Rosso preferisce ora una pittura lucida come bronzo aggiornata sulle novità romane della scuola di Raffaello, e sembra concedersi un’avvenenza maestosa nelle figure che sorreggono il corpo di Cristo, come il san Giovanni, dalla tunica gialla, o la Maddalena, che piange sui piedi del Salvatore echeggiando ancora le parole del frate di San Marco. Nondimeno, l’amicizia con un letterato aretino, Giovanni Antonio Lappoli, favorevole a mescolare speculazioni teologiche e finzioni poetiche dal contenuto allegorico nel medesimo testo, condusse probabilmente il Rosso a inserire nel dipinto figure all’apparenza incongrue rispetto al tema della Pietà. La Vergine è sostenuta da una santa “moderna” in abito benedettino, probabilmente santa Scolastica, del tutto estranea al tempo della vicenda raffigurata, come lo era san Vincenzo Ferrer nello Sposalizio della Vergine dipinto per la cappella funebre di Carlo Ginori nella chiesa di San Lorenzo a Firenze nel 1523.

Nella tavola di Borgo compare infine una delle figure che sono diventate emblematiche dell’esaltazione manierista del Rosso. Dalla penombra, dovuta secondo Vasari all’eclisse, emerge un uomo dal volto deforme e digrignante, le cui fattezze bestiali hanno portato taluni a identificarlo con la scimmia che il Rosso teneva nello studio, altri, invece, lo hanno creduto personificazione del diavolo stesso. La lancia portata sulla spalla e lo scudo alzato lo identificano invece col soldato responsabile della ferita al costato di Cristo: un’offesa alla santità del figlio di Dio inferta da chi non lo aveva riconosciuto. Nell’economia del dipinto tale figura mostruosa, contrapposta a quelle invece bellissime riunite intorno al corpo del deposto, invita a leggere l’intero soggetto in rapporto alla funzione dell’immaginazione così come venne esaltata da Giovanni Pico della Mirandola e da Savonarola, figure di costante riferimento per il Rosso. Tale facoltà, mediana fra sensi e intelletto, se veniva indirizzata verso immagini positive, fra le quali la morte di Cristo era la più perfetta, poteva guidare gli uomini verso la contemplazione. Secondo Pico e Savonarola, chi meditava su tale mistero attraverso immagini adeguate si elevava verso la bellezza delle figure angeliche, chi al contrario teneva la propria immaginazione ferma su immagini negative sprofondava verso l’orrore delle creature bestiali. I confratelli della compagnia dei Battuti di Sansepolcro che dovevano, secondo i nuovi statuti, andare a “vedere” il corpo di Cristo ogni domenica, assolvevano attraverso questo dipinto a tale invito.


Cristo in gloria con le tre Marie, sant’Anna e il popolo (1528-1529), intero, Città di Castello (Perugia), Museo diocesano. L’esecuzione del dipinto, compiuto in piena autonomia per quel che concerne l’impianto iconografico che risulta piuttosto insolito, venne affidata al Rosso dalla compagnia del Corpus Domini di Città di Castello e risale agli anni del suo soggiorno ad Arezzo. Vasari ricorda come un incidente occorse alla tavola mentre l’artista era intento a preparare l’ingessatura. Ancora una volta l’iconografia inconsueta non venne bene accolta dalla committenza.

Nelle parole del biografo aretino, attendibili, per gli insegnamenti e i disegni ricevuti dal Rosso nei mesi in cui questi rimase ad Arezzo, si trova traccia delle tribolazioni ulteriori patite dal pittore durante l’esecuzione di un’altra opera segnata da scelte iconografiche insolite compiute in piena autonomia rispetto alla committenza. «Gli fu dopo fatto in Città di Castello allogagione di una tavola, la quale volendo lavorare mentre che s’ingessava le ruinò un tetto addosso che l’infranse tutta, et a lui venne un mal di febbre sì bestiale che ne fu quasi per morire» (Vasari, IV, p. 482). Tornato a Borgo Sansepolcro, il Rosso si trasferì poi ad Arezzo, dove, ospitato da un certo Benedetto Spadari, ottenne, aiutato anche da Giovanni Antonio Lappoli, gli affreschi di una cappella alla chiesa della Madonna delle Lacrime che era stata affidata al pittore Niccolò Soggi. Anche se quelle pitture murali non vennero mai eseguite, i soggetti sono noti attraverso le parole di Vasari e alcuni disegni, ed erano tutte figurazioni allegoriche della Vergine e del suo ruolo nella redenzione degli uomini dal peccato. I soggetti colmi di «bizzarrie» erano stati inventati dal Lappoli «canonico aretino et amico del Rosso», e comprendevano Adamo ed Eva «legati allo albero del peccato, e la Nostra donna che cava loro il peccato di bocca, figurato per quel pomo», sotto i piedi della Vergine era il serpente, mentre nell’aria, volendo figurare come ella fosse secondo l’Apocalisse «vestita del sole e della luna, fece Febo e Diana ignudi» (Vasari, IV, p. 483), mentre nelle altre lunette la Vergine era rappresentata come Arca dell’alleanza e come Trono di Salomone. Anche se il pittore, a detta di Giorgio Vasari, prese tempo prima di iniziare a dipingere la cappella tanto «ch’ella non si fece», in quel giro di mesi essendo il Rosso persona cortese eseguì «molti disegni in Arezzo e fuori, per pitture e fabbriche, come ai Rettori della Fraternita quello della cappella che è a piè di piazza» (Vasari, IV, pp. 483-484) per la quale aveva disegnato anche una Madonna del popolo seguendo lo schema arcaico della Vergine che accoglie i fedeli sotto al proprio mantello.

Secondo Vasari la pala di Città di Castello, allogata dalla compagnia del Corpus Domini il primo luglio 1528, venne invece dipinta in un secondo momento, poco prima di partire per la Francia, quando il Rosso si trasferì di nuovo a Sansepolcro verso la fine del 1529. Per contratto la confraternita gli aveva chiesto di raffigurare un Cristo resuscitato e glorioso, circondato da quattro donne: la Vergine, sant’Anna, la Maddalena e santa Maria Egiziaca. Nella parte bassa della tavola dovevano invece essere dipinte diverse figure che formassero un popolo accompagnato da tutti gli angeli che al pittore fosse sembrato giusto accomodare nella composizione. Se nella parte alta del dipinto, oggi nel Museo diocesano della città, vennero rispettate le indicazioni del contratto, il Rosso non vi dipinse invece nessuno degli angeli che nelle intenzioni della confraternita dovevano, probabilmente, collegare il piano divino del Cristo risorto e in gloria con quello terreno del popolo chiamato ad adorarlo. Vasari ricorda che il pittore non volle far vedere ai committenti la tavola prima di averla finita, consapevole probabilmente di avervi inserito invenzioni di suo capriccio figurandovi «mori, zigani, e le più strane cose del mondo: e da le figure in fuori, che di bontà son perfette, il componimento attende ad ogni altra cosa che all’animo di coloro che gli chiesero tale pittura» (Vasari, IV, p. 484). Anche per quella tavola il Rosso si sentì dunque libero dai vincoli imposti da una committenza occasionale e propose varianti iconografiche del tutto soggettive usando la composizione per esprimere pensieri in parte ricostruibili leggendo due noti trattati di magia: il De occulta Philosophia di Cornelio Agrippa e il Picatrix. In entrambi i testi si offrono elenchi di immagini atte a rappresentare le potenze dei pianeti, che un mago rinascimentale poteva invocare, corrispondenti alle figure dipinte di quel popolo. Il primo decano dell’Ariete era rappresentato da un uomo nero con l’aria corrucciata, come quello che nel dipinto appare seduto nell’angolo sinistro, mentre uno spirito di Giove era rappresentato da un uomo con la mitria vestito di una lunga stola, uno spirito di Marte da un uomo armato, uno spirito del pianeta Venere era rappresentato da una fanciulla splendidamente vestita come quella che volge le spalle al centro del dipinto.


Cristo in gloria con le tre Marie, sant’Anna e il popolo (1528-1529), particolare; Città di Castello (Perugia), Museo diocesano.

Due spiriti di Mercurio sono rappresentati da un fanciullo e da una verga, mentre un piccolo fanciullo e una veste verde saranno immagini della Luna. Infine due spiriti del Sole potranno essere raffigurati da una veste color zafferano e da un gallo, come quello che la donna seduta al centro del dipinto tiene in una borsa. Non dovrà stupire tale consuetudine del Rosso con alcuni testi di magia assai diffusi nel Cinquecento, giacché l’ambiente fiorentino d’ispirazione savonaroliana che lo aveva protetto contava su uomini quali Giovanni, Giovanfrancesco Pico della Mirandola, o Sante Pagnini, priore domenicano del convento lucchese di San Romano, avvezzi a frequentare sia la cabala ebraica che altre discipline esoteriche o magiche.


Anche in questi anni, segnati dalla mancanza di una cerchia capace di sostenere le sue scelte, il Rosso preferì dunque iconografie complesse e insolite, non sempre apprezzate da una committenza talvolta incapace di cooperare alla definizione di pitture che diventano segno di riflessioni autonome. Vasari ricorda anche una curiosa vicenda accaduta il giovedì santo del 1530, quando il pittore venne sorpreso da alcuni preti mentre assieme a un fanciullo, suo garzone di bottega, faceva vampate di fuoco in chiesa vicino all’altare. Ne scaturì una colluttazione a seguito della quale, secondo il biografo aretino, il Rosso decise di fuggire in Francia. Quelle vampe di fuoco erano in realtà un rito divinatorio di piromanzia descritto da un altro mago rinascimentale, Galeotto Marzio da Narni, che ci mostra un’apertura del Rosso verso discipline che poterono in qualche misura influenzare anche il suo lavoro, come era già stato per lo Sposalizio della Vergine dipinto nel 1523 per la cappella di Carlo Ginori a San Lorenzo a Firenze, dove sulla mitria del sacerdote appare una scritta cabalista.

ROSSO FIORENTINO
ROSSO FIORENTINO
Carlo Falciani, Antonio Natali
Giovanni Battista di Iacopo di Rossi detto Rosso Fiorentino (Firenze 1494 Parigi 1540) è considerato uno dei massimi interpreti del manierismo italiano. Sin dalle prime, importantissime opere che gli vennero commissionate risulta evidente il suo slancio ribelle alle costrizioni di un classicismo ormai in crisi. Spirito aggressivo e iconoclasta, Rosso Fiorentino diede nelle opere successive un contributo fondamentale alla corrente più ricca e inquietante della maniera, proponendo composizioni tormentate, convulse e animate da un espressionismo tale da rasentare la caricatura. Tra il 1523 e il 1527 fu a Roma, dove venne a contatto con le opere di Raffaello e di Michelangelo. Operò quindi a Sansepolcro, a Venezia e infine in Francia, dove venne chiamato da Francesco I e nominato pittore ufficiale di corte, dedicandosi, negli anni trenta del Cinquecento, alla decorazione del Padiglione di Pomona e alla decorazione della Galleria del Re nel Castello di Fontainebleau, opera che resta la più grande dell'artista e alla quale si rifaranno i maestri del manierismo internazionale. L'autore, profondo e appassionato conoscitore dell'artista, traccia nelle pagine di questo volume un suo personale profilo, offrendo numerosi spunti di riflessione sull'arte di uno dei più spregiudicati e poetici artefici della storia artistica dell'Occidente.