Era il momento in cui anche a Firenze, sotto assedio delle truppe imperiali, si sarebbe presto formata una corte al posto della repubblica. La nuova aria che avrebbe cambiato il rapporto fra artisti e committenti si era come cristallizzata in un volumetto edito nel 1528: Il cortegiano di Baldassarre Castiglione, che il Rosso lesse prima di lasciare l’Italia, abbandonandolo ad Arezzo in una cassa assieme a un’edizione della Storia naturale di Plinio, al De architectura di Vitruvio e a un manuale di lingua latina, che egli aveva deciso di imparare durante quegli ultimi anni italiani «per comparire più pratico in tutte le cose et essere universale» (Vasari, IV, p. 485). Al pari di molti fuoriusciti per ragioni politiche o religiose il Rosso scelse la strada più ovvia di fuga verso le regioni d’oltralpe, nella primavera del 1530 egli lascia Sansepolcro e raggiunge Venezia dove viene accolto da Pietro Aretino e da questi probabilmente introdotto presso l’ambasciatore francese che si fece tramite per il suo definitivo trasferimento alla corte di Francesco I. Sono anni cruciali per la Francia, sotto l’impulso del sovrano il gusto dell’intera nazione viene trasformato secondo i princìpi rinascimentali d’ispirazione neoplatonica che Francesco aveva appreso durante il suo soggiorno italiano. Il Rosso, assieme ad altri artisti quali Primaticcio e poi Cellini e Niccolò dell’Abate diviene uno dei principali strumenti di questa mutazione. Giunto in Francia, dove avevano trovato asilo vari fuoriusciti fiorentini come il poeta Luigi Alamanni, egli fu «con molte carezze dalla nazione fiorentina ricevuto» (Vasari, IV, p. 486), e le sue opere vennero talmente apprezzate da Francesco I che la sua condizione esistenziale mutò radicalmente. Nei dieci anni trascorsi lontano dall’Italia egli prese a vivere come un signore, con servitori e cavalli, apprezzato dal re per la sua abilità di pittore, ma anche per «la presenza, il parlare, la maniera del Rosso, il quale era grande di persona, di pelo rosso conforme al nome, et in tutte le sue azzioni grave, considerato e di molto giudizio» (Vasari, IV, p. 486).
il trasferimento in francia
e il successo
Dopo i fatti politici seguenti l’assedio di Firenze, nel 1530, il Rosso decise comunque di lasciare l’Italia, per «fuggire una certa miseria e povertà nella quale si stanno gli uomini che lavorano in Toscana e ne’ paesi dove sono nati» (Vasari, IV, p. 485).
A Parigi divenne canonico della Sainte Chapelle, per la quale disegnò elementi architettonici e decorativi; ma il luogo dove egli lasciò opere destinate a essere modello per l’intera nazione fu il castello di Fontainebleau dove, oltre a un padiglione nel giardino in cui assieme a Primaticcio dipinse la storia di Vertumno e Pomona, decorò la grande Galleria che costituiva il cuore pulsante di una nuova visione rinascimentale della Francia. In quel luogo le lettere e le arti erano unite in un insieme inscindibile che aveva pochi esempi di riferimento nell’Italia e nell’Europa di quegli anni, dove non esistevano precedenti diretti riguardo all’assetto decorativo scelto per le pareti. Nell’estate del 1533 si predisponevano le pareti per gli stucchi che vennero principiati nell’aprile dell’anno successivo. Per quanto riguarda la decorazione pittorica invece, il Rosso fu incaricato dell’esecuzione del ciclo dalla complessa impaginazione iconografica portata a termine nel 1539. L’intero adornamento della Galleria presentava la possibilità di partecipare a un percorso di elevazione dall’amore terreno a quello celeste, dagli dèi pagani a Cristo.
Lo stesso Francesco I indica la funzione della Galleria in un documento del 1529, col quale concede una rendita ai monaci del convento annesso al castello come risarcimento per alcuni corpi di fabbrica demoliti durante la costruzione di quello spazio utile, spiega il sovrano, a collegare le proprie stanze alla chiesa conventuale. Proprio la sua funzione di ideale congiunzione fra la camera di Francesco I e la Chapelle de la Trinité dovette determinare il programma iconografico della decorazione, a tal punto complesso che solo un grande umanista legato alla corte come Guillaume Budé, fra le altre cose anche bibliotecario di Fontainebleau, poteva concepire. Per recuperare il significato della decorazione, oggi pesantemente alterata, bisognerà dunque guardarla nella sua integrità così come la vide, sotto la guida di Francesco I, l’imperatore Carlo V nella notte di Natale del 1539, appena conclusi i lavori.
L’intero ciclo decorativo aveva una partizione speculare e simmetrica dei soggetti disposti secondo una croce ideale con al centro il busto del sovrano. Ogni affresco principale è inquadrato da un insieme di scene disposte simmetricamente secondo uno schema ben preciso. In alto, al centro di ogni segmento, vi è la salamandra, emblema di Francesco I, ai lati sono scene realizzate alternativamente in stucco o in affresco, mentre in basso al centro della scena principale è sempre disposto un cartiglio con un’altra immagine simbolica o narrativa posta a commento dell’insieme. Ogni segmento della decorazione risponde così a precise e distinte figure retoriche che non potremo affrontare in questa sede. Ci limiteremo a guardare il significato del programma nei suoi principi generali.
Per comprendere il pensiero sotteso alla Galleria si dovranno tenere a mente gli interessi culturali di Francesco I, legati ai canoni del neoplatonismo e incentrati su temi d’amore trattati con eloquenza. Il clima filosofico a cui ubbidisce l’insieme è riassunto dalla salamandra, emblema scelto dal sovrano fin dal 1504 accompagnato dal motto «notrisco al buono, stingo el reo», nel quale è già implicita quella dualità dell’amore che nel neoplatonismo è incarnata dalla contrapposizione della Venere terrestre e della Venere celeste. Se dunque il nutrimento arriva dal fuoco dell’amore elevato («notrisco al bono»), il fuoco delle passioni derivate dall’amore carnale andrà invece vinto e superato («stingo el reo»). La stessa dualità guidava la decorazione della Galleria di Fontainebleau.
La disposizione originaria dei soggetti della Galleria seguiva uno schema preciso: a metà della parete lunga, orientata verso nord, si apriva un piccolo camerino al cui interno era un
affresco ovale con l’Amore di Giove e Semele (perduto). Al centro della parete di fronte, sul lato lungo sud della Galleria, rimane l’unica scena ovale superstite con l’Amore di Giove e Danae. Della stessa forma, ma orientate in senso verticale, erano infine le pitture su tela delle due testate: a est Venere e Bacco, oggi conservata nel Musée National d’Histoire et d’Art Luxembourg, a ovest Venere e Cupido (dipinto perduto del quale possiamo probabilmente vedere una copia in una tavola di Jacques de Baker al Musée National de la Renaissance di Ecouen). Le due testate declinavano le polarità dell’amore secondo il neoplatonismo e così come simboleggiato nella salamandra: Venere e Bacco, sopra la porta della camera del re, alludeva all’amore carnale, mentre nella parete confinante con la Chapelle de la Trinité Venere e Cupido alludeva invece alla forma d’amore elevato e celeste di cui la salamandra si nutriva. Le altre dodici storie, dipinte ad affresco nei segmenti delle pareti lunghe alternati alle finestre, sei verso est e sei verso ovest rispetto al busto di Francesco I, hanno tutte formato rettangolare, e incarnano gli effetti delle due differenti forme d’amore.
Secondo Guillaume Budé, un sovrano come Francesco doveva essere capace per volontà divina di distinguere tra bene e male, e di scegliere il giusto cammino, significato dalla parte destra. Al contrario, prosegue Budé nell’Institution du Prince, dedicato al sovrano nel 1519, i malvagi scelgono sempre un cammino che conduce al disonore, simboleggiato dalla parte sinistra, quella dedita ai piaceri dei sensi. Budé applicava a un ambito etico la medesima partizione fra bene e male che si osserva in ogni rappresentazione del Giudizio universale, dove i salvati sono alla destra di Cristo e i dannati a sinistra. Nella Galleria, muovendo alla sinistra del busto del re verso la testata est e l’ovale con Venere e Bacco, metafora della potenza dell’amore sensuale, si incontravano sei affreschi rettangolari che declinavano dunque, attraverso vicende del mito e della storia, gli effetti negativi della scelta del percorso sinistro verso il piacere dei sensi, l’ambizione e l’appetito perverso di vendetta, come scriveva Budé anche in Le passage de l’hellénisme au christianisme. I soggetti affrescati sono i seguenti: La battaglia fra centauri e lapiti, desunta dalle Metamorfosi di Ovidio e scoppiata a un banchetto di nozze per eccesso di vino e lussuria; La perdita della gioventù perpetua, raro soggetto derivato dalla Theriaca di Nicandro di Colophon e parabola della stupidità del genere umano, capace di perdere la gioventù perpetua per soddisfare bisogni corporali; La vendetta di Nauplio e La morte di Aiace, da Igino, a simboleggiare la bassezza di chi cede al desiderio di vendetta.
Nell’affresco di fronte, Cleobis e Biton conducono la madre al tempio di Giunone, per essere poi uccisi dalla dea quale ricompensa per la loro fedeltà, in modo che la loro vita si potesse compiere da uomini giusti, secondo il racconto fatto da Solone a Creso nelle Vite di Plutarco. Proseguendo verso la testata ovest si incontrano alcuni soggetti dove Francesco I appare di persona o sotto forme emblematiche. In L’unità dello Stato egli è circondato da dignitari mentre accetta il dono solo simbolico e non venale di alcune melagrane che un fanciullo inginocchiato gli porge. Sulla parete di fronte egli è figurato come Elefante reale bardato della salamandra, che simboleggia la metamorfosi del sovrano in animale religioso sapiente, giusto e clemente, al contrario di Giove e Saturno che negli affreschi laterali si sono trasformati in animali per inseguire degli amori carnali. Continuando il percorso verso la testata ovest della Galleria troviamo l’elevazione dai desideri terreni attraverso l’amore per le lettere in L’illuminazione di Francesco I, dove il sovrano ripudia i vizi ed entra nel tempio della sapienza. Di fronte è infine raffigurato il Sacrificio officiato da Elia contro Acab e i falsi profeti di Baal, secondo le parole del Primo libro dei re. Sull’altare è scolpita l’iniziale di Francesco come prova ulteriore della sua religiosità e del sostegno che egli dava alla vera fede contro i falsi profeti. In questo lato della Galleria, dal piano delle virtù laiche, attraverso una progressione di esempi dedicati all’amore spirituale, si ascendeva dunque per gradi al piano divino, simboleggiato nella testata ovest dal dipinto con Venere e Amore. Nella parete idealmente confinante con la Chapelle de la Trinité, la Venere celeste chiudeva il percorso iniziato seguendo la tromba della Fama alla destra del busto di Francesco, come polo opposto alla Venere terrestre e carnale che, accompagnata da Bacco, le era speculare nell’altra testata opposta confinante con la camera del re. L’intera Galleria presentava dunque due differenti possibilità di lettura: la prima di tipo dottrinale, che figurava attraverso esempi della storia e del mito l’influsso esercitato dai due differenti tipi d’amore, carnale e spirituale, sulla vita e sulle azioni dell’uomo. La seconda possibilità di lettura richiedeva invece lo spostamento fisico del visitatore che, partendo dalla camera di Francesco, poteva raggiungere la chiesa del convento all’altro lato della Galleria: in questo caso l’intera decorazione avrebbe svolto per figure, attraverso la varietà retorica offerta dalla sovrapposizione di pitture e stucchi, un discorso affine a quello presentato da Budé nel suo Le passage de l’hellénisme au christianisme. Breve tragitto che, una volta terminata la decorazione, diventava un percorso di elevazione dall’amore terreno a quello celeste, dagli dei pagani a Cristo.
ROSSO FIORENTINO
Carlo Falciani, Antonio Natali
Giovanni Battista di Iacopo di Rossi detto Rosso Fiorentino (Firenze 1494 Parigi 1540) è considerato uno dei massimi interpreti del manierismo italiano. Sin dalle prime, importantissime opere che gli vennero commissionate risulta evidente il suo slancio ribelle alle costrizioni di un classicismo ormai in crisi. Spirito aggressivo e iconoclasta, Rosso Fiorentino diede nelle opere successive un contributo fondamentale alla corrente più ricca e inquietante della maniera, proponendo composizioni tormentate, convulse e animate da un espressionismo tale da rasentare la caricatura. Tra il 1523 e il 1527 fu a Roma, dove venne a contatto con le opere di Raffaello e di Michelangelo. Operò quindi a Sansepolcro, a Venezia e infine in Francia, dove venne chiamato da Francesco I e nominato pittore ufficiale di corte, dedicandosi, negli anni trenta del Cinquecento, alla decorazione del Padiglione di Pomona e alla decorazione della Galleria del Re nel Castello di Fontainebleau, opera che resta la più grande dell'artista e alla quale si rifaranno i maestri del manierismo internazionale. L'autore, profondo e appassionato conoscitore dell'artista, traccia nelle pagine di questo volume un suo personale profilo, offrendo numerosi spunti di riflessione sull'arte di uno dei più spregiudicati e poetici artefici della storia artistica dell'Occidente.