Il gusto dell'arte

un liquore d’origine
dalmata

di Ludovica Sebregondi

Una donna siede su una seggiola di legno a un tavolino rivestito da una tovaglia gialla, con una leggera piega di stiratura e una increspatura al centro. Le gambe della giovane sono accavallate e l’abito verde le si modella addosso disegnando morbidamente il corpo sottile; sul capo è posato di sbieco un cappellino a cloche, mentre i capelli – di cui non si intravede l’attaccatura – sono elegantemente acconciati. Non indossa gioielli e sul volto ovale spicca un rossetto dal colore intenso, elemento fondamentale del trucco dell’epoca, al pari dell’incarnato chiaro. Una nicchia incorniciata di legno si apre sul fondo: sui due ripiani sono posati una scatola e una bottiglia impagliata il cui collo non si vede per intero.

Tutto è bloccato e fermo nell’atmosfera straniante: la scena si svolge in un caffè, come informa il titolo del dipinto, ma il taglio concentrato impedisce di percepire l’ambiente circostante, anche se la sedia rustica suggerisce un locale semplice. I colori essenziali contribuiscono a far percepire l’atmosfera del luogo: giallo ocra per la tovaglia, la scatola e l’impagliatura; marrone per la spalliera, i capelli e il listello che perimetra l’apertura; verde per l’abito e – di una diversa tonalità – la parete di fondo. Fulcro del dipinto sono le labbra alla moda e lo sguardo perso nel vuoto della donna che sembra attendere pazientemente, sedendo eretta ma di traverso: le braccia formano un grande cerchio che si chiude nelle mani intrecciate e che trova il suo appoggio nell’avambraccio posato sopra lo schienale della seggiola.

Il romano Antonio Donghi ha trentacinque anni quando, nel 1931, dipinge Donna al caffè, che viene esposto alla Biennale di Venezia dell’anno successivo e subito acquistato per la Galleria internazionale d’arte moderna di Venezia. L’artista unisce, con effetto straniante, minuzia analitica e astrazione sintetica nell’incanto di un binomio tra realismo e surreale immobilità: la nicchia che si apre nella parete sembra adattamento all’attualità delle aperture apparse fin dal Cinquecento nella pittura dei Paesi Bassi e in particolare nei trompe-l’oeil, in cui gli oggetti assumono una connotazione allegorica. Donghi, che conosceva l’arte fiamminga anche grazie alla Mostra dei capolavori della pittura olandese allestita a Roma, presso la Galleria Borghese, nel 1928, non a caso venne definito dal critico Ugo Ojetti un «fiammingo romanesco», proprio a sottolineare questo dualismo tra strapaese e cultura nordica.

Il Realismo magico, corrente artistica cui Donghi si accosta, opta per una adesione al vero capace però di suggerire una seconda vita delle cose oltre la loro pura visibilità. Gli oggetti sono infatti raffigurati con un naturalismo fotografico ma trasmettono un senso di irrealtà, infondendo nel quotidiano qualcosa di misterioso. 


Nella sua accurata descrizione la bottiglia non lascia dubbi: la forma allungata e il tipo di impagliatura sono propri del maraschino, il distillato tratto dalle ciliegie della rara varietà marasca, tipica della zona di Zara, in Dalmazia. Il territorio fu sotto Venezia fino alla caduta della Serenissima nel 1797, passò poi all’Austria e venne annesso all’Italia con la prima guerra mondiale. La produzione industriale del liquore, iniziata già nel 1759, si era diffusa ancor più dal 1821 grazie all’attività della famiglia Luxardo, che giunse a distribuirlo anche oltreoceano. Dopo la seconda guerra mondiale, in seguito ai bombardamenti che avevano distrutto Zara e gli stabilimenti produttivi, alla cessione della città alla Iugoslavia e ai drammatici fatti che segnarono le vicende di quei territori, la coltivazione di quei particolari ciliegi si spostò in Italia, grazie ai polloni delle marasche che erano stati donati all’Orto botanico di Firenze e che furono reimpiantati in Veneto. La produzione poi riprese anche nell’attuale Croazia dove continua tutt’oggi nella fabbrica denominata Maraska, che rappresenta tuttora il più diffuso marchio di maraschino croato.

Durante il Ventennio il liquore rappresentava un emblema di italianità, simbolo delle zone da poco ricongiunte alla patria, ma era anche base ineliminabile per la pasticceria e per una delle preparazioni che hanno segnato la gastronomia di un lungo periodo, poiché il suo uso si è protratto a lungo nelle trattorie e nei ristoranti di tutta Italia: la macedonia al maraschino.

Ma l’avventrice di Donghi, che siede con sguardo tanto misterioso da farci chiedere chi stia aspettando e che importanza possa avere questo momento nella sua vita, forse è solo in attesa di un gelato o di un bicchierino di italico liquore.

La ricetta:
Torta di riso
Cuocere 180 g di riso in 1 litro di latte e, a cottura ultimata, farlo raffreddare; sbucciare 100 g di mandorle e pestarle fnissime insieme a 30 g di cedro candito. Sbattere 4 uova intere e versarle sul riso ormai freddo, amalgamando accuratamente. Insaporire con scorza di limone, alchermes e maraschino. Mettere il composto in una teglia unta di burro e spolverizzata di pan grattato. Cuocere per 40 minuti in forno a 160°. Togliere la torta dal forno e - quando sarà raffreddata - rovesciarla su un piatto, presentandola tagliata a losanghe.

ART E DOSSIER N. 306
ART E DOSSIER N. 306
GENNAIO 2014
In questo numero: MANIERISMI E SEX APPEAL Quando l'eros insidia lo stile, dal Primaticcio a Balthus, dal mito di Leda a Benton all'arte contemporanea. IN MOSTRA: Fornasetti, Renoir.Direttore: Philippe Daverio