Nel ricco testo introduttivo al catalogo della mostra, Daniel Zamani esamina come queste prime passioni di Breton ma anche di Louis Aragon e Max Ernst verso l’attività onirica, la parapsicologia e il paranormale nascessero dalla convinzione che gli stati di trance - per esempio, durante le sedute spiritiche - fossero potenti catalizzatori dell’attività creativa. Zamani però sottolinea anche una caratteristica significativa di Breton, il quale, al pari dello psicologo svizzero Théodore Flournoy - che investigò fenomeni come la telepatia e lo spiritismo - rifiutava recisamente le ingenuità sull’esistenza di un mondo ultraterreno, che liquidava come «corrente sotterranea parassitaria di spiritualismo». Superstizioni, aggiungo io, che avevano alimentato un’“imagerie” di massa che dal Medioevo giungeva al XIX secolo: si pensi alle “camere oscure” con fenomeni ottici fin dal Trecento, per arrivare via via alle fantasmagorie del Sette e Ottocento, con spettri, fantasmi e redivivi. Semmai, Breton giungeva sul bordo della “follia”, ma lì si fermava.
Fu tuttavia soprattutto Max Ernst a promuovere nel gruppo interessi verso temi esoterici. Per esempio, nel dipinto Incontro degli amici (1922), egli si ritrae in modo metatemporale non solo accanto ai suoi compagni di strada surrealisti, ma anche a Raffaello - il quadro si ispirava infatti alla Scuola d’Atene, 1509-1511 - e a Fëdor Dostoevskij: a simboleggiare, come nel medaglione della Stanza della segnatura, che l’artista-poeta è ispirato da Dio.
Molti altri surrealisti, continua Zamani, in seguito favorirono il mito di artisti-maghi o alchimisti (o, nel caso di artiste- donne, «con ritratti o autoritratti densi di allusioni ai poteri di maghe o streghe»). Per fare qualche esempio, nei citati Il surrealista, La vestizione della sposa, o nelle Nozze chimiche (1948) di Max Ernst, dove questi si ritrae come protagonista maschile.
Una simile vocazione crebbe dopo il Secondo manifesto del surrealismo, che fu pubblicato in forma di volume nei primi mesi del 1930. Vi fu ribadito il ruolo-chiave di Breton, che rifiutò di annoverare chi, come Rimbaud, Baudelaire, Edgar Allan Poe, era stato considerato precursore del surrealismo, sbarazzandosi inoltre dei vari Artaud, Masson, Soupault, Vitrac, Miró, Magritte, e auspicando un «surrealismo al servizio della rivoluzione». Superata la netta frattura col partito comunista francese - da cui fu espulso nel 1932 -, nella seconda metà degli anni Trenta, specie dopo la guerra civile spagnola, Breton si riavvicinò al comunismo, andando anche a trovare nel 1938 Lev Trockij nel suo esilio messicano. Ma Breton non abdicò mai alla sua convinzione di fondo: che la “rivoluzione” dei surrealisti dovesse non tanto essere partitica, ma intesa come una sorta di totalizzante rigenerazione del mondo, che riguardava anche, ma non soltanto, l’arte. Su questo aspetto indaga in un saggio non meno denso Gražina Subelytė, curatrice del progetto espositivo. Quando scoppia la seconda guerra mondiale e molti surrealisti si rifugiano negli Stati Uniti, afferma la studiosa, essi «si dedicano alla magia e all’occulto anzitutto in quanto metafore di cambiamento [e] se ne servono come narrazioni simboliche con cui configurare la loro fiducia in un periodo di guarigione dopo la guerra». Ma non tutti partirono subito per l’America. Una parte di loro - André Breton, Victor Brauner, Óscar Domínguez, André Masson, Jacques Hérold, Wifredo Lam, Jacqueline Lamba e Max Ernst - prima di imbarcarsi a Marsiglia creò il Jeu de Marseille: un “gioco” altamente simbolico che diventò «il manifesto visivo del progetto surrealista in tempo di guerra». Le carte vi sostituivano figure di potere come re e regina con personaggi esoterici quali il mago, la sirena e il genio. Sempre maggiore fu il coinvolgimento di temi esoterici e occultistici: per esempio, Masson concepì la carta del Mago dell’amore accostandola a Novalis, mentre Domínguez abbinò Sigmund Freud alla carta del Mago dei sogni e Breton il Mago della conoscenza all’alchimista Paracelso.
Le immagini nei quadri del periodo bellico si fecero sempre più spaventose: per esempio, nel Max Ernst di L’Europa dopo la pioggia II (1940-1942). Una volta di più l’artista si poneva come una sorta di veggente, se non di vero e proprio mago: lo si riscontra sia nello straordinario allestimento di Art of This Century - celebre galleria aperta a New York da Peggy Guggenheim nel 1942 - dell’architetto Frederick Kiesler, sia in testi di Breton come Arcano 17 (1945) con una donna protagonista di una salvifica e alchemica idea di rigenerazione.
Un’annotazione. In mostra vi sono molte opere di de Chirico: che, come si sa, i surrealisti consideravano un loro precursore, con grande disappunto e furibonde reazioni da parte sua, poiché egli detestava il concetto di “inconscio”. De Chirico era di sicuro un seguace dell’idea nietzschiana di “superuomo”; che per lui, tuttavia, coincideva con l’artista-genio, non certo con una sorta di mago dotato di poteri soprannaturali. Perciò si identificava col “veggente”, per esempio in un’opera in mostra come Il ritornante (1917-1918): che non è, come scrive Kristoffer Noheden, «una colonna dorica che termina nella parte superiore nel corpo di un uomo»: ma de Chirico stesso, come ben spiega Filippo de Pisis - che vide la genesi del quadro - nel romanzo Mercoledì 14 novembre 1917.