Grandi mostre. 1
Keith Haring a Pisa

UN INNO
ALLA VITA

Per la prima volta in europa oltre centocinquanta opere della Nakamura Keith Haring Collection, inaugurata in giappone nel 2007, sono esposte a pisa dove l’artista americano ha dipinto tuttomondo, lo splendido murale realizzato pochi mesi prima della sua prematura scomparsa.

Lauretta Colonnelli

Il 28 dicembre 1987 un giovane chimico giapponese, di passaggio a New York per le sue ricerche in farmacologia, entrò per caso in una galleria d’arte. Vide Untitled (People’s Ladder) di Keith Haring. Ne rimase colpito e d’impulso l’acquistò. Il chimico si chiamava Kazuo Nakamura. Passarono gli anni e Nakamura continuò a comprare lavori di Haring. Ne aveva raccolti più di cento nel 2004, quando cominciò a progettare un museo per ospitarli. Si rivolse all’architetto Atsushi Kitagawara, famoso per i suoi edifici costruiti come se fossero grandi sculture abitate. La Nakamura Keith Haring Collection, l’unico museo del pianeta che oggi riunisce oltre quattrocento opere del celebre artista statunitense, fu inaugurato nel 2007 a Kobuchizawa, a due ore di treno da Tokyo e in mezzo ai boschi dei monti Yatsugatake.

Ora centosettantaquattro opere della collezione sono in mostra a Palazzo blu di Pisa. È la prima volta che arrivano in Europa. Perché proprio a Pisa? Per capirlo bisogna tornare di nuovo a New York, di nuovo a quell’inverno freddissimo del 1987, a quella mattina che era ancora buio quando Piergiorgio Castellani, studente pisano di diciannove anni in viaggio con il padre, incontrò Keith Haring. Lo incontrò per strada, fermo davanti a una processione degli Hare Krishna che cantavano le loro preghiere. «Ma allora esiste davvero», pensò. Racconta che l’immagine di Keith gli era familiare perché l’aveva vista tante volte sulle pagine di “Interview”, la rivista di Andy Warhol alla quale era abbonato. «Haring era per me un idolo, come Maradona per i tifosi di calcio». Gli si accostò tremando per l’emozione: «Ma te… te sei Haring!». E subito gli si accese in testa il Keith Haring Italian Project: l’invito a dipingere un grande murale a Pisa. Haring accettò.

Tornato a casa, Castellani si mise a cercare un muro degno dell’artista. Lo individuò nella facciata posteriore del convento di Sant’Antonio Abate, centottanta metri quadrati di superficie. Convinse le autorità ecclesiastiche e quelle municipali a concedere la parete e a rinforzarla con un cappotto di pannelli in materiale sintetico, rifiniti con strati di rete e di intonaco poroso. Nel giugno del 1989 la parete era pronta. Keith arrivò al convento direttamente dall’aeroporto. Poggiò una mano sul muro e si commosse: «Sembra una grande tela». Per prima cosa volle fare un giro per la città, per scoprire i colori di Pisa, gli stessi che avrebbe riprodotto sul suo murale. Si fece portare in moto al Cimitero (o Camposanto) monumentale nel campo dei Miracoli, ai musei. Poi si mise al lavoro. 


Il primo giorno disegnò da solo la linea nera di contorno delle figure, senza bozzetto preparatorio. Il secondo passò alla colorazione, aiutato da alcuni studenti e dagli artigiani della Caparol, la ditta che aveva fornito tempere acriliche in grado di mantenere intatta nel tempo la qualità dei colori.

È l’unica opera di Haring concepita fin dall’inizio come permanente e non destinata a scomparire nell’uso o nella serialità della comunicazione di massa. Per eseguirla, l’artista, che aveva sempre concluso i suoi murali in un solo giorno, impiegò una settimana. Tutti i pisani andarono a vedere Haring che dipingeva. All’inaugurazione arrivò una grande folla, compressa come a un concerto rock.

Le trenta figure di uomini e animali fantastici sono le stesse che Haring aveva creato fin dall’inizio del suo percorso artistico, come si può vedere nella collezione di Nakamura. Simboli dell’energia vitale sulla Terra, icone del suo stile inconfondibile, che ora intrecciava in grandi composizioni. A Pisa, queste figure sembrano staccarsi dall’intonaco per danzare nell’aria. Haring le aveva concepite come un inno alla vita. Quando le impalcature furono tolte, le guardò, spalancò le braccia, gridò in italiano: «Tuttomondo!». E l’opera ebbe un titolo.

C’è, tra le figure, il Radiant Baby, il neonato che gattona circonfuso di luce, con i raggi che indicano il movimento, l’energia positiva. Ci sono i due omini che si uniscono in una forbice per tagliare a metà il serpente, raffigurazione del Male; e quelli che sorreggono il delfino per evocare il rapporto con la Natura; e le figure prive di volto che escono ognuna dalla testa dell’altra come matrioske; e la donna con il bambino in braccio; e l’angelo che impersona la creatura spirituale, il guardiano degli esseri umani, e anche la complessità della vita, il potere, il caos. I colori smorzati riflettono quelli dei palazzi pisani. Pochi mesi dopo Haring sarebbe morto di Aids, e lo sapeva. Aveva solo trentun anni e lasciava un’eredità immensa in disegni e dipinti, murali e oggetti decorati, manifesti e t-shirt stampate.


Keith Haring mentra lavora alla sua opera Tuttomondo (1989), Pisa, collezione Cineclub Arsenale.


Immagine dell’inaugurazione di Tuttomondo realizzato sulla facciata posteriore del convento di Sant’Antonio Abate, Pisa 1989.


Immagine dell’inaugurazione di Tuttomondo realizzato sulla facciata posteriore del convento di Sant’Antonio Abate, Pisa 1989.

Nel gran circo dell’arte contemporanea, dove le opere sono spesso rese lontane e incomprensibili al grande pubblico da una filiera composta da artisti chiusi nella torre d’avorio - fumisterie dei critici -, prezzi esorbitanti stabiliti dai mercanti per un circuito ristretto di collezionisti, Haring camminava nella direzione opposta. «La cosa che più mi interessa è abbattere la barriera fra arte commerciale e arte tradizionale», diceva.

Insofferente alle forme espressive e ai sistemi di diffusione, ha voluto comunicare i propri messaggi in modo accessibile a tutti, dipingendo murali nei luoghi pubblici di New York e poi nelle strade del mondo intero. Ha inventato un linguaggio figurato che si esprimeva attraverso l’uso esclusivo della linea. Diceva: «I miei disegni non sono mai progettati in anticipo. Si tratta piuttosto di “écriture automatique”». Le lettere del suo alfabeto erano pittogrammi ispirati ai cartoni televisivi o ai giornali letti a casa della nonna, e combinava questo linguaggio con una fantasia sfrenata. Era convinto che l’arte avesse il potere di trasformare il mondo, che fosse in grado di esercitare un’influenza positiva sugli uomini. Riconosceva un ruolo importante allo spettatore, perché «è lui che crea la realtà, il significato, il concetto alla base dell’opera; io sono solo un intermediario che tenta di raccogliere le idee».

Spesso identificato con i graffitisti, in realtà è stato qualcosa di nuovo e diverso. Ha creato una sintesi tra la Pop Art di Andy Warhol, l’arte aborigena, quella dei nativi americani e il primitivismo. Ha convertito il graffito in opera d’arte e l’opera d’arte in oggetto di largo consumo, stampando gadget e t-shirt con le proprie “tag”, che poi regalava o vendeva per pochi dollari in metropolitana. Nel 1986 aprì a Soho (New York) anche un Pop Shop per vendere questi oggetti, che oggi continuano a essere prodotti e commercializzati dalla fondazione istituita dall’artista per reperire aiuti a sostegno dei bambini in difficoltà e dei malati di Aids. L’idea rivoluzionaria era di vendere creazioni artistiche a un dollaro a milioni di persone anziché venderne una per un milione di dollari a un unico collezionista. «Voglio che nei miei Pop Shop non entrino solo i miliardari, ma anche i ragazzini del Bronx», diceva.

Ci furono due episodi che indirizzarono il piccolo Keith sulla strada dell’arte: il padre che disegnava per lui, con una linea ininterrotta, alcuni personaggi dei fumetti; e la visita all’Hirshhorn Museum di Washington, dove vide per la prima volta la serie di Andy Warhol dedicata a Marilyn Monroe. In seguito, avrebbe unito queste due suggestioni nel celebre Andy Mouse, che combina il Mickey Mouse di Disney e l’artista Andy Warhol, incontrato a New York nel 1983 e diventato suo amico.

Aveva cominciato a creare, nell’estate del 1980, le sue figurine stilizzate di uomini, animali e oggetti che poi avrebbe avviluppato in piccole scene per raccontare l’allegria dell’infanzia e le allucinazioni provocate dalle droghe, l’omosessualità e la violenza, l’orrore dell’Aids e la forza giocosa della vita.

Era nato a Reading, in Pennsylvania. Aveva frequentato a Pittsburgh lezioni di grafica pubblicitaria. Aveva raggiunto New York e stretto amicizia con Kenny Scharf e Jean-Michel Basquiat. Mostre, letture, esibizioni dal vivo, discoteche: di notte New York bruciava e Haring bruciava con lei. Si ammalò di Aids, si spaventò, decise di metter da parte le preoccupazioni, continuò a dipingere fino all’ultimo. Poco prima di morire aveva confessato al suo biografo John Gruen: «Non voglio dire che la minaccia della morte mi abbia insegnato ad apprezzare la vita, perché l’ho sempre amata. Bisogna goderne pienamente e preoccuparsi del futuro soltanto quando arriva».


ERA CONVINTO CHE L’ARTE AVESSE IL POTERE DI TRASFORMARE IL MONDO, CHE FOSSE IN GRADO DI ESERCITARE UN’INFLUENZA POSITIVA SUGLI UOMINI

Keith Haring

a cura di Kaoru Yanase
Pisa, Palazzo blu
fino al 17 aprile
orario 10-19, sabato, domenica e festivi 10-20
consigliata la prenotazione: telefono 050-916950
info@palazzoblu.it
catalogo MondoMostre
www.mostraharingpisa.it

ART E DOSSIER N. 395
ART E DOSSIER N. 395
FEBBRAIO 2022
In questo numero: INCROCI AL CINEMA: Beuys e Richter; Un museo per Fellini. PITTURE PALEOLITICHE: La grotta degli spiriti. IN MOSTRA: A Milano: Steinberg; Gnoli; Divisionismo. Haring a Pisa, Ghirri a Polignano a mare. DILEMMI RIPRODUTTIVI: Copia: umana o fotografica?Direttore: Claudio Pescio