LA PRODUZIONE SACRA:
ARTE E DEVOZIONE RELIGIOSA‌

e opere sacre pubbliche e private, che pure hanno goduto di una considerazione postuma minore rispetto ai ritratti, impegnarono Moroni per tutta la carriera.

Una delle prime prove per la natìa Albino fu la commessa, da parte della Confraternita dei disciplini, di una tela raffigurante la Trinità; il pittore si rifà in questa scena a un precedente del soggiorno bergamasco di Lorenzo Lotto, dipingendo Cristo al centro attorniato da un sipario nuvoloso, da cui emerge in controluce un Dio Padre di cui l’uomo non può conoscere le sembianze, per questo velato in maniera fantasmatica. La tavolozza di Moroni è già carica, squillante, e i dettagli dell’Onnipotente, nella fattispecie le maniche arrotolate (quasi fosse un maniscalco lombardo), avvicinano nel trasporto sacro e nella preghiera il fedele del Cinquecento.


Alla metà degli anni Cinquanta Moroni sviluppa il tema pittorico delle cosiddette “orazioni mentali”, in cui il committente appare di mezzobusto in primo piano, sui margini delle scene, nell’atto di pregare così intensamente da riuscire a visualizzare la scena sacra cui si era dedicato. Il riferimento culturale per capire il clima in cui si sviluppano questi dipinti sono gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, pubblicati in latino nel 1548 e divenuti subito, anche grazie alle esortazioni pubbliche di papa Paolo III Farnese, una lettura d’obbligo per ogni cattolico alfabetizzato. È attraverso immagini come il Gentiluomo in contemplazione del Battesimo di Cristo o la Coppia in adorazione davanti alla Madonna col Bambino e san Michele arcangelo che si riesce a comprendere l’importanza della religione per un uomo o una donna viventi in epoca di Controriforma cattolica. I donatori sono riprodotti oranti o voltati verso lo spettatore, quasi per coinvolgerlo nella scena, mentre lo schema generale anticipa quello delle pale controriformate della maturità.

Gentiluomo in contemplazione del Battesimo di Cristo (1555 circa).


Lorenzo Lotto, Trinità (1519-1521 circa); Bergamo, Museo diocesano Adriano Bernareggi (in deposito).

Una provincia fortemente cattolica come quella di Bergamo fu sempre prodiga di commesse ecclesiastiche, fornendo a Moroni l’opportunità di sviluppare, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una serie di pale d’altare disseminate in ogni angolo del territorio. Dai documenti della chiesa parrocchiale di San Martino a Sovere, sappiamo che Moroni ricevette nel 1561 l’incarico per una Resurrezione, da terminare per la Pasqua dell’anno successivo. La tavolozza brillante riecheggia i toni morettiani (il giallo aranciato, i blu e i grigi verdacei, il rosso rosato delle vesti dei soldati), così come il paesaggio che si perde sullo sfondo. Cristo, protagonista nella parte superiore della scena, è modulato ribaltando specularmente l’erculea figura del pannello centrale nel Polittico Averoldi di Tiziano a Brescia: rispetto al Redentore del Vecellio, che risente dei marmi ellenistici come il Laocoonte e della scultura di Michelangelo, Moroni cala la scena in un’atmosfera più quotidiana, quasi domestica.


Lo schema collaudato (per certi versi superato) dei polittici era sinonimo di ufficialità canonica per la committenza provinciale della Chiesa del secondo Cinquecento, motivo per cui si ritrova Moroni impegnato all’inizio degli anni Sessanta nelle valli orobiche con il Polittico di san Bernardo a Roncola e il Polittico del Battesimo di Cristo a Ranica. In entrambi i casi i santi sono raffigurati entro delle nicchie illuminati a luce radente: un espediente che mette in risalto le cromie accese, quasi acide, delle vesti. Essi sono assunti quali veri e propri testimoni di fede, caratterizzati da una forte presenza fisica e dagli attributi che ne simboleggiano i martirii. I visi dei personaggi sacri sono sviluppati su modelli reali, veridici, lombardi; in questo modo il fedele può immedesimarsi in maniera più confidenziale nelle scene sacre, seguire con rettitudine la morale cattolica e aspirare con maggior speranza alla gloria paradisiaca.

Tiziano, Polittico Averoldi (1520-1522), pannello centrale con la Resurrezione; Brescia, San Nazaro e Celso.


Resurrezione (1561-1562); Sovere (Bergamo), San Martino.


Polittico di san Bernardo (1562 circa); Roncola (Bergamo), San Bernardo.

Un’importante conseguenza artistica dettata dal Concilio di Trento fu lo schema attraverso cui realizzare le nuove pale d’altare, secondo le rigide disposizioni teorizzate nell’ultimo quarto del Cinquecento nei testi dei cardinali Gabriele Paleotti e Carlo Borromeo. Moroni fu uno dei principali interpreti di questa tendenza, assorbendo pienamente quei concetti che lo avevano suggestionato fin dal giovanile soggiorno trentino, traducendo in pittura gli ideali della Controriforma. Il settimo decennio, periodo in cui l’artista si trasferisce definitivamente nella natìa Albino, è attraversato da una serie di pale sacre che si iscrivono a pieno titolo nel canone richiesto dalle gerarchie ecclesiastiche: opere dalla didascalica semplicità compositiva, dall’intenso naturalismo, sacre conversazioni che esprimono devozione, religiosità. Rappresentano a pieno questo periodo quadri come la Deposizione di Cristo nel sepolcro, dipinta per una chiesa monastica di Gandino (1566, oggi all’Accademia Carrara) e l’Ultima cena di Romano di Lombardia (1566-1569 circa) nella chiesa di Santa Maria Assunta e San Giacomo, commissionata dalla locale Congregazione del Santissimo sacramento.

Ultima cena (1566-1569 circa); Romano di Lombardia (Bergamo), Santi Maria Assunta e Giacomo. Nell’Ultima cena, che mette in scena il tema della Transustanziazione (tra i più controversi nel dibattito tra cattolici e protestanti) Moroni incardina la composizione in una prospettiva di tipo centrale, con il fuoco nella figura di Cristo. Come in altre sue tele sacre, la figura in piedi che guarda “in macchina” (forse il parroco dell’epoca), ha la funzione di testimone dell’evento oltre che di “ponte” gettato verso il fedele.


Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria (1567-1570 circa); Almenno San Bartolomeo (Bergamo), San Bartolomeo.

La prima opera emerge per i contrasti cromatici tra le vesti dalle tinte accese e il corpo cinereo del Cristo, oltre che per il paesaggio vibrante che fa intravedere il monte della Cornagera, una cima della Val Seriana che figura in diverse scene sacre di Moroni. L’Ultima cena rimanda invece alla pittura morettiana (si veda il lunettone di soggetto analogo nella cappella del Sacramento in San Giovanni Evangelista a Brescia), grazie ai colori fuligginosi, alle espressioni naturali e alle pose robuste nel folto consesso degli apostoli. La commissione di quest’opera si inseriva in un più complesso cantiere decorativo della cappella della congregazione, dato che contemporaneamente il pittore bresciano Francesco Richino affrescava nell’ambiente soggetti eucaristici. Moroni inscena l’episodio in una possente architettura, fissando con perizia dettagli come il soffitto a cassettoni e le modanature in un effetto plastico-spaziale che doveva risultare maggiormente accentuato dall’originale cornice architettonica dorata, andata perduta. Tra i personaggi, l’unico che fissa magneticamente l’osservatore è il coppiere raffigurato in piedi, in cui fino a pochi anni fa si è voluto intravedere l’autoritratto dell’artista.

Discende dal Moretto un’altra opera capitale del Moroni sacro, lo Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria nella parrocchiale di Almenno San Bartolomeo, databile agli ultimi anni Sessanta del Cinquecento; l’impianto scenico è rielaborato dalla celeberrima Pala Rovelli del Bonvicino (1539), con la Madonna e il Bambino soprelevati su un trono inserito in un’architettura nella parte destra della scena. Nella tela moroniana, dalla spazialità ampia e ariosa, l’architettura si dimostra più possente e “in salute” rispetto a quella diroccata del Moretto, con ogni probabilità un riferimento alla situazione precaria che la Chiesa cattolica andava vivendo in seguito all’eresia luterana e al Sacco di Roma.

Per comprendere a pieno la struttura di una pala d’altare controriformata vale la pena menzionare l’Assunzione della Vergine già nel monastero femminile di San Benedetto a Bergamo (oggi a Brera) databile attorno al 1570; desunta da una tela analoga di Moretto nel duomo vecchio di Brescia, la composizione moroniana vede ascendere la Madonna al cielo contornata da una selva di cherubini, mentre nella parte inferiore gli apostoli assumono movimentate pose oranti. Il vescovo in primo piano sulla sinistra, descritto con brani di decorazioni veridiche (l’anello, il piviale, la mitria), introduce l’osservatore, che solo attraverso il percorso di preghiera, mediato dall’intercessione dei santi, può ascendere alla beatitudine paradisiaca e, in questo caso, alla gloria della Vergine. Gli ultimi anni dell’isolamento albinese vedono l’artista fortemente impegnato nelle commissioni sacre, soprattutto in previsione della visita apostolica (1575) dell’arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Borromeo, nel territorio bergamasco.


I prelati orobici si affidarono di frequente a Moroni per decorare gli altari delle proprie chiese secondo i dettami tardo-cinquecenteschi, dandogli l’occasione di licenziare opere come il Crocefisso con i santi Bernardino e Antonio da Padova, caratterizzato da una stesura pittorica leggera, evanescente: il risultato sacro più alto degli ultimi anni del pittore. L’intensità di questa scena si avverte nel trasporto psicologico dei santi e perfino nella lirica atmosfera del paesaggio che trasfigura il sentimento religioso del sacrificio di Cristo, evidenziato dal peso visivo del perizoma giallo aranciato. Il dipinto di Albino diverrà un vero e proprio prototipo nel catalogo dell’artista; fatto facilmente verificabile se si osserva il frutto più maturo di questa corrente, il Crocefisso con i santi Crisogono, Cristoforo, Francesco e un martire nella parrocchiale di Seriate. Se in Crisogono è riscontrabile una vivacità coloristica veronesiana, Cristoforo dimostra una matrice fortemente lombarda.


Crocefisso con i santi Crisogono, Cristoforo, Francesco e un martire (1575-1578 circa); Seriate (Bergamo), Santissimo Redentore, sacrestia.


Assunzione della Vergine (1570 circa); Milano, Pinacoteca di Brera.


Crocefisso con i santi Bernardino e Antonio da Padova (1575 circa); Albino (Bergamo), San Giuliano. Vertice assoluto della produzione sacra moroniana, il “Crocefisso e Santi” di Albino si segnala per i vibranti valori luministici che permeano il paesaggio, autentico protagonista dell’immagine, su cui incombe, minaccioso, il temporale. Un recente restauro ha messo in luce le qualità tattili del colore, particolarmente impressionanti nella scia di sangue che cola lungo la croce, realizzato con lacca rossa legata a una vernice oleo-resinosa.

Il paesaggio boschivo e il villaggio urbano sono irradiati da raggi di luce divina che squarciano il cielo e lo inondano di provvidenza elegiaca; il martire, invece, invita l’osservatore a entrare nella scena e a osservare il sacrificio del Redentore, il cui perizoma acceso contrasta meravigliosamente con il corpo cinerino.


Agli stessi anni è databile il Polittico di san Giorgio a Fiorano al Serio, impresa che vede Moroni alle prese, ancora una volta, con una complessa composizione d’altare. Il pittore, che ricevette per questo incarico il compenso di quattrocento lire e una soma di frumento, recupera nei singoli pannelli diverse soluzioni della sua carriera: dalla Madonna con il Bambino morettiana che corona la macchina d’altare, passando per i santi nelle nicchie che rimandano alla fase della maturità, fino allo spazialismo e ai colori tenui della vecchiaia che culminano nell’altura forestale all’orizzonte in cui si compie la scena.


Il dipinto su cui Moroni trovò la morte (avvenuta tra il 1579 e il 1580) è il Giudizio universale per la chiesa di San Pancrazio a Gorlago, una grande tela lasciata incompiuta. La parte inferiore riprende la fascia infernale dell’affresco di Michelangelo, nella Cappella sistina (1536-1541), mentre gli angeli tubicini e la porzione superiore dei beati furono integrati successivamente dal pittore Francesco Terzi. Nel complesso, una traduzione “periferica” dell’eroismo apocalittico del capolavoro michelangiolesco.


Se la pittura di Terzi tonifica cromaticamente la scena, ovviamente è la frazione moroniana a vincere per qualità e tenuta stilistica, tanto che un famoso aneddoto tramandato nei secoli dai fedeli locali narra che a Gorlago si stia “meglio all’Inferno piuttosto che in Paradiso”.

Giovan Battista Moroni e Francesco Terzi, Giudizio universale (1577-1580); Gorlago (Bergamo), San Pancrazio.

GIOVAN BATTISTA MORONI
GIOVAN BATTISTA MORONI
Luca Brignoli, Enrico De Pascale
Giovan Battista Moroni si forma a Brescia nella bottega del Moretto e inizialmente non si discosta troppo dalla tradizione pittorica devozionale tipica della Lombardia del XVI secolo. Nella seconda metà del Cinquecento si afferma soprattutto come ritrattista della borghesia emergente della sua città, e non solo. Caratterizzano questa sua produzione la naturalezza, la semplicità, la dignità con cui colloca i suoi soggetti nel clima operoso in cui vivevano. Si tratta di personaggi non necessariamente di alto lignaggio, ma di sarti, maestri, magistrati locali. La sua pittura sobria, costruita sui contrasti di pochi colori, sui chiari e gli scuri, prepara in qualche modo il retroterra lombardo di Caravaggio.