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Giuseppe Penone a Firenze

LA CITTÀ SARÀ IDEALE
MA LE MURA STANNO MALE

Fabio Isman

Nel borgo fortificato di Acaya, in provincia di Lecce, la cinta muraria cinquecentesca, perlopiù di proprietà privata, rischia di cadere a pezzi. Ai primi crolli degli anni Settanta del secolo scorso, ne sono seguiti altri. Causa principale: la vegetazione invasiva. E come se non bastasse, alcune case sono state costruite a ridosso del perimetro. una cosa è certa: Un bene così prezioso non può essere abbandonato.

Nella penisola, vi sono numerose “città ideali”: teorizzate dai maggiori nomi del Rinascimento, e successivamente costruite con schemi regolari e geometrici; il frutto di visioni laiche e quasi mai religiose; città diversissime dalle solite. Nascono, prima, per volere dei signori e come loro residenza; poi, per difendersi dalle guerre; quindi, per ospitare i lavoratori di centri produttivi, o per essere fulcri delle bonifiche e dell’agricoltura. Ma, nel tempo, hanno perduto le loro vocazioni: non ci sono più i prìncipi e nemmeno (per fortuna) le battaglie; molte imprese sono andate in crisi e di agricoltura e bonifiche, meglio non parlare. Così, parecchi luoghi sorti come “città ideali” sono quasi dimenticati; reclamano una manutenzione cui nessuno provvede. Per citare un solo caso, a nord di Alghero, a Fertilia, progettata in epoca fascista e oggi frazione dello stesso Comune, palazzo Doria, uno dei più importanti edifici di proprietà demaniale, da decenni è murato e privo del tetto.

Soffre anche quella che, tra tanti piccoli gioielli di architettura pianificata e di grande valore storico, è forse la più esigua e la meno conosciuta. Acaya è una frazione di Vernole, nel Salento, in provincia di Lecce; circa quattrocento abitanti; ma con vicende assai curiose nel suo passato, e bellissima da vedere. Da Carlo II d’Angiò la riceve in feudo Gervasio dell’Acaya, nel 1294. Due secoli dopo – quando i turchi incutevano timore (già nel 1480, diretti a Brindisi ma dirottati dai venti, attaccano Otranto, e decapitano ottocento cristiani che non volevano convertirsi) – un discendente di Gervasio, Alfonso dell’Acaya, adegua una rocca già esistente, «aggiungendovi torri e altre opere di difesa», recita una lapide in latino, murata su un torrione. Successivamente il figlio, il barone Gian Giacomo, completa l’opera del padre fortificando il centro con mura, bastioni e fossato. Da quel momento il borgo, in origine chiamato Segine, assume il nome della famiglia. Oltre a strutture di difesa, Gian Giacomo progetta l’ampliamento e la ristrutturazione del castello prevedendo pure ambienti per viverci con comodo: una sala poligonale, con nove lati, è decorata da un elegante fregio in pietra; in un bastione a lancia, una stanza quadrata ha uno stemma del re di Spagna sulla volta; il più bello è il salone nel torrione: con un fregio ricco di festoni di frutta e cornucopie, di uccelli e puttini, chimere, figure e scudi scolpiti.

La città era prevista per trecento famiglie, circa millecinquecento persone, che non raggiungerà mai: arriverà, al massimo, a contarne cinquecentocinquanta nel 1561. Il sistema urbanistico è composto da sette strade che ne incrociano altre tre. Vie ortogonali larghe quattro metri, a diciassette di distanza tra loro. Gli isolati sono lunghi e stretti; le case non alte e senza fronzoli, simili tra loro. Tre piazze, in diagonale. La più ricercata è davanti al maniero. Quella centrale, ospita la chiesa: stranamente, per il luogo e il clima, si chiama Santa Maria della Neve; la facciata, purtroppo, è stata rifatta nel 1865, per un ampliamento. La fortezza è un parallelepipedo di oltre duecento metri per lato; il muro di cinta è interrotto dalla porta monumentale di ingresso alla città costruita nel 1535: un solo fornice e varie lapidi; in cima, ha le insegne di Carlo V, accompagnate dalla statua del patrono sant’Oronzo. Alla fine, i turchi arriveranno anche ad Acaya: ma appena nel 1714; e da allora, sarà la decadenza del luogo.

Oggi, però, i dolori cominciano dalle mura: se il castello, della Provincia, è in buono stato, oltre metà della cinta, di proprietà privata, versa in pessime condizioni. Un tempo ai fossati si addossavano le coltivazioni; ora non più: la vegetazione incolta è spesso infestante. I baluardi non racchiudono più dei giardini. Le mura sono diventate quasi invisibili. «I loro primi crolli risalgono agli anni Settanta del secolo scorso», spiega Marcello Seclì, che presiede la sezione Sud Salento di Italia Nostra. «Di recente, se ne sono verificati di abbastanza ingenti», rincalza l’architetto Antonio Costantini, storico esponente dell’associazione nella zona. Insomma, i baluardi sono malmessi. «Perfino delle costruzioni abitate insistono a ridosso delle mura; in passato, si è riusciti a bloccarne un paio che stavano per essere edificate. Perché Acaya è un complesso unitario, non soltanto il castello, restaurato da metà degli anni Novanta fino al 2007».


La porta Sant’Oronzo (1535) e il castello della città, fatto costruire da Alfonso dell’Acaya a partire dalla fine del XV secolo su una rocca preesistente, ampliato e ristrutturato dal figlio Gian Giacomo nella prima metà del XVI secolo.


«Almeno si dovrebbe imporre ai proprietari di sistemare il verde», afferma un esponente di Italia Nostra

Le foto delle brecce recenti sono alquanto impressionanti: «Rischiamo davvero che, a pezzi e bocconi, venga tutto giù. Almeno si dovrebbe imporre ai proprietari di badare alla manutenzione, di sistemare il verde, finché si è in tempo per non perdere un bene prezioso», conclude l’architetto. Durante alcuni scavi, all’interno del castello, sono emersi i resti di una chiesa bizantina; intatto come per miracolo, salta fuori anche un affresco del Trecento, forse provenzale, una Dormitio Virginis.

Ma Acaya è colpita anche da un altro dolore, assai più remoto, e irrimediabile. Gian Giacomo, oltreché barone, era un noto architetto militare (aveva lavorato anche per Carlo V). A lui si devono, tra l’altro, il completamento di castel Sant’Elmo a Napoli, la fortificazione di Lecce e altre opere belliche. Bene: proprio a Lecce, l’architetto è imprigionato per i debiti, così pare, accumulati da un amico di cui si era fatto mallevadore. Nel 1570, il commissario reale reclama quattromilaottocento ducati e gli confisca ogni cosa: il maniero di Acaya, la cittadella tutta e le suppellettili; perfino venticinque botti di vino e centocinquanta pecore. E il povero barone terminerà i propri giorni, terribile contrappasso, proprio nel carcere della fortezza leccese da lui stesso edificata, per aver garantito i debiti altrui, non saldati.

Almeno in ricordo del suo nome, per favore, si provveda alla salvaguardia delle mura di Acaya, un gioiello di “città ideale”, pensata, progettata, costruita, abitata.

ART E DOSSIER N. 390
ART E DOSSIER N. 390
SETTEMBRE 2021
In questo numero: SPERIMENTAZIONI: Gli smontaggi fotografici di Nino Migliori. NOVECENTO ITALIANO: Artiste e compagni. CONTRADDIZIONI MUSEALI: Humboldt Forum a Berlino. IN MOSTRA: Hirst a Roma; Impressionisti a Gallarate; Tempo barocco a Roma; Fede Galizia a Trento; Moroni ad Albino.Direttore: Claudio Pescio