morte bella
parea nel suo bel viso

così, a un racconto drammatico e didascalico della passione di Nostro Signore (come quello di Taddeo Gaddi in Santa Croce o come il Compianto di Niccolò dell’Arca a Santa Maria della Vita, che il giovane Buonarroti aveva potuto studiare a Bologna nel 1495), Michelangelo sostituì un’epifania marmorea irraggiante un’aura di trascendenza, anche in un passaggio narrativo di cocente disperazione. Spinto da un committente molto determinato, il Buonarroti fece fare un salto concettuale a un repertorio d’immagini onuste nella tradizione ma ormai indebolite dal confronto inclemente con l’antichità. L’artista era capace di soppiantare l’estetismo più paganeggiante e più laico con l’intellezione della rivelazione cristiana (“Considerazion degnissima di qualunque teologo, meravigliosa forse in altri, in lui non già, il quale Iddio e la natura ha formato non solamente ad oprar unico di mano, ma degno subietto ancora di qualunque divinissimo concetto”155). In altre parole, egli seppe riportare quelle fantasie metafisiche su un piano materiale e ordinario, di modo che il mistero teologico potesse riscattare il dramma umano. A Michelangelo interessava definire i termini piacevoli di un nuovo connubio tra concetti teologici e immagini belle. Fattori elementari di una nuova espressione umanistica, nella quale il dato emotivo e la cultura cristiana potevano superare il lirismo e la bellezza idolatrica delle forme classiche (letterarie o visive). Per questo Michelangelo lavorò per opposti: il “divino” e l’“umano”156 sottolineati a Ascanio Condivi nella famosa intervista del 1550 (la divinità di Gesù sottoposta “a tutto quel che un ordinario omo soggiace, eccetto che al peccato nella debolezza della carne”157), la morte e il sonno, il sacrificio e la resurrezione, la verginità e la maternità. Così lo scultore innalzava la prevedibile commozione dei cristiani, contriti per la passione e morte di Gesù, e offriva loro un’esperienza estetica che li conducesse all’interiorizzazione dei dogmi dell’Incarnazione, della verginità di Maria e persino della Resurrezione. Queste sono appunto le frasi del Condivi, principalmente focalizzate sulla bellezza della Vergine: “Se ne sta a sedere in sul sasso dove fu fitta la croce, col figliuol morto in grembo; di tanta e così rara bellezza, che nessun la vede che dentro a pietà non si commuova”.158

Abbiamo così capito che il giovane artista non solo dava vita al marmo, ma rappresentava una perfezione fisica superiore alla natura, come ebbe a intendere Giorgio Vasari nelle parole ricordate poche righe sopra. Il lavoro dello scultore devoto si innalzava grazie al tema sacro, anzi il più sacro dei temi: l’incarnazione del divino e la sua epifania artistica nel contesto di una Roma dominata da artisti sin troppo affascinati dalle forme piacevoli dell’arte pagana. Teatro che il Buonarroti scompaginò grazie a un talento particolare e cristiano. Così ancora ci spiega il Vasari: “A Roma acquistò tanto nello studio dell’arte, ch’era cosa incredibile vedere i pensieri alti, e la maniera difficile con facilissima facilità da lui esercitata, tanto con ispavento di quelli che non erano usi a vedere cose tali, quanto degli usi alle buone, perché le cose, che si vedevano fatte, parevano nulla al paragone delle sue; le quali cose destarono al cardinale di San Dionigi [...] desiderio di lasciar per mezzo di sì raro artefice qualche degna memoria di sé in così famosa città, e gli fe’ fare una Pietà di marmo tutta tonda [...] Poté l’amor di Michelagnolo, e la fatica insieme in quest’opera tanto, che quivi (quello che in altra opera più non fece) lasciò il suo nome scritto attraverso in una cintola che il petto della Nostra Donna soccigne”.159 

Forse poteva pure disturbarlo il freddo empirismo degli artisti appassionati di ricerche anatomiche (quali Leonardo), o quello amaro di molti pittori italiani e nordici, con la loro costante necessità di rapportarsi o immedesimarsi nella materiale sofferenza di Gesù, di sentire sulla propria carne le ferite del loro Dio (cosa che appare per esempio nella Pietà di Ercole de’ Roberti del 1495 circa, e nella cinquecentesca Crocefissione di Isenheim di Matthias Grünewald, dove le ferite sembrano veri tagli impressi alla tavola dipinta). Il transfert invece per Michelangelo avvenne su base filosofica, sentimentale, amorosa. Come abbiamo più volte ribadito, fu l’amore per Cristo il principale stimolo a una rappresentazione più alata e coinvolgente dal punto di vista ideale e personale, anche quando il Buonarroti non evitò lo studio dettagliato della macchina umana. Non a caso Marsilio Ficino aveva detto “quello adunque che ci rimena in Cielo, non è la Cognizione di Dio; ma è lo Amore”.160 

 
L’idea di una morte che non riesca a intaccare la bellezza fisica è pure di origine poetica, e ci riporta a uno degli autori più citati da Michelangelo nelle sue rime, quel Francesco Petrarca che nel Trionfo della Morte scrive dell’amata Laura che “parea posar come persona stanca: / quasi un dolce dormir ne’ suoi begli occhi / sendo lo spirto già da lei diviso, / era quel che morir chiaman gli sciocchi: / morte bella parea nel suo bel viso”.161 Restiamo ancora sul nobile volto di Gesù nella Pietà. Le labbra appena socchiuse del Messia catturano l’attimo in cui Gesù ha esalato l’ultimo respiro - il passaggio dello spiritus, come direbbe il Petrarca. Per questo la raffigurazione brutale del supplizio e della morte sulla croce di rabbi Jeoshua sono lasciate indietro. Michelangelo fece in modo che sul volto e sul corpo del suo Cristo (il costato trafitto, le mani e i piedi forati dai chiodi) le tracce della tortura fossero lavate via, e al posto del sangue rilucesse la forza della nuda grazia. Più ancora, che la morte si soffermasse solo un attimo e subito si ritirasse, vinta dalla sacralità di quella carne. 

 
Per raffigurare la dolce e insieme terribile sospensione tra vita e morte, tra sofferenza e resurrezione, il committente avrà fatto proprie le parole di Tommaso d’Aquino: “La morte di Cristo fu conforme alla nostra morte quanto a ciò che è proprio della morte, e cioè che l’anima venga separata dal corpo; ma da un altro punto di vista la morte di Cristo fu differente dalla nostra. Noi infatti moriamo come soggetti alla morte o per la necessità della natura, o a motivo di qualche violenza che ci viene inferta. Cristo invece morì non per necessità, ma per la sua potestà e di propria volontà: per cui egli stesso diceva (Giovanni X, 18): ‘Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla’”.162 

Se si guardasse il gruppo da sopra, come ha fatto l’artista durante il suo meticoloso lavoro, la figura inerte e serena di Gesù sembrerebbe persino levitare, cosa che Gian Lorenzo Bernini pare aver colto ed emulato per la seicentesca scultura di Beata Lodovica Albertoni in San Francesco a Ripa di Roma.163 Ma un altro è il punto di vista per il quale si doveva afferrare interamente il senso della Pietà. In una visione da destra, che tenga assieme in un colpo d’occhio i due personaggi e i loro gesti, la mano di Maria non solo offre quel corpo già eucaristico ma rilascia la presa materna, affidando il Figlio alla volontà del Padre. Il dramma è nel passato e la sofferenza di Maria, allusa soprattutto nei rivoli di stoffa sul seno materno, contiene un futuro di speranza. La madre preveggente sa che il corpo di Gesù procede verso la resurrezione, la morte violenta è proiettata verso l’offerta eucaristica. 

 
A questo proposito va citato un paragone, che pone la Pietà in antitesi con il Compianto sul Cristo morto di Bertoldo (oggi al Museo del Bargello). Si tratta di un piccolo rilievo in bronzo (del 1470 circa, forse appartenente alle antiche raccolte dei Medici), dove il maestro di Michelangelo descrive con attenzione teatrale tutti i personaggi del dramma sacro. Al centro campeggiano le due moli assommate della Madonna e di Gesù, incorniciate da tre donne che sorreggono la testa, la mano sinistra e i piedi del morto. Quelle mani, quei gesti disperatamente amorevoli trattengono nel nostro mondo d’affetti infranti il corpo del Messia. Si tratta ovviamente del momento precedente al seppellimento, allorquando la Madre, sconvolta dal dolore, perderà ogni contatto terreno con il Figlio. Il tuffo al cuore di questa sofferenza e dello strappo successivo entrano nella raffigurazione di Bertoldo, e si potrebbe azzardare che il suo ex allievo comprendesse tutto ciò ma decidesse poi di ridurre quella coreografia tragica. Così egli ha come isolato il gruppo della Madonna e del Redentore cogliendo dal bronzo il dato figurativo della posa del Cristo, allungato sul piano delle ginocchia della madre. Si noti come in entrambe le opere Maria si pieghi in avanti verso il cadavere, il cui triste stato è rimarcato dal braccio destro esausto e abbandonato in basso: soluzione, come abbiamo capito, derivata dai sarcofagi antichi raffiguranti la morte di Meleagro o il sonno di Endimione. 

 
Michelangelo certifica fino all’ultimo dettaglio epidermico la presenza fisica del Messia insieme alla santità di quel corpo. Il cadavere del crocifisso non risulta abbrutito perché qui, come direbbe San Tommaso, viene scolpito un corpo “ottimamente ordinato per l’onnipotente virtù dello Spirito Santo”.164 Infatti nella Pietà la morte di Gesù appare simile al sonno di un innocente. È soltanto un passaggio verso il risveglio, verso la gloria della resurrezione. Per il committente e per l’artista il Cristo è un essere solo temporaneamente passato dalla vita alla morte, come anticipato nei salmi di Davide: “io mi corico e mi addormento, mi sveglio perché il Signore mi sostiene!”.165 

 
Dunque il Buonarroti aveva a disposizione tutta una serie di modelli visivi, poetici, letterari da utilizzare come scale per salire le vette teologiche davanti alle quali lo poneva Jean Bilhères. Poi, al fine di soddisfare la propria ambizione d’artista e quella del committente, che voleva la più bella statua di Roma per lasciare un segno memorabile della propria esistenza terrena nel tempio dei successori di Pietro, Michelangelo volle superare un tipo di raffigurazione eccessivamente espressionistica, perseguendo invece il richiamo della statuaria antica in marmo con le sue più sontuose creazioni. La freddezza dei marmi antichi veniva però superata dal significato religioso e da una collocazione che prevedeva il contatto visivo e fisico tra adoranti e opera d’arte.

MICHELANGELO. LA PIETÀ VATICANA
MICHELANGELO. LA PIETÀ VATICANA
Sergio Risaliti - Francesco Vossilla