se dovessi indicare con una sola espressione la specificità del contributo fiorentino all’arte italiana degli anni Trenta, non avrei dubbi nello scegliere: Firenze, città delle riviste. Perché i raggiungimenti degli artisti fiorentini di tutta la prima metà del Novecento - e gli anni Trenta non fanno eccezione - possono intendersi a pieno solo se immersi nell’intreccio di temi e di pensieri che le diverse riviste culturali - fin dall’inizio del secolo, con “Leonardo”, “La Voce”, “Lacerba”, fra le più importanti e propulsive d’Italia - hanno dibattuto, come veri e propri laboratori aperti ai vari punti di vista - letterario, poetico, artistico, musicale, sociale e politico - delineando risposte e prese di posizione che, compatibilmente all’emergere delle varie individualità, si sono poi tradotte nel tono, nello speciale accento di una tendenza, e infine, nella irripetibile particolarità di un’opera. Così a Firenze, la contemporanea presenza di “Solaria” (1926-1934), “Il Selvaggio” (1924-1943), “Il Frontespizio” (1929-1940), e poi di “Letteratura” (1937-1947) e “Campo di Marte” (1938-1939), è valsa più di raggruppamenti specificatamente artistici - certo più del troppo eterogeneo Novecento Toscano, pur guidato da un uomo potente e illuminato come Antonio Maraini, segretario nazionale della Biennale di Venezia dal 1927 - a coagulare prese di posizione poetica precise, e veri e propri schieramenti contrapposti, come quelli esemplificati nella piccola geografia della città, dai frequentatori del caffè delle Giubbe rosse e del Paskowski su sponde opposte della medesima piazza. Fra i temi dibattutti su “Solaria” c’erano la ricerca di una nuova essenzialità di linguaggio - poetico e artistico - aperto alla dimensione europea e intriso di valori umani, vi si parlava di rinnovamento musicale
168 - con Bastianelli, Liuzzi, Castelnuovo Tedesco -, di modernità, nei suoi aspetti più sentiti, come quello del cinema: su questi argomenti, Carocci e Loria, Montale e Vittorini, e per loro tramite Svevo, Saba, Comisso, fino alle voci di Valéry, Rilke, Proust, Joyce, che apparivano nelle recensioni, apriranno un singolare dialogo fatto di pensieri, con le immaginazioni contemporanee di Andreotti, Colacicchi, Magnelli, Peyron, Marini, Bacci, Bramanti, molti dei quali non a caso illustreranno nel 1932 l’edizione Vallecchi di quella Casa dei doganieri che aveva ricevuto il premio come miglior poesia da una giuria composta da artisti e musicisti. Con le sue ideali ramificazioni, da un lato nel clima dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, dove fino al 1933 insegnerà Andreotti, dall’altro nel festival del Maggio Musicale, la kermesse di livello europeo inaugurata nel 1933, che vide la collaborazione di musicisti e artisti contemporanei, a questa atmosfera di apertura si contrapponeva, su un diverso versante, quella orgogliosamente tradizionalista, populista e strapaesana del “Selvaggio”, di deciso appoggio al fascismo laddove “Solaria” civilmente disapprovava opponendo un silenzio perplesso. La centralità della grafica come moderno mezzo espressivo, che unisce in un mazzo i nomi del Gruppo del Selvaggio, composto fra altri da Rosai, Soffici, Carrà, Lega, Maccari, Morandi, nasce da qui, e si nutre delle prose “reazionarie” di Soffici e Malaparte, come della satira feroce di Maccari, ma anche dello sguardo ai Primitivi toscani, e della rivalutazione fra lirica e nazionalistica dell’arte etrusca, così diversa, nella sua mancanza di canoni, da quella classica: temi questi che, saldati ad una intransigenza morale di radice cattolica, diventeranno le colonne portanti della poetica del “Frontespizio”. E mentre “Letteratura”, sede di un raffinato ermetismo, svolgimento estremo, sempre più intimista e cifrato, della ricerca solariana, svilupperà un ventaglio vario di esperienze - dalle favole neometafisiche di Landolfi alla pittura preziosa di Martinelli, dai versi di Luzi, alla gioventù umbratile di Capocchini, di Gallo, o di Quinto Martini, già in odore, come le prose di Pratolini su “Campo di Marte”, di neorealismo - sul “Frontespizio” di Bargellini e Papini, artisti come Rosai, Viani, Manzù, daranno forma epica a un’umanità dolorosa, vulnerabile, torpida. Contrappunto alla retorica sempre più dichiarata del regime, già nel 1935, Viani accompagnava Le chiavi nel pozzo, il diario dei dieci mesi trascorsi nel manicomio di Nozzano, a contatto dei “trascurati”, con un’epigrafe-monito ai cosiddetti savi, che acquista un tono profetico dal valore dolorosamente universale: «Se la pazzia fosse un dolore, in ogni casa s’udrebbe un urlo».