firenze

se dovessi indicare con una sola espressione la specificità del contributo fiorentino all’arte italiana degli anni Trenta, non avrei dubbi nello scegliere: Firenze, città delle riviste. Perché i raggiungimenti degli artisti fiorentini di tutta la prima metà del Novecento - e gli anni Trenta non fanno eccezione - possono intendersi a pieno solo se immersi nell’intreccio di temi e di pensieri che le diverse riviste culturali - fin dall’inizio del secolo, con “Leonardo”, “La Voce”, “Lacerba”, fra le più importanti e propulsive d’Italia - hanno dibattuto, come veri e propri laboratori aperti ai vari punti di vista - letterario, poetico, artistico, musicale, sociale e politico - delineando risposte e prese di posizione che, compatibilmente all’emergere delle varie individualità, si sono poi tradotte nel tono, nello speciale accento di una tendenza, e infine, nella irripetibile particolarità di un’opera. Così a Firenze, la contemporanea presenza di “Solaria” (1926-1934), “Il Selvaggio” (1924-1943), “Il Frontespizio” (1929-1940), e poi di “Letteratura” (1937-1947) e “Campo di Marte” (1938-1939), è valsa più di raggruppamenti specificatamente artistici - certo più del troppo eterogeneo Novecento Toscano, pur guidato da un uomo potente e illuminato come Antonio Maraini, segretario nazionale della Biennale di Venezia dal 1927 - a coagulare prese di posizione poetica precise, e veri e propri schieramenti contrapposti, come quelli esemplificati nella piccola geografia della città, dai frequentatori del caffè delle Giubbe rosse e del Paskowski su sponde opposte della medesima piazza. Fra i temi dibattutti su “Solaria” c’erano la ricerca di una nuova essenzialità di linguaggio - poetico e artistico - aperto alla dimensione europea e intriso di valori umani, vi si parlava di rinnovamento musicale 

168 - con Bastianelli, Liuzzi, Castelnuovo Tedesco -, di modernità, nei suoi aspetti più sentiti, come quello del cinema: su questi argomenti, Carocci e Loria, Montale e Vittorini, e per loro tramite Svevo, Saba, Comisso, fino alle voci di Valéry, Rilke, Proust, Joyce, che apparivano nelle recensioni, apriranno un singolare dialogo fatto di pensieri, con le immaginazioni contemporanee di Andreotti, Colacicchi, Magnelli, Peyron, Marini, Bacci, Bramanti, molti dei quali non a caso illustreranno nel 1932 l’edizione Vallecchi di quella Casa dei doganieri che aveva ricevuto il premio come miglior poesia da una giuria composta da artisti e musicisti. Con le sue ideali ramificazioni, da un lato nel clima dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, dove fino al 1933 insegnerà Andreotti, dall’altro nel festival del Maggio Musicale, la kermesse di livello europeo inaugurata nel 1933, che vide la collaborazione di musicisti e artisti contemporanei, a questa atmosfera di apertura si contrapponeva, su un diverso versante, quella orgogliosamente tradizionalista, populista e strapaesana del “Selvaggio”, di deciso appoggio al fascismo laddove “Solaria” civilmente disapprovava opponendo un silenzio perplesso. La centralità della grafica come moderno mezzo espressivo, che unisce in un mazzo i nomi del Gruppo del Selvaggio, composto fra altri da Rosai, Soffici, Carrà, Lega, Maccari, Morandi, nasce da qui, e si nutre delle prose “reazionarie” di Soffici e Malaparte, come della satira feroce di Maccari, ma anche dello sguardo ai Primitivi toscani, e della rivalutazione fra lirica e nazionalistica dell’arte etrusca, così diversa, nella sua mancanza di canoni, da quella classica: temi questi che, saldati ad una intransigenza morale di radice cattolica, diventeranno le colonne portanti della poetica del “Frontespizio”. E mentre “Letteratura”, sede di un raffinato ermetismo, svolgimento estremo, sempre più intimista e cifrato, della ricerca solariana, svilupperà un ventaglio vario di esperienze - dalle favole neometafisiche di Landolfi alla pittura preziosa di Martinelli, dai versi di Luzi, alla gioventù umbratile di Capocchini, di Gallo, o di Quinto Martini, già in odore, come le prose di Pratolini su “Campo di Marte”, di neorealismo - sul “Frontespizio” di Bargellini e Papini, artisti come Rosai, Viani, Manzù, daranno forma epica a un’umanità dolorosa, vulnerabile, torpida. Contrappunto alla retorica sempre più dichiarata del regime, già nel 1935, Viani accompagnava Le chiavi nel pozzo, il diario dei dieci mesi trascorsi nel manicomio di Nozzano, a contatto dei “trascurati”, con un’epigrafe-monito ai cosiddetti savi, che acquista un tono profetico dal valore dolorosamente universale: «Se la pazzia fosse un dolore, in ogni casa s’udrebbe un urlo». 


Nel luglio del 1930 Andreotti fu invitato da Marcello Piacentini a realizzare un gruppo scultoreo da porsi all’interno di un singolare edificio a mausoleo che egli stava edificando ad Acqui Terme per i coniugi Ottolenghi; il tema del contrasto fra spirito e forza bruta, suggerito dallo stesso architetto, avrebbe dovuto essere espresso con la lotta fra un uomo e un leone, e siglato dall’impiego di un materiale prezioso come basalto, porfido o granito. A quella data, conclusa ormai da tempo la giovanile stagione parigina aperta all’assunzione di stilismi internazionali, Andreotti stava vivendo l’ultima e più grande fase della sua scelta, compiuta a partire dai primi anni Venti, di una forma spoglia di arcaismi, sostenuta, come avrebbe riconosciuto Luigi Pirandello, dall’aderenza fra materia e spirito attraverso «una linea ampia e tormentosa» (Casazza 1992, p. 230), e legata all’impegno sempre più intenso nel campo della scultura di destinazione pubblica. Che attraverso i Monumenti ai Caduti di Roncade (1922) e di Saronno (1924), la Cappella votiva alla Madre Italiana in Santa Croce a Firenze (1926), infine il Monumento ai Caduti di Bolzano (1928), per il quale aveva realizzato un’immota, «raggiante» figura di Cristo risorto (Del Bravo 1981, p. 36), era valsa a conquistargli grande notorietà in campo nazionale. Proprio per questo, quasi a marcare il proprio polemico distacco nei confronti degli equivoci insiti nel monumentalismo, dai quali non si sentiva affatto immune, e che riconosceva in agguato nelle parole di Piacentini, deciderà di rispondere a suo modo alla commissione ricevuta: «Sto facendo un Orfeo appoggiato ad un albero, che canta - scrive ad Aldo Carpi, cognato e amico - [...]. Piacentini mi aveva, ahimè, chiesto lo spirito che vince la materia! Eccolo servito. Il modello è bellissimo» (Casazza 1992, p. 230). Il tema di Orfeo come simbolo di spirituale fratellanza nel nome della musica, rimanda al sogno andreottiano di aprire un dialogo fra le varie arti; questione che avrebbe trovato viva rispondenza nelle voci della rivista “Solaria”, spingendo l’artista a istituire nel 1931 il Premio di Poesia “Antico Fattore”, assegnato da una giuria di soli artisti, nei tre anni della sua esistenza, a Montale, Quasimodo, Natoli. L’Orfeo, esposto nella sala personale (ordinata da Ojetti), che la Biennale del 1934 dedicherà allo scultore, a un anno dalla morte improvvisa, è pubblicato in quell’occasione con la data 1931; verrà acquistato dalla Galleria d’Arte Moderna di Genova al termine di una lunga trattativa. 
Susanna Ragionieri

Bibliografia
Biennale 1934, p. 165, n. 15; Casazza 1992, pp. 228230, fig. 47; Giubilei 1995, pp. 43-44; Pizzorusso-Lucchesi 1997, p. 108, fig. 114; Giubilei 2004a, I, pp. 286-287, II, p. 353. 


7.01 LIBERO ANDREOTTI (PESCIA 1875-FIRENZE 1933) Orfeo che canta 
1931 bronzo; cm 116 x 42 x 46 siglato sulla parte anteriore della base «L.A.» Genova, Galleria d’Arte Moderna, inv. GAM 763 

Concepita sull’esempio francese della riunione di amici nello studio dell’artista, alla Fantin Latour, l’opera restituisce attraverso il fascino sottile di un grande ritratto corale, il clima di feconda contaminazione artistica e culturale instauratosi nella Firenze dei tardi anni Venti. In particolare, come è qui suggerito, nell’ambiente gravitante intorno alla rivista “Solaria”, al quale molti degli otto personaggi rappresentati appaiono variamente legati per vicinanza o collaborazioni. Giunto all’arte dal mondo delle corse automobilistiche, autodidatta dal temperamento sensibile e intuitivo, Peyron si afferma presto in ambito italiano - Gli amici dell’atelier è esposto alla Biennale del 1928 - per una pittura «sprezzante di virtuosità», «insofferente di rifiniture», e attenta invece a cogliere «il carattere fisico-morale dei suoi soggetti» (Marangoni 1933, p. 4). Qualità che lo portano a creare atmosfere di modernità schiva e concentrata, e lo rendono adatto a rappresentare situazioni come questa, in cui il vero protagonista della riunione, come è indicato non solo dalla presenza del violoncello di Odoardo Zappulli van Oldenbarnevelt, ma soprattutto dall’intenso profi lo centrale di un giovane Luigi Dallapiccola intento a seguire la partitura, appare essere la musica. Una musica che, con il suo nudo, moderno incanto, spogliato dagli orpelli del melodramma, come suggerisce la voce strumentale, contemporaneamente proposta anche in una prosa apparsa su “Solaria” (Gadda 1926), vale a raccordare, isolandole insieme, ciascuna assorta nei propri pensieri, le altre presenze; dallo scrittore Arturo Loria, che il balenìo sugli occhiali indica come improvvisamente catturato dal suono, al conte Walfredo della Gherardesca, più calmo e assorto nell’ascolto, fino ai quattro pittori sul fondo: nell’ordine, Vieri Freccia, Felice Carena sulla porta, Peyron stesso, e Gianni Vagnetti. La ghirlanda di fi gure maschili si chiude in basso con la macchia pallida del cagnolino - forse quello di Mariuccia Carena -, deliziosa invenzione tonale e insieme allusione al valore panico, universale del linguaggio musicale. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia
Nebbia 1928, p. 28, fig. p. 68; Biennale 1928, p. 68, n. 22; Le collezioni del Novecento 1986, p. 60, n. 47; I fantasmi di Guido Peyron 2003, pp. 32-38.


7.02 GUIDO PEYRON (FIRENZE 1898-1960)
Gli amici nell’atelier
1928
olio su tavola; cm 157 x 126
fi rmato in basso a sinistra «GUIDO PEYRON»
Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, inv. Giornale 2831

Nella straordinaria galleria di ritratti di intellettuali compiuta da Peyron fra lo scorcio degli anni Venti e i primi anni Trenta, quello del poeta Eugenio Montale occupa un posto d’eccezione, come indicano lo schizzo preparatorio a penna del 1930 (Marcenaro 1996, p. 154, n. II.57) e la scelta di inserire il personaggio in un ampio paesaggio marino, che può intendersi nella doppia veste di fonte d’ispirazione o di emanazione visiva sprigionata dai versi stessi di Ossi di seppia. Come osserva Sebastiano Timpanaro, lo scienziato appassionato di pittura al quale l’artista avrebbe dedicato nel 1934 un altro memorabile ritratto, «Peyron non è e non sarà mai un ritrattista ufficiale. Egli non lavora su ordinazione ma per amore, sicché non può occuparsi di un soggetto che gli sia indifferente. E quando scopre il suo soggetto, cerca unicamente di metterne in evidenza il motivo eterno di poesia. [...] Indifferente alle caratteristiche esteriori del soggetto, s’interessa a ciò che il soggetto stesso vorrebbe essere nei momenti di grazia. [...] I personaggi di Peyron non parlano, non sorridono, non sospirano: stanno immobili e taciti come l’artista quando è solo» (Timpanaro 1943, p. 14). Anche nel ritratto di Montale questa concentrazione appare tesa al massimo grado, tanto che nel passaggio dal disegno all’olio, Peyron sceglierà di eliminare l’elemento aneddotico di una piccola vela sul mare, mentre nella luce diffusa e senz’ombre - la luce della poesia - risaltano gli oggetti-simbolo del linguaggio montaliano: l’agave, l’osso di seppia, la distesa luminosa e desolata del mare. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Biennale 1932, p. 113, n. 17; Timpanaro 1943, n. 7; I fantasmi di Guido Peyron 2003, p. 43. 


7.03 GUIDO PEYRON (FIRENZE 1898-1960) Ritratto del poeta Montale 
1932 olio su tela; cm 100,5 x 81,5 firmato in basso a destra «G. Peyron» Grassina, Pier Francesco Vallecchi 

Nel 1935, spinto da una grave inquietudine sentimentale, Colacicchi decide di lasciare Firenze; la sua mèta non è Parigi, ma un luogo il più possibile lontano e ignoto dove poter «naufragare» in solitudine, come un personaggio di Conrad o gli «étonnants voyageurs» di Baudelaire, «qui partent pour partir». Così sceglie il Sud Africa, dove arriva dopo alcuni mesi di navigazione sulla motonave «Duilio», che ha come destinazione Città del Capo. Qui prende alloggio ai margini della città, in una casa vicina al faro, la cui mole imponente, in silenzioso rapporto con lo spazio sconfinato dell’orizzonte marino, esercita subito su di lui una forte attrazione. L’immagine nasce dunque immediata, e con naturalezza, senza rumore, si fa subito «mondo». Con questa espressione, nel 1931, Vittorini aveva indicato il dono inatteso de La casa dei doganieri, declamata «con voce di nostromo», dallo stesso Colacicchi, al pubblico di artisti radunati all’Antico Fattore: «il primo verso si frantumò nella risacca, riecheggiando sotto arcate di applausi. Ma subito ci sentimmo intorno una sala deserta; con tutta quella gente in piedi, assorta come in un tempio. Delle immagini passarono, musicalmente e lentissime. Libeccio sferza da anni le vecchie mura; la bussola va impazzita all’avventura; oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera! Ci ricordiamo dell’infanzia, di qualcosa perduto per sempre nella nostra vita, e ritrovato per incanto in quella poesia» (Vittorini 1931, p. 2). Il faro di Monille Point fu spedito per nave alla Biennale del 1936; qualche anno dopo, nella sua monografia su Colacicchi, il critico e poeta Raffaello Franchi, avrebbe usato per descrivere quest’opera - «dalla torretta di un faro, una lama esilissima di luce sembra sgraffiare appena il cielo...» - un linguaggio consapevolmente montaliano. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Biennale 1936, p. 148, n. 14; Franchi 1941, p. 30; Ragionieri 1986, pp. 42-43, tav. X. 


7.04 GIOVANNI COLACICCHI (ANAGNI 1900-FIRENZE 1992) Il faro di Monille Point (Crepuscolo australe) 1935 olio su tela; cm 85 x 120 firmato a destra in basso «Colacicchi» Firenze, collezione privata   

«Dopo la guerra si è potuto finalmente viaggiare [...]. Poiché avevo dei mezzi, ho viaggiato molto. Al ritorno, per non so quale necessità, mi è venuta una visione. Ho dipinto dei personaggi inventati, delle forme architettoniche, per riempire la tela secondo certi ritmi. Non fu un principio di fare delle figure. C’era soprattutto una concezione architettonica da mantenere. Con i Velieri fu la fine di questa sorta di figurazione. Ma anche i Velieri sono inventati, dipinti secondo immaginazione. Anche lì, resto molto legato alla forma. Tutto il resto è aneddoto». Così Magnelli, in una intervista del 1968 (Alberto Magnelli 2006, p. 297), ricorda gli anni seguiti a quelle Esplosioni liriche, in cui tutti i fuochi delle avanguardie accesi a Parigi accanto ad Apollinaire e a Picasso, ai futuristi e a de Chirico, sembrarono ardere vorticosamente, lasciando il terreno sgombro per una geometria silenziosa e rarefatta, rintracciata nell’assetto naturale del paesaggio toscano, fra la piana di Rosia e la Versilia. Da allora, e fino all’aprirsi della stagione delle pierres, i due poli della «memoria di un tempo perduto da ritrovare», e della tensione progettuale verso «una rinnovata scienza della coscienza», intrisa di nostalgia del futuro (Magnelli in Toscana 1983, p. 9), cercheranno una via per saldarsi nell’essenzialità dei paesaggi, dove i colori splendono puri, come rifratti dagli spigoli vivi di una gemma, o nella presenza a un tempo perentoria e immota dei velieri, protagonisti della lunga serie che attraversa il 1928 e il 1929. Ne scrive Murilo Mendes: «Lo spazio interiore che impressionò tanto un aviatore come Saint-Exupéry forse si trova all’origine di questo linguaggio austero per mezzo del quale un uomo che non si inserisce nel mondo vuole tradurlo e comunicare plasticamente con esso» (Alberto Magnelli 1963, p. 3). Anche Magnelli, frequentatore della rivista “Solaria”, illustrerà con un disegno - una figura statuaria di donna in contemplazione - La casa dei doganieri e altri versi premiata all’Antico Fattore nel 1931.
 
Susanna Ragionieri 
Bibliografia Maisonnier 1975, p. 99, n. 349; Ragionieri 2001, pp. 164, 171, 174; Alberto Magnelli 2006, p. 297.

7.05 ALBERTO MAGNELLI
(FIRENZE 1888-MEUDON 1971)
Le Grand voilier (Le Voilier noir)
1928
olio su tela; cm 57 x 75
firmato in basso a destra «Magnelli»
Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, inv. Giornale 2486

Nel 1930, alla IV Mostra Regionale d’Arte Toscana, Ram presenta un gruppo di opere - dipinti, disegni, e una scultura - nelle quali si annuncia una vera e propria svolta della propria ricerca pittorica, caratterizzata per il decennio a venire, da una «particolare e personale esperienza “neometafisica”» (Ruggero Alfredo Michahelles 1997, p. 13). Proveniente da una agiata famiglia cosmopolita impiantata a Firenze dalla metà dell’Ottocento - il bisnonno materno era il famoso scultore americano Hiram Powers -, come il fratello maggiore Ernesto - in arte Thayaht - e la sorella minore Cristina, scultrice, Ram era cresciuto in un ambiente aggiornato e indipendente, da attento e intelligente autodidatta. Di casa a Parigi - dove il fratello aveva lavorato per Madeleine Vionnet - fino dai primi anni Venti, aveva frequentato gli atelier di Maurice Denis, di Otton Friesz, di Jacovleff, e conosciuto gli Italiens de Paris; soprattutto de Chirico, suo ospite frequente anche a Firenze. Dal 1930, nelle opere di Ram, si avvia dunque una sorta di «decantazione» visiva, che, sottraendo ogni residuo aneddotico, investe la struttura compositiva delle immagini e la fisicità stessa delle figure, mentre il colore si accende di una luce interna e pura, come accade nelle opere coeve di Magnelli, in questo periodo molto vicino a Ram. L’Ile de Cythère, esposta a Parigi nella personale alla galleria “Le Niveau” nel novembre del 1936, dimostra lo stato di grazia raggiunto in questa nuova stagione. De Chirico stesso la presenterà con un breve testo, inteso a riassumere le tappe poetiche dell’illuminazione metafisica: se essa può toccare la vita di ognuno, nella reazione particolare che le impressioni del mondo esterno, «dans certaines circonstances», provocano nell’individuo, è l’artista che possiede la chiave per materializzare questo mondo intimo. E nelle opere di Ram, attraverso «un jeu de couleurs et de formes architecturales, du rythme dans l’espace», dove anche «les sujects inanimés ont une vie à eux et deviennent des personnages», esso si palesa finalmente luminoso e persuasivo.
Susanna Ragionieri 

Bibliografia
De Chirico 1936; Ruggero Alfredo Michahelles 1997, p. 54, n. 19; Pratesi 2005, pp. 45-46. 


7.06 RAM (RUGGERO ALFREDO MICHAHELLES; FIRENZE 1898-1976) L’Ile de Cythère I 
1933 olio su compensato; cm 40 x 50 firmato e datato in basso a destra «R. Micaelles 33» Amelia Michahelles 

Nel 1924 Felice Carena è nominato titolare della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze di cui diverrà in seguito direttore. Artista dal percorso complesso, passato per le tappe di aperture successive a linguaggi anche contrastanti, - dallo sfumato «leonardesco» di Carrière al sintetismo di Gauguin, matericamente arricchito dalla riflessione sulla pennellata di Cézanne - Carena era approdato all’inizio degli anni Venti, a partire dalle due versioni di Quiete, a una meditata, solenne orchestrazione compositiva, nella quale gli schemi della grande tradizione italiana - soprattutto tizianesca e caravaggesca - già filtrata nell’Ottocento francese attraverso Courbet, Manet e Renoir, si saldavano armonicamente alle esigenze di espressione sintetica e d’impulso mentale, rese chiare dalla ricerca cézanniana. Opere come Apostoli (1924) o Serenità (1925), in cui questo connubio, o «continuità pittorica» (Pontiggia 1996, p. 39), appare con chiarezza, troveranno immediata rispondenza nell’ambiente toscano, dove soprattutto la riflessione su Cézanne appariva particolarmente viva per la presenza delle grandi collezioni Fabbri e Loeser, e per l’interesse dimostrato da tutta una generazione di artisti coetanei di Carena - da Oscar Ghiglia a Giovanni Costetti, da Antonio Maraini a Libero Andreotti a Raffaele De Grada -, che proseguiva nei più giovani, legati al gruppo del Novecento Toscano e frequentatori di “Solaria”, come Giovanni Colacicchi ed Ennio Pozzi. Sarà proprio l’adesione, dal 1926, a questa fucina di idee e di suggestioni poetiche da parte dell’ormai maturo artista, a provocare un ulteriore svolgimento che ne caratterizza la pittura degli anni Trenta: dove la materia ricca, ma disciplinata, delle opere precedenti, si sfalda improvvisamente come premuta da una urgenza lirica nuova, mentre le maglie della composizione si allentano aprendo, come appare nel Terrazzo, alla circolazione di un più affabile respiro.
Susanna Ragionieri 

Bibliografia
Quadriennale 1931, n. 27; Felice Carena 1996, p. 165, n. 54; Felice Carena 2010, p. 123, n. 33.


7.07 FELICE CARENA (CUMIANA 1879-VENEZIA 1966) Il terrazzo 1929 olio su compensato; cm 100 x 70 Udine, Galleria d’arte moderna, inv. 299 GAMUD

Eseguita a Parigi nel 1930, durante il secondo soggiorno dell’artista nella capitale francese, la natura morta appoggiata al davanzale aperto sul respiro del cielo, appare in originale sintonia con certe immaginazioni degli Italiens de Paris fra i quali, la rossa granseola induce a fare il nome di de Pisis, cui si accordano anche il tono sospeso ed evocativo di lontana matrice metafisica fino a certa pittura rada ma ricca di palpiti, che come un vento sottile, muove il controluce trasparente della sera.È l’insinuante incongruità del titolo - Conversari - a suggerire, come scriverà il fisico Sebastiano Timpanaro nella monografia sull’artista, che a tali presenze, al pari di veri e propri ritratti, sia da collegare «un sentimento umano e principalmente quella tristezza elegante che è propria dei personaggi peyroniani». «Ecco un vaso azzurro. Per Peyron è un lago; e quei fiori sono una fanciulla» (Timpanaro 1943, p. 16). Una simile disposizione a intravedere continui varchi, capaci di fuggire il quotidiano per sondare il mistero, è ciò che avvicina l’artista all’universo montaliano. E non è un caso che proprio Peyron realizzi nel 1932 per le edizioni Vallecchi, la copertina de La casa dei doganieri e altri versi, premiata l’anno precedente da una giuria di musicisti, pittori e scultori tutti aderenti alla rivista “Solaria”. Anche in quel fragile disegno a penna, presenze stupefatte e gentili, il mazzo di fiori e l’aragosta poggiate sulla balaustra in vista del mare sembrano dar forma a un desiderio: quello di far propria la naturalezza smemorata e felice del creato per aprirsi finalmente liberi al flusso della vita e delle sue avventure che, come in un romanzo di Conrad o nella tradizione della pittura romantica tedesca, sono evocate dal dialogo fra interno ed esterno, dove la finestra è la soglia, il mare la vita, e il veliero che passa, l’occasione. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia
Marangoni 1933, copertina; I fantasmi di Guido Peyron 2003, pp. 73, 76, 126, 130. 


7.08 GUIDO PEYRON (FIRENZE 1898-1960) Conversari 1930 olio su tavola; cm 81 x 65 firmato in basso a destra «G. Peyron» Collezione privata

La splendida, inquietante Ulalume, ispirata, come suggerisce il titolo, alla poesia di Edgar Allan Poe sull’amore perduto, la cui atmosfera allucinata ricrea con quel disporsi solenne sul piano ribaltato come una tomba degli oggetti morti e disseccati, illuminati da una luce fredda, restituisce con esattezza la temperatura spirituale di Martinelli alla metà degli anni Trenta, insieme al tono delle sue frequentazioni fiorentine dei poeti ermetici, fra i quali spicca la figura di Tommaso Landolfi. Metafora di quel «letteratura come vita», che connota la stagione postsolariana, da “Letteratura” a “Campo di Marte”, lo spunto letterario, còlto e peregrino, indica la tensione sempre più forte «a puntare tutto sulla carta più alta dello stile» (Gatto 1968, p. 28), giocando a spingersi su un limite di ambiguità che, come nelle favole metafisiche di Landolfi , appare costantemente «in bilico fra il pezzo ad esecuzione e la confessione più spinta» (Zicari 1980, p. 91). Allo stesso modo, in Ulalume, ogni elemento contiene in sé anche il proprio rovescio: eseguita nello studio fiorentino dell’amico Giovanni Colacicchi mentre quest’ultimo si trovava in Sud Africa, e dipinta fianco a fianco con Flavia Arlotta, la giovane pittrice amata da Colacicchi (della quale rimane una versione della stessa natura morta), l’opera è composta di fiori, alghe, radici disseccate, piccole cose che Colacicchi spediva loro da Città del Capo, e che i due amici accoglievano come segni tangibili e insieme pensieri di una cara persona assente. Così, gli oggetti inconsueti o esotici - le conchiglie oceaniche e i fiori strani, visibili nella contemporanea natura morta Protee -, se possono apparire ed essere letti come raffinato capriccio, si scoprono al tempo stesso familiari, recanti ancora l’impronta, quasi la flagranza dell’amico. E la pittura, a un primo sguardo sorvegliatissima, e aliena da ogni emozione, svela poi, nell’accostamento spregiudicato ai modi di Colacicchi, i tratti di una commossa appropriazione. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Zicari 1980, pp. 86-92; Ragionieri 1986, p. 45; Rivosecchi 1998, p. 88. 


7.09 ONOFRIO MARTINELLI (MOLA DI BARI 1900-FIRENZE 1966) Ulalume 1936 olio su tela; cm 84 x 60 Collezione Nicola Martinelli

Dipinta dopo il ritorno dal Sud Africa, sul finire del 1937, la Natura morta della protea svolge ancora il tema delle opere dipinte l’anno precedente da Martinelli e da Flavia Arlotta, aprendo con esse un affascinante dialogo basato sull’intimità di un parlare sommesso, a chiave. Se lo stile vigilato e l’atmosfera argentea, misteriosamente allusiva, possono rimandare al nuovo clima dell’ermetismo fiorentino, l’intenso rovescio simbolico e affettivo che contraddistingue alcuni degli oggetti africani presenti nella natura morta, induce a considerarne il valore di poetici «correlativi oggettivi» di sentimenti, pensieri, umane vicende, suggerendo un confronto con il Montale delle Occasioni. Non a caso, sarà proprio quest’ultimo a presentare la produzione recente dell’artista, fra cui campeggia la Natura morta della protea, riprodotta sulla copertina, in una importante personale del 1938 allestita nella romana Galleria della Cometa di Mimì Pecci Blunt e Libero De Libero. Dove l’accento posto dal poeta sul naturale equilibrio raggiunto dal moderno «classicismo» di Colacicchi, lontano sia dall’«astratta ironia neoclassica» che dal «rapido e ancora oscuro abbandono al “sentimento”», vale ad indicare vicinanze, ma anche a stabilire altrettanti distinguo da un clima artistico come quello romano, con il quale - da Cagli a Capogrossi, da Gentilini a Guttuso - Colacicchi dimostrava di avere forti consonanze. Così, nella Natura morta della protea, mentre i relitti del ricordo - le foglie aguzze come artigli, le ossa calcinate, il piede di gesso - rasi da una luce obliqua e secca, appaiono in sintonia con certi esiti di De Libero e Cagli, il ritmo dell’immagine, che si mantiene chiaro e scandito, fondato su un limpido equilibrio di pieni e di vuoti disposti sul tavolo come su una ideale pagina, indica una visione armonica profondamente distante dallo spirito espressionista destinato a divampare nell’ambiente romano e poi in quello milanese di “Corrente” della fine del decennio.
Susanna Ragionieri 

Bibliografia
Montale 1938; Ragionieri 1986, pp. 65-66, fi g. 23; Morelli, in Giovanni Colacicchi 1991, pp. 173-175. 


7.10 GIOVANNI COLACICCHI (ANAGNI 1900-FIRENZE 1992) Natura morta della protea 1937 olio su tela; cm 65 x 73,6 firmata in basso, verso destra «Colacicchi» Collezione Cavallini Sgarbi


Esposta alla Biennale del 1932, l’opera, in forma di lapide, fu eseguita adoperando un blocco di marmo pentelico che l’artista aveva fatto venire appositamente dalla Grecia dopo un viaggio in cui aveva voluto visitare di persona i luoghi sacri allo spirito occidentale. Il doppio titolo con il quale è conosciuta, indica già i caratteri duplici e correlati che essa sottintende; l’uno stilistico, espresso attraverso il riferimento ai tre ordini architettonici ed al loro modellarsi sulle proporzioni del corpo umano, secondo un principio di cui si riconosce il valore armonico, propositivo e moderno; l’altro umano ed estetico, identificato in una Grecia sentita come emblema e modello di bellezza e di libertà. Giunto all’arte per vocazione dopo una laurea in giurisprudenza, Maraini si era formato a Roma, dove aveva frequentato gli studi di Giulio Bargellini e Giovanni Prini, e perfezionato il proprio tirocinio «con una vera e propria esperienza di bottega, lavorando a lungo, come aiuto, con Angelo Zanelli», al tempo in cui quest’ultimo eseguiva i bassorilievi per l’Altare della Patria (Antonio, Fosco e Grato Maraini 2008, p. 24). La scelta di intraprendere la carriera di scultore e la decisione di trasferirsi a Firenze, in entrambe delle quali avevano avuto un ruolo importante l’incontro e poi il matrimonio con la scrittrice inglese Yoï Crosse Pawlowski (Bardazzi 2011, p. 8), appaiono strettamente legate e conseguenti al valore di modello che Maraini riconosceva alla città: «Firenze sola vi darà con la magia pura delle linee, degli squadrati volumi, delle proporzioni nel ritmo e nella prospettiva, il vero senso dell’architettura in sé e per sé: rapporto esatto dal finito all’infinito» (Maraini 1928, p. 15). Questo medesimo equilibrio, nutrito delle teorie sulla pura visibilità di Adolf Hildebrand che egli stesso aveva contribuito a diffondere con gli articoli su “La Ronda” del 1923, Maraini lo avrebbe ricercato per la propria scultura, abbandonando i residui di stilismi déco per giungere, in parallelo a Libero Andreotti, a una forma dal respiro ampio e lirico. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Biennale 1932, p. 111, n. 31; Del Bravo 1981, p. 39, fig. 14; Bardazzi 1984, pp. 38-39; Antonio, Fosco e Grato Maraini 2008, pp. 64-65. 


7.11 ANTONIO MARAINI (ROMA 1886-FIRENZE 1963) Ricordo di Atene (Ionica, Dorica, Corinzia) 1932 marmo pentelico; cm 183 x 65 x 11 firmata e datata a destra, sul basamento di Corinzia «Antonio Maraini 1932» Firenze, Banca CR Firenze

La grande tela eseguita ad Anagni nell’estate del 1932, ed esposta per la prima volta in una personale alla Sala d’Arte de “La Nazione” nel gennaio successivo, è il risultato di un complesso intreccio di pensieri e incontri risalenti alla formazione umanistica dell’artista cui si era unita a Firenze la scoperta del Quattrocento. Un mondo di forme e di immagini corrispondenti ad altrettanti valori spirituali che il giovane avrebbe fatto propri secondo la visione che l’Ottocento - in particolare germanico - ne aveva dato, opponendoli come sogno esistenziale ed estetico al dilagante materialismo. Il linguaggio figurativo che in Fine d’estate trova così la sua più fervida formulazione, ha alle spalle le pagine de La nascita della tragedia e le immaginazioni dei Deutsche Römer, i cui echi Colacicchi aveva potuto ancora avvertire nello studio di Francesco Franchetti, il raffinato pittore di cultura tosco-romana di cui fu allievo per qualche tempo, e che lo accompagnerà a Napoli per vedere gli affreschi di Hans von Marées; ma si nutre anche della forte impressione ricevuta nel 1923 dall’incontro con un de Chirico ormai «romantico» - quello dell’Autoritratto col Mercurio, visto sul cavalletto, nella casa di Giorgio Castelfranco insieme a La partenza del cavaliere errante -; e non è estraneo ai richiami dell’eredità visiva di Adolf Hildebrand, la cui casa custodita dalla fi glia Elisabeth, avrebbe cominciato a frequentare dal 1927. Pur concepito con la struttura di un fregio e il tono di un inno, il dipinto, realizzato nel periodo di crisi seguito al suicidio di Franchetti, partecipa di un’inquietudine tutta moderna. Se infatti l’allusione ai “neofiti” di Masaccio e di Piero, che affiora dai nudi dei giovani, vale a renderne più pura la bellezza, il contrasto con le forze della natura cui allude il temporale incombente, immette nella libera gioia dell’insieme, resa quasi sonora dalla sfrenata corsa dei cavalli bradi, un ungarettiano «sentimento del tempo», in sintonia con i contemporanei esiti della Scuola romana. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Vittorini 1933; Del Bravo 1981, p. 39, fig. 15; Ragionieri 1999, p. 107, fig. 108. 


7.12 GIOVANNI COLACICCHI (ANAGNI 1900-FIRENZE 1992) Fine d’estate 1932 olio su tela; cm 162 x 201 firmato e datato in basso, verso destra «G. Colacicchi 1932» Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, inv. Giornale 5562

L’opera, dipinta a Firenze nel 1938, segna il momento più alto e conclusivo della comunione di idee fra Martinelli e Colacicchi, siglata dal lavoro comune sul tema della composizione di figure. È Colacicchi stesso a ricordare l’importanza dell’amicizia con l’irrequieto artista pugliese, nata a Roma nei primi anni Venti, e divenuta a Firenze, al rientro di Martinelli dal lungo soggiorno parigino conclusosi nel 1931, vero e proprio sodalizio, cementato dalle frequentazioni di casa Hildebrand a San Francesco di Paola, e arricchito dalle aperture, favorite dallo stesso Martinelli, verso gli artisti della nascente Scuola romana, in particolare verso Emanuele Cavalli e il suo assorto tonalismo. Esperienze che avrebbero favorito le «individuali tendenze a un’arte in cui si pensava che potessero fondersi l’intellettuale spontaneità dell’impressionismo, la naturale chiarezza dei macchiaioli, così frequente di affioramenti rinascimentali, e la ritrovata cultura figurativa del Rinascimento» (Colacicchi 1980, p.n.n.). Su questi temi Martinelli si era misurato con i Giganti dell’anno precedente, ispirati al canto dantesco e al disegno botticelliano; e un Parronchi giovanissimo avrebbe ricordato quanto essi avevano fatto scalpore. «Si era in tempi di retorica, e il quadro non era retorico, anzi l’epica del soggetto vi era risolta liricamente [...]. Ricordo che Corrado Cagli, a cui era stata allora distrutta, per ragioni razziali, la decorazione del vestibolo del padiglione italiano alla esposizione Universale di Parigi, passò da Firenze per vedere questi Giganti» (Parronchi 1968, p. 37). Con identica ispirazione, anche se con opposta resa pittorica, al sulfureo notturno dei Giganti succede l’intarsio luminoso e rarefatto della pierfrancescana Composizione di nudi, ambientata nel podere di casa Hildebrand. Dove ricordi dalla scultura antica, o da Michelangelo, da Piero, e da Signorelli, o ancora dal Domenico di Bartolo di Siena, affiorano con naturalezza, osservati un tempo, ed ora riconosciuti nei gesti svagati e lenti dei giovani modelli, composti in un silenzio colmo di echi. 

Susanna Ragionieri 
Bibliografia Zicari 1980, pp. 102-103; Rivosecchi 1991, p. 152, fig. p. 153; Ragionieri 2007, p. 41, fig. p. 40. 


7.13 ONOFRIO MARTINELLI (MOLA DI BARI 1900-FIRENZE 1966) Composizione di nudi 1938 olio su tela; cm 140 x 190 Puglia Promozione Agenzia Regionale del Turismo

Fra il 1927 e il 1931 Ram esegue un gruppo di opere - Perlustrazione notturna, Idroscalo, Industria - in cui il tema della modernità si associa ad atmosfere sospese di immobilità contemplativa. Nello stesso 1931, insieme al fratello Thayaht, aderisce ufficialmente al Gruppo Futurista Toscano con la mostra alla Galleria Firenze, organizzata da Marasco e da Thayaht. Un’immagine come Industria diventa dunque esempio della particolare inflessione tra razionalistica e neometafisica del Secondo futurismo, attento a tradurre in immagini plastiche i simboli della vita moderna fra i quali si situano «i nuovi misteri creati dalle macchine» (Fillia 1930). In questo clima appare da inquadrarsi anche il rapporto di Ram con il Razionalismo architettonico, movimento sul quale egli risulta essere non solo ben informato, ma avere anche una propria precisa opinione consistente nell’anteporre al «predominante funzionalismo», le ineludibili «ragioni di un lirismo plastico» (Crispolti 1986, p. 292). Lo conferma una lettera indirizzata a Thayaht da Parigi nei tardi anni Venti, nella quale Ram si chiedeva «che cosa erano le case moderne allora invocate dai francesi se non delle rielaborazioni della Casa Gialla» (Toti 2005, p. 68), ovvero l’abitazione marina realizzata da Thayaht sulla spiaggia di Tonfano con volumi essenziali, adatti a uno stile di vita libero e moderno in accordo con la natura, a cui si lega il progetto Casolaria per le moderne case in serie (Scappini 2005a, pp. 79-86). Anche la collaborazione del 1933, al tempo del concorso per la Stazione di Firenze con gli architetti Bianchini e Fagnoni - per il progetto dei quali aveva realizzato una stele, «limpido elemento architettonico-scultoreo fatto di pochi segni che si compenetrano e che danno tutto il senso dell’edificio» (Bianchini-Fagnoni 1933) - sembra inscriversi in questa ricerca estetica di moderna purezza ritmica e volumetrica. Che, in certi dipinti del 1932 come Sposi, crea con l’ortogonalità essenziale degli elementi architettonici in rapporto alle figure, quasi un richiamo a quell’incanto spaziale divenuto già leggenda, del Padiglione tedesco all’Esposizione Universale di Barcellona del 1929, di Mies van der Rohe.
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Lucchesi 1997, p. 52, fig. p. 53; Il Futurismo in Toscana 2000, pp. 104, 140; Laghi 2009, p. 113, fig. p. 115. 


7.14 RAM (RUGGERO ALFREDO MICHAHELLES; FIRENZE 1898-1976) Industria 1931 olio su tavola; cm 50 x 37 Collezione privata

«Sintesi del corpo umano in movimento verticale discendente»; così il giovane Fortunato Bellonzi descrive Tuffo nella prima monografia dedicata all’artista da Maraini e Marinetti nel 1932, quando la scultura appena realizzata era in mostra alla Biennale veneziana. «Nel Tuffatore - avrebbe aggiunto il futurista Tullio Crali in un ricordo più tardo - l’idea è messa a nudo, valutabile in ogni linea, in ogni cavità, senza sotterfugi, così come ha da essere tutto ciò che esprime bellezza». La consapevolezza che un’opera nasce soltanto quando «idea, materia, forma e realizzazione hanno un’unica anima e vogliono esprimere lo stesso sentimento» (Thayaht 1933, in Scappini 2005a, p. 439) era molto viva in Thayaht nei primi anni Trenta. Una simile convinzione, applicabile indistintamente alla sua versatile attività, lo aveva portato a riflettere sia sul valore determinante della linea e del disegno, sia - specialmente dopo l’adesione al futurismo avvenuta nel 1929 - sulla possibilità di «sviluppo dei principi boccioniani» in una direzione plastica e sintetica, da applicarsi a soggetti moderni. Così, l’idea contenuta nel “Manifesto della scultura futurista” di una linea retta vista come «il solo mezzo che potesse condurre alla verginità primitiva di una nuova costruzione architettonica delle masse», Thayaht la considerava all’origine dell’«odierno primitivismo nel quale la linea retta è infatti l’elemento essenziale e con la quale soggetti modernissimi sono rappresentati con semplificazioni vigorose e comprensibili a tutti» (Thayaht 1933, in Scappini 2005, pp. 416-417). L’opera in gesso, per la quale era stata prevista una fusione in alluminio che poi non ebbe luogo, fu presentata nel 1936 alla Prima Mostra Nazionale d’Arte Sportiva a Roma per partecipare alle selezioni delle opere da esporre a Berlino in occasione delle Olimpiadi. Dopo il rifiuto dovuto alle dimensioni eccessive, l’artista si offrì di eseguirne una versione ridotta, che fu accettata. La misura monumentale faceva tuttavia parte integrante della scultura e del suo fascino, come dimostra una fotografia del 1933 in cui Tuffo è attorniata dalla squadra della Nazionale Italiana Tuffi (Futurismo e Bon Ton 2005, fig. 8).
Susanna Ragionieri

Bibliografia 
Biennale 1932, p. 176, n. 98; Bellonzi 1932, p. 37; Bonani 2005, p. 146; Crali 1982, in Thayaht futurista irregolare 2005, p. 187. 


7.15 THAYAHT (ERNESTO MICHAHELLES; FIRENZE 1893-MARINA DI PIETRASANTA 1959) Tuffo 1932 gesso patinato, base in metallo (ricostruita sulla base di disegni dell’artista), h cm 289, base cm 142 x 142 x 13 Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Deposito CLM Collezione Seeber, MART 1842

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Fondazione Archivio Storico, invv. 60, 61 «Toscano di ceppo umanista, cioè un uomo “etico”», come egli stesso si definisce (Fortuna 1982, p. 17), Baccio Maria Bacci non aveva avuto paura di sperimentare linguaggi diversi fin da quando, agli inizi del secolo, era fuggito a Monaco per affermare la propria volontà di essere pittore, o ancora quando, dopo il soggiorno parigino del 1913, aveva vissuto una convinta fase futurista. Così non stupisce, nei bozzetti per Volo di notte, eseguiti per il Maggio Musicale del 1940, la decisa virata in senso modernista, compiuta dopo un decennio di opere dal taglio solenne, volte a rintracciare quel filo che unisce fra loro le differenti gravità di Giotto e Masaccio, di Caravaggio e Vermeer, di Courbet e Fattori. Complice la musica dell’amico Dallapiccola e la riduzione operata da quest’ultimo sul racconto di Saint’Exupéry, della moderna odissea e tragedia del pilota Fabién, l’artista riesce a creare una scena capace di trasmettere la convinzione dallapiccoliana che le conquiste della tecnica non abbiano ucciso affatto la poesia, aprendo piuttosto a nuove circostanze e forme del suo manifestarsi (Dallapiccola 1942, p. 15). L’ambientazione ha luogo nella sala di controllo della Compagnia di Navigazione Aerea, nei due momenti della sera e della notte, che delimitano lo spazio temporale di svolgimento del dramma. Un’alta, sottile vetrata razionalista, permette una comunicazione quasi totale fra interno e esterno, facilitando la suggestione di un’unità di luogo, insieme reale, messa in campo dalla musica, ed evocativa, fra il radiotelegrafista ed i piloti lontani che eseguono come corrieri, per portare a destinazione le merci nel minor tempo possibile, i voli notturni. E quando il pilota Fabién smarrisce la propria rotta, consumando il prezioso carburante, il radiotelegrafista, «come l’antico Nunzio della tragedia greca, diviene il nuovo sacerdote di una tragedia moderna» (Gavazzeni 1954, p. 235), nella quale la solitudine di un uomo che comprende di essere condannato a morire, diventa il simbolo universale della fragilità e della precarietà della condizione moderna.
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Visualità del Maggio 1979, p. 30, nn. 60-61; Monti 1985, p. 36; Ragionieri 2001, pp. 173-174, fig. p. 191; Bucci 2010, pp. 272-273, 275, nn. 1162-1163. 




7.16 BACCIO MARIA BACCI (FIRENZE 1888-1974) Bozzetti per “Volo di notte” 1939-1940 tempera e matita su cartoncino Quadro I, cm 49 x 68, firmato in basso: «B.M. Bacci 39-XVIII»; in basso, l’annotazione autografa: «“Volo di notte” Scena I»; Scena ultima, cm 45 x 60, in basso, l’annotazione autografa: «“Volo di notte” Scena ultima»; fi rmato e datato «B.M. Bacci 40-XVIII» Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Fondazione Archivio Storico, invv. 60, 61

Fra il 1932 e il 1934, sollecitato dall’esempio del giovane amico Quinto Martini, e con l’aiuto di questi, Soffi ci si dedica alla tecnica dell’affresco nella quale esegue un nutrito gruppo di opere. Si tratta di “affreschi da cavalletto”, realizzati direttamente o talora riportati su tavola, nei quali l’artista ha modo di sondare le qualità di aderenza di una simile materia ai propri desideri di allora in fatto di asciuttezza, luminosità, e severità formali. Cecchi stesso, ancora a distanza di anni, vi avrebbe riconosciuto l’origine di quel definitivo liberarsi dell’artista da ogni residuo di superficialità percettiva: «Ha lasciato cadere quelle eleganze di pennellata squamosa, friabile o lanosa, nelle quali un tempo si compiaceva, assumendo quasi uniformemente una virile povertà che, anche fuor dell’affresco, ci richiama all’affresco» (Cecchi 1939). Un’opera come Processione sembra così compiere un ulteriore e decisivo passo sulla via di quel “realismo purificato” iniziato con le figure monumentali del 1920. Perché nella tecnica antica egli ritrova intrecciate quelle radici nobili e popolari capaci di collegare ancora Giotto e Masaccio all’umile Gugliemo Baldinotti da Signa, l’imbianchino decoratore che gli aveva insegnato i segreti della tempera murale al tempo dei «trofeini». Essa diventava così un fatto non solo spirituale e morale, ma nazionalistico e quasi etnico, dotato di una tale forza paradigmatica che persino la Sainte Geneviève di Puvis de Chavannes al Pantheon, «in piedi su un terrazzo, un paesaggio brullo e in cielo la luna piena», poteva apparirgli, come ricorda Quinto Martini, un dipinto «molto “toscano”» (Martini 1976, p. 80). E, in linea con le poetiche del “Selvaggio” e di “Frontespizio”, tutto l’universo - per lui ateo - sembrava coagularsi ed avere senso soltanto nell’adesione incondizionata a quel mondo contadino fatto di tradizioni antiche e di religiosità severa, capaci di modellare per secoli un paesaggio - quello toscano - come se si trattasse di una grande opera d’arte collettiva (Soffici 1933, p. 151).
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Biennale 1934, p. 139, n. 37; Cavallo 1982, p. 14; Pratesi-Uzzani 1991, p. 181, fig. 77; Casazza 2009, p. 43, scheda p. 68, fig. p. 169. 


7.17 ARDENGO SOFFICI (RIGNANO SULL’ARNO 1879-FORTE DEI MARMI 1964) La processione 1933 affresco su tavola, cm 192 x 175 firmato e datato in basso a sinistra: «SOFFICI 33» Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, inv. Giornale 186

Sul finire degli anni Venti, Romanelli esegue un gruppo di ritratti di amici artisti e intellettuali - Giovanni Papini, Domenico Giuliotti, Ardengo Soffici - «nello stile semplificato, quasi malcerto, dell’arte etrusco-romana» (Campana 2001, p. 25), che Ranuccio Bianchi Bandinelli andava rivalutando sulle pagine di “Dedalo” con singolare varietà di motivazioni, fra le quali spiccava senz’altro la convinzione che, se il mondo ellenico non serbava più «alcuna sorpresa ai nostri spiriti ansiosi di nuova bellezza», la ricerca di «una nuova anima», che sostituisse «una bellezza materiata di sola forma», poteva ritrovare le proprie ragioni nel «ricostruire, rigorosamente, la vita e la storia di tutto un popolo», quello etrusco, che si comprendeva essere all’origine del «regionalismo artistico italiano» (Bianchi Bandinelli 1925, p. 5). Questo impasto di motivazioni etiche, estetiche, e sociali, indice della straordinaria modernità del tema - che attrasse secondo le declinazioni più diverse vari artisti, da Marino Marini ad Arturo Martini, a Romanelli stesso - trovava motivi di confronto e di consonanza con le poetiche di Strapaese e del “Selvaggio”. E proprio sul “Selvaggio” del 1927, Rosai loderà alcune opere di Romanelli per quel «mescolo di dolce e di rude» che era, a suo avviso, «la poesia di quest’anima vera, italiana», accogliendolo a pieno diritto fra i “selvaggi” (Rosai 1927; Campana 1991, p. 64). Dell’arte etrusca, come è stato ben rilevato, l’artista andava fornendo infatti una interpretazione energica e costruttiva, diversa da quella lirica di Marini e Martini, ed invece analoga nel tono, alla posizione fieramente spiritualista dei «cattolici-belva» come Papini e Giuliotti (Campana 2001, p. 26). Oppure, in linea con il linguaggio severo, semplifi cato, e in accordo con la tradizione italiana, che Soffi ci andava affermando nel Periplo dell’arte, e che l’eco del “Bruto” capitolino, da poco riportato da Bianchi Bandinelli nell’ambito etrusco (Bianchi Bandinelli 1927, p. 6), presente nell’impostazione del ritratto di Soffici, sembra arricchire di un ulteriore significativo pensiero. 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Biennale 1930, p. 101, n. 24; Costantini 1934, p. 26, fig. p. 59, copertina; Torriano 1941, p. 13, tav. XX; Campana 1991, p. 66, fig. 53. 


7.18 ROMANO ROMANELLI (FIRENZE 1882-1968) Ritratto di Ardengo Soffi ci 1929 bronzo; cm 46,5 x 60 x 26 firmato e datato nella parte posteriore, a destra, in basso «ROMANO ROMANELLI 1929» Milano, Museo del Novecento, inv. 4518

La scritta «Milano», presente sul retro del quadro, ha indotto a pensare che l’opera sia stata esposta nella personale del dicembre 1933 alla Galleria Tre Arti, dove erano presenti sedici dipinti dal titolo Paese, a dimostrazione dell’interesse di Rosai per il tema all’inizio del nuovo decennio. E il giudizio positivo espresso da Carrà sulla volontà dell’artista «di imprimere alle sue figurazioni un valore che lo trascende» servendosi dell’«accentuazione geometrica», a creare una pittura che «non è giuoco dei sensi, ma luce di sentimento umano» (Carrà 1933), sembra attagliarsi perfettamente al paesaggio in questione. Dove il rarefatto geometrismo suscitato dal rapporto fra le facciate delle case e le nere finestre-feritoie che le bucano - quasi un’eco lontana di Via Toscanella del 1922 - si stempera nel calore di una materia vibrante di luce e perfino di gestualità - come indica l’impronta del pollice dell’artista notata da Cavallo - che investe tutta la composizione, per culminare, condotta dal placido solco della strada, nella massa fremente di alberi sullo sfondo con le punte toccate dal sole. Insieme alla Via di Santa Margherita a Montici, al Cancello bianco,a Via Lupo, a Bellariva, questo Paese appare dunque fra i capisaldi di una delle stagioni più ricche e intense della piena maturità dell’artista - quella del «Rosai 1933» (Santini 1960, p. 189, n. 40) -, la cui atmosfera, feriale e sospesa, sarebbe stata restituita, in pagine di grande intensità, dallo scrittore Romano Bilenchi, amico di Maccari e poi di Rosai: «Ottone viveva in solitudine e in miseria in un casotto del dazio abbandonato, lungo una strada allora quasi campestre», nella zona di Villamagna. Era il tempo in cui Dino Caponi, ragazzo del luogo, aveva preso a disegnare con lui, eleggendolo a proprio maestro, mentre Rosai si sceglieva i modelli fra i contadini che lavoravano ai poderi della zona, come l’orfano Eliseo, conducendo una vita a suo modo serena, separata, e tutta dedita alla pittura (Bilenchi 1971, pp. 23-35).
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Ottone Rosai 1995, pp. 298-299, n. 65. 


7.19 OTTONE ROSAI (FIRENZE 1895-IVREA 1957) Paesaggio 1933 olio su tela; cm 95,7 x 71 firmato e datato in basso a destra «O. Rosai 33» Collezione privata

L’opera fu dipinta nello stesso anno in cui l’artista realizza i due paesaggi di ampio formato per il buffet della nuova Stazione di Firenze, e le sue grandi dimensioni hanno fatto ipotizzare Luigi Cavallo che «una osteria come questa fosse in un primo momento tra i soggetti da realizzare». In effetti, come notava Santini nel 1960, il quadro è una sintesi di personaggi e motivi cari all’artista in quegli anni, con «il gusto e il piacere del racconto: c’è il senso della stanchezza e del riposo; c’è il ricordo di gesti, di abitudini, di atteggiamenti osservati, abituali; c’è il ritratto di costumi, di modi che nel passar di anni e di stagioni rimangono uguali». E tuttavia, nessun residuo di aneddoto appanna il tono generale; nelle figure, più volte adoperate eppure sempre «capaci di conservare in qualsiasi evenienza o traslazione il loro significato, solitamente austero o grave», si chiarisce anzi quella «tendenza a creare archetipi di forma» (Ragghianti 1983) dal carattere dolorosamente universale, che appare la ragione più profonda dell’arte di Rosai. Già Dino Garrone, nel 1930, in occasione della personale milanese al “Milione”, aveva defi nito questa pittura «una vera e propria inchiesta morale sul mondo», risultante da una «faziosità istintiva» poeticamente risolta in pittura; e, nelle figure, notava «una attesa di riscatto universale, piena d’una malinconia vasta e remota», che le apparentava a quelle di Verga e di Tozzi (Garrone 1930). Tali caratteri avevano presto avvicinato l’artista al clima del “Selvaggio” e soprattutto del cattolico “Frontespizio”, dove, in un numero a lui dedicato dell’aprile 1937, nel quale appare anche Osteria, avrebbe pubblicato una prosa-autoritratto - L’essenziale -, aspra e accorata come una preghiera. Non a caso, il carattere «cristiano» dell’arte di Rosai era già stato sottolineato proprio da Domenico Giuliotti che, calcando alla Mauriac il tono delle proprie parole, la definiva: «arte che penetra (amandola) nella umanità più umile, più disgraziata, più ripugnante o più sinistra, proprio come, da un piano superiore va facendo, a suo modo, la santità» (Giuliotti 1930). 
Susanna Ragionieri 

Bibliografia “Il Frontespizio” 1937b, p. 293; Santini 1960, p. 195, n. 155; Ragghianti 1983; Ottone Rosai 1995, pp. 309-310, n. 97. 


7.20 OTTONE ROSAI (FIRENZE 1895-IVREA 1957) Interno con fi gure (Osteria) 1935 olio su compensato; cm 140,5 x 190 firmato e datato in basso a destra «O. Rosai XIII» Prato, Farsettiarte

A partire dal dicembre 1932 Manzù collabora regolarmente al “Frontespizio” con disegni di vario soggetto - teste, fiori, figure, erbe di campo - il cui tono assorto, e il segno ora fragile - «con incertezze di pennino, macchie d’inchiostro, graffi di chiaroscuro» - ora elastico, memore come in Marini e in Sassu, del Picasso figurativo, sembra restituire in immagine molti aspetti del clima della rivista, dove il riferimento alla cultura cattolica francese di Mauriac e Green si intreccia alla poetica ermetica (Del Bravo 1981, p. 44). Se infatti, come avrebbe affermato l’amico Renato Birolli dalle pagine di “Corrente”, nel ripudio dell’«ideale plastico» e dell’«impianto stereometrico», anzi nell’apparizione «dell’amorfo», era da riconoscersi il vero, profondo elemento di novità dell’artista, ciò che indica la capacità, in lui scultore, di giungere a «un’anatomia d’emozione» (Birolli 1938), è altrettanto evidente che temi come questi, prima del passaggio sulla rivista milanese, erano già presenti e dibattuti dagli intellettuali del ”Frontespizio”, fra i quali spiccava la figura del direttore Piero Bargellini. Per lui, come è stato ben dimostrato, il lavoro di Manzù era stato infatti fin dal suo apparire, qualcosa da seguire con speciale attenzione, per diventare poi dal 1936, anno di pubblicazione del racconto David, illustrato dai disegni dell’artista, una sorta di alter ego etico ed estetico (Pratesi 1987, pp. 39-40). Uno stesso sentimento sembra ispirare i quattro David eseguiti da Manzù dal 1936 al 1938 (Bargellini 1936), e le pagine di Bargellini, dove l’immagine del giovinetto eroe, di memoria rinascimentale, è sistematicamente demolita sulla scorta del monito di Dio a Samuele: «non badare al suo volto o alla sua statura. L’uomo guarda all’apparenza, ma io guardo al cuore». Così, il giovane esile, sgraziato e malinconico, sul cui volto non si legge alcuna predestinazione all’impresa gloriosa, piuttosto vi affiorano i segni di una pena remota, misti al premere di una oscura inconsapevole vitalità, diventa protagonista di una nuova visione dell’uomo, che i tragici sviluppi della guerra avrebbero resa sempre più attuale.
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Quadriennale 1939, pp. 107-108; Del Massa 1939, p. 47; De Micheli 1971, p. 6. 


7.21 GIACOMO MANZÙ (GIACOMO MANZONI; BERGAMO 1908-ROMA 1991) David 1938 bronzo; cm 58 x 53 x 48 Roma, GNAM - Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 5797

L’opera, esposta alla Biennale del 1932, appartiene all’ultima stagione dell’artista, morto per un attacco d’asma quattro anni dopo, mentre si trovava a Ostia, impegnato negli affreschi del Collegio IV Novembre per gli orfani del mare. L’unione del tema della darsena con quello del lavoro, rappresentato dal carro - mambrucche in dialetto viareggino - tirato dai buoi, carico dei blocchi di marmo provenienti dalle vicine cave di Carrara, avvicina questo dipinto allo spirito che anima i due grandi pannelli conclusi nel 1936 per la sala d’attesa della stazione ferroviaria di Viareggio, dedicati alla celebrazione dei lavoratori del marmo e del porto, dei quali sembra anticipare l’impaginazione, dal taglio fortemente ribassato, ed il linguaggio scabro, abbreviato, grandioso, costruito con la volontà di poggiare sui «legamenti essenziali della visione», rintracciati nelle opere dei Primitivi toscani (Viani 2009, p. 142). A distanza di anni dal primo grande omaggio al popolo viareggino, realizzato nelle solenni liturgie marinare de La peste a Lucca, Il volto Santo, La benedizione dei morti del mare, dipinte come grandi ex voto, prima di partire volontario per la prima guerra mondiale, colpisce questo prepotente ritorno di cavatori, marinai, vàgeri, donne in lutto, a protagonisti di un nuovo racconto corale di chiara destinazione pubblica. Come se nei due pannelli della stazione, sintesi finale di una serie di composizioni iniziata con le memorie fattoriane di Georgica, e che nell’epica del lavoro di Bovi, marmi e mambrucche trova una importante chiave di volta, Viani si disponesse a lasciare il proprio appassionato testamento. I cui unici destinatari, dopo il naufragio degli ideali anarchici, e l’isolamento crescente, dovuto ai rapporti sempre più difficili con il fascismo (Sereni 2001a, pp. 8-21), appaiono essere gli umili-superbi, strafottenti, vitali abitanti di quella che fu la Versilia-Eden amata da Shelley, mitici eredi degli «Apuani dalle ali di falco», essi stessi, loro malgrado, esemplari in via d’estinzione di un mondo destinato al tramonto (Sereni 1990, pp. 17-60).
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Biennale 1932, p. 75, n. 16; 100 opere 1967, p.n.n., tav. CV; Viale 2009, pp. 92-93, n. 26. 


7.22 LORENZO VIANI (VIAREGGIO 1882-OSTIA 1936) Bovi, marmi e mambrucche 1932 olio su compensato; cm 59,5 x 84,5 firmato e datato, sulla destra «Lorenzo Viani / 1932 / X» Viareggio. Courtesy Società di Belle Arti

Nell’ottobre del 1933, forzato dall’asma e dai guai politici che in egual misura gli andavano rendendo irrespirabile l’aria di Viareggio (Sereni 2001b, pp. 55-65), Viani si trasferisce in esilio volontario, per dieci mesi, alle «Ville» di Nozzano, una clinica per malati di mente diretta dal professor Guglielmo Lippi Francesconi con il quale instaura un intenso rapporto di amicizia. Qui, nei momenti di quiete ritrovata per il proprio lavoro, realizzerà numerosissimi disegni degli internati - ritratti e scene di vita comune - che andranno ad illustrare il libro Le chiavi nel pozzo, pubblicato da Vallecchi nel 1935, e, insieme a diversi quadri, saranno presentati a Viareggio, in una personale allestita nell’estate del 1934. In quella mostra dei «folli», o come preferiva chiamarli l’artista, dei «trascurati», che nella Viareggio dei fasti balneari e mondani doveva apparire una ennesima sfida - il professor Lippi Francesconi la definì con tatto, nella presentazione, «una stonatura» volta a richiamare l’attenzione sul tema del dolore umano proprio laddove esso sembrava assente (Sereni 2001b, pp. 64-65) -, si trovava esposta con ogni probabilità anche La processione del Corpus Domini a Fregionaja, quadro fra i più straordinari del periodo, oggi riemerso grazie alla sagacia di Enrico Dei. Su una tavola di compensato marino, senza preparazione se non quella di una stesura non uniforme a carbonella mescolata ad acqua ragia, l’artista trasferisce, come in un doloroso collage della memoria, brani di disegni già eseguiti, riportandoli con la carta carbone rossa a delineare una rarefatta allucinata topografia. Siccome l’olio gli è proibito a causa della malattia, lo usa con parsimonia - qualche tocco allungatissimo - spesso sostituito da tempera o addirittura, in alcune parti, da tintura di iodio. «Credo che non si possa scarnire oltre - avvertiva già Ida Cardellini Signorini - eppure si arriva a delle vibrazioni calcolatissime: la semplicità misteriosa della poesia» (Cardellini Signorini 1978, p. 264, n. 209). Il racconto della processione dei pazzi si trova anche nelle Chiavi: questi uomini «sono mesi e mesi, alcuni sono degli anni, che non respirano l’aria con tutto lo spazio negli occhi [...]. Ma gli sguardi sono di sfuggita, chè tutti stringono nella tremola mano di cera la lunga candela accesa e, con l’altra mano, fanno da ventola chè la fiammella non debba spegnersi. Su tutto quel gelo di toni, la fiammella è come un palpito di viva speranza» (Viani 1935, pp. 341-342).
Susanna Ragionieri 

Bibliografia 
Mostra Viani 1934, n. 9; 100 opere 1967, p.n.n., tav. CX; Cardellini Signorini 1978, p. 264, n. 211, figg. 252-253. 


7.23 LORENZO VIANI (VIAREGGIO 1882-OSTIA 1936) Processione del Corpus Domini a Fregionaja 1934 tecnica mista (olio, carboncino, carta carbone, tintura di iodio) su compensato marino; cm 74,5 x 91 Collezione privata

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.