IL DESIGN E LE ARTI APPLICATE 

Nel campo delle applicazioni della ricerca “pura” sulla forma e sui linguaggi dell’arte, la specifica novità degli anni Trenta in Italia è costituita dalla generalizzazione del principio di riproducibilità delle cose, nel quadro di una società ormai di massa e pronta a trasformarsi in una società di “consumatori”: di idee, immagini, oggetti. Tale riproducibilità - attraverso processi di meccanizzazione industriale della produzione - si riverbera sulla forma delle cose prodotte, determinando una nuova estetica, un nuovo stile. Il confronto tra oggetti e spazi architettonici progettati per la Triennale del 1933 e per quella del 1936 è indicativo: nella prima, la Mostra dell’abitazione propone tipologie estremamente eleganti ed esclusive, pur d’inclinazione già esplicitamente “moderna” e razionalista, mentre nel 1936 - accanto al permanente piacere del pezzo unico, almeno nella Mostra dell’arredamento - emerge un’idea di serialità e standardizzazione, in realtà ormai affermata e praticata, contraddistinta da una progettazione di spazi e complementi d’arredo teoricamente destinati a un impiego diffuso, se non già di massa. Tutti i giovani architetti sono coinvolti nel progetto di arredo poiché, come scrive Persico nel 1932, «l’arredamento è architettura»: talvolta una pura necessità, in mancanza di commissioni più importanti, ma soprattutto una scelta carica di risvolti “morali”, tesa a migliorare in chiave moderna comportamenti e stili di vita. Lo stesso Persico già nel 1930, in un articolo per “La Casa Bella”, sostiene che l’«apparizione serrata e prepotente» dei mobili in ferro rappresenta «il fatto più importante della decorazione degli ultimi anni», 158 ai quali ha imposto «uno stile insolito e originalissimo». Tale nuovo stile si trova applicato nella tipologia della sedia “tubolare” in metallo e legno (anche compensato): la sua evoluzione - dalla SIAM di Pagano alle seggioline di Terragni per i bambini dell’asilo Sant’Elia di Como, passando attraverso i modelli di Pica e Mucchi - mostra, insieme all’esempio delle lampade, a cominciare dalle Luminator, come la tendenza fosse di dialogare con spazi della vita quotidiana funzionali, razionali, senza orpelli, specchio di quell’idea di vita e comportamento sachlich - oggettivo, dinamico, efficiente - che dalla Germania degli anni Venti si era irradiata in tutta Europa e oltre. Accanto alle forme di più radicale razionalizzazione degli oggetti d’uso, sussiste naturalmente un’ampia casistica di manufatti riconducibili a un’area a cavallo tra invenzione artistica e serialità, qui rappresentata dalle tipologie dei vasi (di Andlovitz, Gariboldi, Ponti, Torlasco) e delle ceramiche (di Andlovitz, Fancello, Fontana, Mazzotti, Ponti): i primi, anche usati con funzione propagandistica, come nel caso della Coppa per i Littoriali dello Sport, tendono di più alla riproducibilità, mentre le seconde sono per lo più dei pezzi unici, destinati a un consumo dichiaratamente di lusso. Ma la rappresentazione più efficace e diretta dei nuovi stili, alti e bassi, popolari e borghesi, ma anche trasversali e senza distinzioni di classe, si trova nel cinema, principale strumento davvero potente della comunicazione di massa del tempo, insieme alla radio. Al di là di storie e trame, quando i film anche più leggeri mettono in scena la contemporaneità non possono fare a meno di ambientarla, dunque di mostrarci in quali case si vivesse, con quali oggetti, con quali mobili e soprammobili, con quali, eventualmente, opere d’arte alle pareti. In certi frammenti di film di consumo, talvolta piccoli capolavori cinematografici, per quest’occasione appositamente scelti e montati senza distinzioni gerarchiche - tratti da La segretaria privata, La telefonista, Gli uomini, che mascalzoni!, O la borsa o la vita!, Tempo massimo, Inventiamo l’amore, Tre secondi d’amore, Due milioni per un sorriso, Squadrone bianco, La contessa di Parma, Grandi magazzini, Mille lire al mese… - si possono esemplarmente ritrovare, capire e godere, degli anni Trenta, gusti, mode e manie. 












6.01 GIUSEPPE PAGANO
(
PARENZO 1896-MAUTHAUSEN 1945) Sedia SIAM 
1930-1931 tubo metallico e legno; cm 484 x 48 x 58 Torino, Galleria Cristiani 

6.02 AGNOLDOMENICO PICA
(PADOVA 1907-MILANO 1990) Sedia 
1933 acciaio e legno; cm 70 x 46 x 46 Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, inv. Mobili 1969 

6.03 GABRIELE MUCCHI
(TORINO 1899-MILANO 2002) Sedia impilabile modello S5 
1936 acciaio cromato e compensato; cm 78 x 40 x 47 Genova, Wolfsoniana - Fondazione regionale per la Cultura e lo Spettacolo, GG2003.5.1 

6.04 GIUSEPPE TERRAGNI 
(MEDA 1904-COMO 1943) Tre sedie per l’asilo Sant’Elia 
(Sedia 427; Sedia 412; Sedia Lariana) 1936-1937 tubolare metallico e legno cm 55 x 32,5 x 37,5; 48 x 34 x 36,5; 59,5 x 32,5 x 36 Como, Pinacoteca Civica, o3, o4, o2 


Negli anni Trenta anche in Italia, sulla scia di quanto accade nel resto d’Europa, si esplorano tecniche e materiali nuovi. Il tubo metallico, agli occhi degli architetti, risponde alle esigenze di sobrietà, essenzialità e rigore che il Movimento Moderno impone e il defi nitivo consolidamento della pratica della piegatura del tubo porta a una vasta produzione di mobili con struttura a tubo tondo. Il metallo offre molti vantaggi che ne determinano la veloce e diffusa fortuna: leggerezza, flessibilità, facile curvatura e maggior durata rispetto al legno. Ogni tipo di mobile - scrivanie, tavoli, poltrone, sedie e sgabelli - comincia a esser disegnato e realizzato in serie; ed è considerato “moderno” quando è funzionale, sobrio e scevro da ogni ornamento. L’architetto Giuseppe Pagano, direttore della rivista “Casabella” dal 1933 e protagonista del razionalismo italiano, è tra i primi a interessarsi alle tecniche costruttive d’avanguardia e a pensare ai progetti architettonici con spirito industriale e una particolare attenzione al minimo dettaglio. Sobrietà e funzionalità caratterizzano gli arredi da lui disegnati per gli uffici della SIAM (Società Italiana Arredamenti Metallici) di Torino. Il tubo in metallo, su cui poggiano sedile, schienale e braccioli in legno, si piega a formare telaio e struttura della sedia. È la V Triennale di Milano, nel 1933, a sancire il riconoscimento ufficiale del mobile in metallo: Agnoldomenico Pica - architetto, giornalista, critico e anima delle esposizioni milanesi - presenta una sedia essenziale e austera, prodotta in venti esemplari dalla ditta Beltrami: un unico tubo d’acciaio cromato si curva e disegna il pezzo, su cui poggia il sedile in legno verniciato di rosso, con un effetto di leggerezza e flessibilità. La necessità di una produzione seriale e la volontà di realizzare prodotti spiccatamente “moderni” porta a efficaci collaborazioni tra artisti e industriali. Dal 1934 fino alla seconda guerra mondiale, la ditta Carlo Crespi di Emilio Pino di Parabiago affida a Gabriele Mucchi, pittore e ingegnere, la progettazione di una serie di mobili metallici. A stretto contatto con la fabbrica, l’artista conosce bene i problemi di produzione e costo e segue da vicino le varie fasi di realizzazione dei prototipi. È del 1936 la sedia S5: perfettamente impilabile, è costituita da due telai d’acciaio che modellano le gambe e lo schienale e si saldano insieme, in un equilibrio perfetto di forma e funzione. Fanno parte delle collezioni dei Musei civici di Como le tre sedie per bambini dell’asilo del quartiere Sant’Elia. «Prototipo della nuova scuola italiana» (Sartoris 1940, p. 31), l’edificio viene progettato dall’architetto Giuseppe Terragni nella seconda metà degli anni Trenta: in una visione globale del progetto, struttura e arredi vengono pensati tenendo conto dei bambini destinatari degli spazi. Le sedie devono essere ben salde, confortevoli, sicure. Alla ricerca di un rapporto ottimale tra struttura e materiale, Terragni decide di avvalersi del tubolare metallico e si rivolge alla ditta Palini di Pisogne, specializzata in arredamenti scolastici. Dal catalogo di produzione della fabbrica sceglie il modello 427, in tubo d’acciaio trafilato e smaltato a fuoco, su cui vengono fissati il sedile e la spalliera in legno curvato; sceglie anche la poltroncina modello 412 - la struttura in tubo d’acciaio si allunga e si piega a sostenere il sedile e la spalliera e a formare due braccioli, che aiutano l’equilibrio del bambino - e disegna egli stesso una terza sedia. Si tratta di una versione ridotta della «Lariana», utilizzata per la Casa del Fascio di Como qualche anno prima: la struttura portante è in acciaio cromato, mentre schienale e seduta sono in compensato. Il tubo metallico si piega e, con un andamento sinuoso e continuo, collega lo schienale al pavimento per poi risalire verso il sedile.

Giacinta Cavagna di Gualdana 
Bibliografia Sartoris 1940. 




















6.05 TULLIO MAZZOTTI (ALBISOLA 1899-1971) Vaso Amori-Fiori 
1929 terracotta invetriata; h cm 21,8, ø cm 21,8, ø cm 14,5 piede Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, inv. Maioliche n. 1779 
Bibliografia La Metafisica 1980, p. 175, n. 73; Chilosi-Ughetto 1995, 
p. 110; Chilosi 2002a, p. 129, n. 187; Terraroli 2007, p. 181; Futurismo 1909-2009 2009, p. 428, n. 416.

6.06 TULLIO MAZZOTTI (ALBISOLA 1899-1971) Vaso Streghe 
1929 terracotta invetriata; h cm 19 h, ø cm 18, ø cm 13 piede Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, inv. Maioliche n. 3294 
Bibliografia La Metafisica 1980, p. 175, n. 74; Chilosi 2002b, p. 130, 
n. 188; Terraroli 2007, p. 181; Futurismo 1909-2009 2009, p. 428, n. 417.

6.07 GUIDO ANDLOVITZ (TRIESTE 1900-MONFALCONE 1971) Vaso con decori marini 
1930 terraglia; h cm 37, ø cm 32,5, ø cm 21 piede Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, inv. Mobili n. 1543 
Bibliografia La Metafisica 1980, p. 150, n. 3; Ausenda 2002a, p. 158, n. 215; Terraroli 2007, p. 164. 

6.08 RICHARD-GINORI SU DISEGNO DI GIO PONTI (MILANO 1891-1979) Vaso con decoro “La sirena prolifica” 
1929-1930 maiolica dipinta a mano; cm 26,2, ø 71,5 cm Sesto Fiorentino, Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, inv. 7032 
Bibliografia Gio Ponti 1923-1930 1983, p. 114; Pansera-Portoghesi 1982, p. 112; Manna 2000, p. 216. 

6.09 LUCIO FONTANA (ROSARIO DE SANTA FÉ 1899-VARESE 1968) Granchio 1936-1937 grès; cm 23 x 40 x 37 Collezione privata 
Bibliografia Objects of Desire. The modern Still Life 1997, p. 158, n. 89; Crispolti 2006, p. 166; Fontana: luce e colore 2008, p. 57. 


6.10 SALVATORE FANCELLO (DORGALI 1916-BREGU RAPIT 1941) Polpo 1938-1939 ceramica smaltata e riflessata; cm 18,5 x 38 x 19 Collezione privata Bibliografia Chilosi-Ughetto 1995, p. 187; Fratelli 2001, p. 21; Crespi 2005, p. 100; Terraroli 2007, p. 212, n. 458. 


Gli artisti degli anni Trenta guardano al mezzo ceramico con vitalità sempre nuova e non rinunciano a voler imprimere ai propri pezzi, anche quando vengono riprodotti in serie, quel carattere di unicità che distingue l’opera d’arte. Nascono da queste premesse le ricerche di Gio Ponti alla Richard-Ginori e di Guido Andlovitz alla Società Ceramica Italiana di Laveno. Viene realizzato nella manifattura di Doccia, seguendo le direttive del direttore artistico, il vaso in maiolica di forma globulare sulla cui superficie, rivestita da uno smalto color prugna, spicca una sirena alata con un filo di perle al collo, contornata dalla sua prole: è una variante della fortunata serie della Migrazione delle Sirene, presentata all’Esposizione di Monza del 1930.È in terraglia - materiale meno raffinato della porcellana, ma più economico e competitivo - il vaso di Andlovitz. Uno smalto opaco nero metallizzato riveste la superficie sferica del pezzo, su cui risalta la decorazione in oro: pesci, meduse e fantastici animali degli abissi si ripetono per tre volte sul corpo del vaso. I disegni sono calligrafici e stilizzati; i contorni sottili e ben delineati, di chiara ispirazione orientale, denotano la libertà creativa dell’autore. Il pezzo, esposto a Monza nel 1930, viene acquistato dalla Fondazione Augusto Richard, costituita in ricordo del direttore morto proprio quell’anno, e donato, insieme a un corpo ricco e variegato di ceramiche italiane, alle collezioni civiche milanesi. S’inseriscono nel programma di ricostruzione futurista dell’universo le ceramiche che Tullio d’Albisola realizza nella fabbrica paterna, la Giuseppe Mazzotti, attiva dal 1903 ad Albisola. Il percorso di Tullio inizia all’Esposizione di Parigi del 1925, dove collabora all’organizzazione del padiglione ligure e si confronta con le provocazioni futuriste e le affascinanti suggestioni dèco. Inserendosi nel dibattito tra arte e industria, fa propria la volontà di riscatto delle arti applicate e dà nuovo impulso all’artigianalità. Da tali esperienze nascono le sue Fobie anti-imitative, una serie di ceramiche provocatorie e dal cromatismo acceso: le forme sono originali, le tinte contrastanti, i decori e le parole si fondono in un linguaggio inedito. Il vaso Amori-Fiori, in terracotta invetriata, ha forma irregolare e leggermente asimmetrica. Il corpo panciuto poggia su un piede circolare su cui si legge la scritta in stampatello che dà il titolo al pezzo. La decorazione ricopre sia l’interno, in monocromia gialla, sia l’esterno, dove colori violenti e smalti lucidi sono di grande impatto visivo. Da una parte, su uno sfondo a righe grigie e bianche, una donna seminuda languidamente distesa fuma con un lungo bocchino; dall’altra parte, un vaso con due rose fiorite spicca su uno sfondo scuro di foglie stilizzate. Le figure sono disegnate con pennellate rapide e sottolineate da spessi contorni neri. Il vaso Streghe, in terracotta invetriata, ha una forma semplice ma volutamente asimmetrica (una spalla del vaso è infatti leggermente più pronunciata dell’altra). I caratteri cubitali bianchi della scritta «Streghe» spiccano sul fondo nero mosso da cerchi blu con contorni gialli e da una spessa serpentina verde acido. Sulla parte opposta si staglia stilizzato il volto della protagonista, di cui si riconoscono i connotati tradizionali: il mento pronunciato, il sorriso sdentato, l’occhio guercio e la chioma canuta. 
Entrambi i vasi, presentati alla mostra dei Trentatré futuristi alla Galleria Pesaro di Milano nel 1929 (Trentatré futuristi 1929), vengono acquistati da Giorgio Nicodemi, Sovrintendente del Castello Sforzesco, per le collezioni civiche. Anche Lucio Fontana e Salvatore Fancello, nella seconda metà degli anni Trenta, cuociono i loro pezzi nei forni di Giuseppe Mazzotti ad Albisola e modellano l’argilla con grande libertà espressiva. Fontana, che si è formato alla scuola di Wildt e ha imparato a scolpire il marmo, scopre nella terracotta un nuovo campo di sperimentazione. Dopo le prime prove, l’attività s’intensifica dal 1935. Le sue mani si muovono veloci e sicure sulla materia, giocando con gli smalti e con la luce. Nasce un universo di forme d’intenso respiro plastico, tra cui il Granchio, in grès, realizzato tra il 1936 e il 1937, che sembra muoversi su uno scoglio: l’arancione delle chele e del corpo e il nero della roccia amplificano la forza del pezzo. Fancello giunge ad Albisola nel 1937, dopo aver frequentato il corso di studi per ceramisti all’ISIA di Monza: il giovane artista sardo conosce Fontana e condivide la stessa passione per la sperimentazione. Il Polpo, in ceramica riflessata, risale al 1938-1939: nel suo corpo, disteso come abbandonato sulla riva, materia e colore si fondono e gli inquieti riflessi metallici danno alla sua forma una drammatica configurazione umana. 

Giacinta Cavagna di Gualdana 




















6.11 GUIDO ANDLOVITZ (TRIESTE 1900-MONFALCONE 1971) Fiasca con decorazione a foglie di nocciolo 
1930 terraglia; cm 25,2, ø cm 18,6, base cm 9,5 x 6 Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, inv. Maioliche n. 3293 

6.12 RICHARD-GINORI SU DISEGNO DI GIO PONTI (MILANO 1891-1979) Coppa con decoro “Trionfo della Morte” 
1930 circa porcellana e oro segnato con punta d’agata; cm 19, ø cm 15,4 Sesto Fiorentino, Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, inv. 3418/176 

6.13 RICHARD-GINORI SU DISEGNO DI GIO PONTI (MILANO 1891-1979) Urna con coperchio con decoro “Trionfo dell’Amore” 
1930 circa porcellana e oro segnato con punta d’agata; cm 50, ø cm 52,5 Sesto Fiorentino, Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, inv. 3450/187 

6.14 VETRERIE S.A.L.I.R. Vaso saluto romano 
1936 vetro con figure incise; cm 29, ø cm 14,5 Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata, inv. Vetri 305 

6.15 OSCAR TORLASCO Coppa per i Littoriali dello Sport ante 1936 argento; cm 45, ø cm 17,5 Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicate, inv. Oreficerie 758 

6.16 GIOVANNI GARIBOLDI (MILANO 1908-1971) Vaso 
1938-1942 terraglia; cm 27, ø cm 12,4 Collezione privata 


Nei primi decenni del Novecento, le cosiddette arti applicate sono caratterizzate dallo spiccato gusto decorativo del Liberty e dell’art déco; si assiste poi, nel corso degli anni Trenta, a un graduale spostamento d’interesse verso la forma, che via via prende il sopravvento sul decoro. In seguito, con il diffondersi del razionalismo, alla forma si chiede di essere semplice e il più possibile aderente alla funzione dell’oggetto. La consapevolezza che «l’industria è la maniera del XX secolo» (Ponti 1926, p. 69), come Gio Ponti scrive commentando le ceramiche esposte all’Esposizione di Parigi del 1925, è ormai diffusa: se all’inizio del Novecento si dibatteva sul possibile rapporto tra arte e industria, ora si pensa che l’arte debba necessariamente confrontarsi con la produzione seriale, senza per questo perdere la propria autenticità. È necessario riuscire a creare oggetti di qualità estetica, ma di costi contenuti; così, i responsabili delle manifatture artistiche chiedono alle proprie maestranze di modernizzare la produzione, dedicandosi a pezzi aggiornati da un punto di vista stilistico e competitivi da un punto di vista economico. Nel 1930 Guido Andlovitz, direttore artistico della Società Ceramica Italiana di Laveno, presenta alla quarta Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne di Monza una serie di vasi, prodotti in serie dalla manifattura, che nella forma mantengono uno spiccato carattere déco (“Domus”, III, 34, ottobre 1930, p. 44; “Domus” IV, 43, luglio 1931, p. 20). Si ispira al lontano Oriente il vaso a forma di fiasca oggi nelle collezioni del Castello Sforzesco di Milano: con il suo decoro a foglie di nocciolo su entrambi i lati e i curiosi manici, anch’essi a forma di foglia, l’oggetto non perde originalità e qualità pur nella ripetizione seriale. I contorni del disegno sono applicati a stampa, mentre a mano vengono inseriti i colori marrone, bruno e verde (Ausenda 2002b, p. 160). Anche Gio Ponti, alla guida della Società Ceramica Richard-Ginori, affronta i problemi della produzione industriale: nel generale programma di rinnovamento della manifattura messo a punto insieme al direttore Augusto Richard, propone, per contenere i costi, un medesimo decoro da ripetere su forme diverse. Da un’attenta e colta rilettura, in chiave moderna e ironica, delle cerimonie dell’antica Roma, organizzate in onore del ritorno in patria di eroi vittoriosi, nasce la famiglia decorativa del Trionfo dell’Amore e della Morte, presentata a Monza nel 1930: guerrieri e imperatori si trasformano, nelle ceramiche di Ponti, in innamorati che si abbracciano sulla biga o in scheletri che sventolano le loro falci. Anche le forme, che pure si rifanno all’antichità e al mondo classico - urne, ciste e coppe -, entrano nel nuovo repertorio della manifattura (Giovannini 2009, p. 80). Altrettante varianti della stessa serie decorativa ornano i due vasi, di diversa forma, della collezione del Museo di Doccia. Nella coppa in porcellana blu spicca un carro trionfale trainato da due cavalli, guidato da una figura femminile alata in piedi che sventola uno stendardo. L’uso dell’oro e della punta d’agata per sottolineare i contorni impreziosisce il pezzo, dandogli un carattere di unicità, pur nella effettiva serialità. Nell’urna con coperchio i due cavalli sono alati e addobbati con corone di fiori; sulla biga, due giovani sono teneramente abbracciati. A metà degli anni Trenta, in linea con la corrente razionalista, sostenuta anche dalla politica, si assiste a una semplificazione delle forme. Ben esprimono il gusto di quel passaggio del periodo fascista i due vasi dalle forme rigorose, presentati entrambi alla VI Triennale milanese del 1936, oggi conservati a Milano nelle Civiche Raccolte di Arte Applicate. Il vaso delle vetrerie SALIR (Studio Ars Labor Industrie Riunite), in vetro soffiato fumé, unisce alla severa forma cilindrica un decoro inciso alla ruota che rappresenta due giovani donne, con cappelli raccolti e abiti severi, con il braccio destro levato nel saluto romano, in un gesto che scandisce ritmicamente la superficie del vaso. L’opera viene acquistata direttamente dall’amministrazione comunale, che la sceglie proprio per documentare la produzione della vetreria veneziana, sempre tecnicamente all’avanguardia e molto rappresentativa dello stile sostenuto dal regime (Mori 1996, p. 83; Tra creatività e progettazione 1998, p. 188, n. 80). La Coppa per i Littoriali dello Sport, disegnata da Oscar Torlasco, viene realizzata dal laboratorio ISIA di Monza. Ambito premio dell’atleta fascista, efficacemente sfrutta la preziosità del materiale, l’argento, e la rigorosa linearità delle forme per imprimere all’oggetto una forza che ben esalta il vigore fisico. Questa coppa celebrativa, così geometricamente definita, viene selezionata per essere esposta come modello di argenteria alla scuola orafa del Castello Sforzesco di Milano (Giacobone 1993, p. 46; Dagli Sforza al design 2004, p. 40). Negli stessi anni, nella sede milanese della Richard-Ginori, si producono pezzi in terraglia che, pur destinati a una vasta clientela e prodotti in serie, sono il risultato di un’accurata ricerca: se fino a pochi anni prima il decoro completava e vestiva il pezzo, ora la forma prevale, diventando essa stessa decoro, plasticamente mossa. Nei cataloghi storici della manifattura di San Cristoforo si nota una gran varietà di forme: una particolarità del vaso di Giovanni Gariboldi, allievo e successore di Gio Ponti alla direzione artistica della Richard-Ginori, è lo smalto lucido del rivestimento, che fa risaltare l’effetto maculato del colore - sui toni del marrone e del beige - e il motivo a rilievo sulla spalla (Cavagna di Gualdana 2010, p. 138).È la tendenza alla sperimentazione di smalti e cromie a caratterizzare il lavoro di Gariboldi, conferendo ai suoi pezzi un’efficacia visiva assolutamente unica. 
Giacinta Cavagna di Gualdana 

Bibliografia 
Ponti 1926; Giacobone 1993; Mori 1996; Ausenda 2002b; Giovannini 2009. 














6.17 LUCIANO BALDESSARI (ROVERETO 1896-MILANO 1982) Luminator. Prototipo di lampada da terra 
1929 ferro acciaioso cromato; cm 184 x 100 x 53 Milano, Comune di Milano, CASVA - Centro di Alti Studi sulle Arti Visive, Fondo Luciano Baldessarri, BALD, I.C.7b 

6.18 PIETRO CHIESA (MILANO 1892-PARIGI 1948) Luminator 
1933 (esemplare degli anni Sessanta) ottone verniciato; h cm 190 Milano, Aria d’Italia 

6.19 PIETRO CHIESA (MILANO 1892-PARIGI 1948) Lampada da terra a coppette orientabili 
1936 vetro e metallo; h cm 235, ø base cm 32 Collezione privata 

6.20 FRANCO ALBINI (ROBBIATE 1905-MILANO 1977) Lampada Mitragliera 
1940 ottone e alluminio; cm 108 x 37 x 50 Milano, Fondazione Franco Albini 


Anche nel campo dell’illuminazione, gli anni Trenta in Italia sono caratterizzati da un vivo interesse per le ricerche estetiche e tecniche legate alla diffusione delle idee razionaliste e all’utilizzo sempre più diffuso di nuovi materiali. Tendenza alla semplificazione formale e adozione di tubi metallici diventano un filo conduttore nella progettazione di lampade. Un ruolo di primo piano spetta alla Luminator Italiana, azienda specializzata nella produzione di lampade da terra a illuminazione indiretta, che inizia la sua fortunata attività alla fine degli anni Venti. Nel 1926 l’architetto Luciano Baldessari disegna il prototipo della prima Luminator, presentata nel Padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1929. Si tratta di una lampada-scultura, ancora legata a suggestioni futuriste e metafisiche ma che già si avvia verso le semplificazioni formali del Movimento Moderno. Intorno al geometrico corpo illuminante - un alto stelo cilindrico concluso da un paralume conico - si snoda un tubo metallico che anima la lampada, conferendole l’aspetto di una specie di manichino da sarto che pare quasi citare figure di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà. Dopo il 1931, quando alla ditta viene concesso il brevetto per il proprio modello di lampada, con il termine Luminator si definiscono tutte le lampade da terra con diffusore fisso che proiettano la luce sul soffitto. Le forme si semplificano, i volumi diventano sempre più essenziali, rigorosi ed elementari. È il caso della Luminator di Pietro Chiesa. Disegnata nel 1933 è uno dei primi progetti che l’artista milanese, già titolare di una bottega artigiana specializzata nella lavorazione del vetro, realizza per la ditta Fontana Arte, di cui proprio quell’anno è diventato direttore artistico. Una sottile asta di ottone verniciato - quasi una linea - collega il piede della lampada e il diffusore, un tronco di cono essenziale: il pezzo, di una purezza e un rigore quasi astratti, trova un immediato consenso nell’ambiente razionalista e viene prodotto in grandi numeri, segno di un raggiunto equilibrio tra qualità estetica e produzione industriale. L’attività dell’artista presso Fontana Arte è lunga, prolifica e sempre all’avanguardia nel campo dell’illuminotecnica. Chiesa unisce un innato senso della sobrietà e dell’eleganza formale a una profonda conoscenza sia delle più aggiornate tecnologie, sia delle competenze artigianali: nascono così capolavori indiscussi, tra cui la lampada da terra con coppette orientabili, progettata nel 1936. Su un tubo metallico alto e sottile s’incastrano otto coppe di vetro, disposte simmetricamente, che possono essere orientate diversamente l’una dall’altra, creando una varietà di effetti e giochi di luce, di «singolare perfezione e purezza» (“Domus”, 122, febbraio 1938, p. 25). Entrambi i pezzi di Chiesa citati sono stati considerati da Gio Ponti «modelli che raggiungono, nella loro estrema semplicità, una purezza classica di prototipo» (“Domus”, 234, marzo 1949, p. 53). In una visione globale del progetto, per molti architetti razionalisti l’illuminazione gioca un ruolo primario, determinante per la percezione degli spazi. Tra questi, Franco Albini si lascia affascinare dalle possibilità offerte dalle nuove tecnologie legate all’illuminotecnica e, alla fine degli anni Trenta, disegna la lampada Mitragliera. L’arma da fuoco viene neutralizzata dal suo ironico capovolgimento, con lo “sparo” - luminoso - ora rivolto verso il basso; i dettagli tecnici, innesti e snodi, vengono messi in evidenza, mentre i due materiali scelti, ottone e alluminio, si fondono in un equilibrio solo apparentemente instabile, secondo quel gioco d’incroci che è tipica cifra stilistica di Albini. 
Giacinta Cavagna di Gualdana 

Bibliografia
Ponti 1949. 

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.