contrasti

Alla fine del decennio, nel primo volume di Le arti in Italia, Alessandro Pavolini e Gio Ponti celebrano una raggiunta armonia; ma neppure a loro sfuggono le tensioni che agitano la scena nazionale: «Da una parte i nostalgici dell’“arte pura” sparano su ogni artista ispirato dai fatti e dai miti del popolo, dall’altra i maniaci del quadrone e della allegoria puntano su ogni innocente studioso di nature morte. E poi “tradizione” contro “modernità”, “contenuto” contro “calligrafia”, quadro da cavalletto contro affresco, “razionale” contro “monumentale”». Dalla prospettiva di oggi appare puramente consolatoria l’osservazione che tutto quel «frastuono negativo» sia «ormai completamente esterno rispetto alla vita vera delle arti»: in realtà, contrapposizioni e contrasti sono diventati più che mai forti, talvolta radicalizzandosi. L’armonia e la tolleranza reciproca fra le diverse tendenze artistiche è messa in discussione, per esempio, quando si cominciano a leggere articoli come Un’autorevole testimonianza a carico dell’arte “moderna”. Straniera bolscevizzante e giudaica di Telesio Interlandi, pubblicato nel “Tevere” del 24-25 novembre 1938. Attraverso le opere riprodotte a corredo dell’articolo - dei metafisici Carrà e de Chirico, dell’espressionista Birolli, degli astrattisti Fontana, Ghiringhelli, Reggiani, Rho, degli architetti razionalisti Lingeri e Terragni, del quale paradossalmente viene riprodotto un capolavoro dichiaratamente fascista come la Casa del Fascio di Como - si delinea un filone di inaccettabile devianza artistica. Il fatto è che, adesso, il contesto politico italiano è quello - anche - delle leggi per la difesa della razza, approvate dal Consiglio dei ministri nel novembre 1938, proprio quando Interlandi pubblica le sue 150 testimonianze «a carico dell’arte moderna». S’intravede l’ombra del razzismo hitleriano, che aveva prodotto la famigerata mostra monacense di “arte degenerata”, entartete Kunst: una manifestazione contro l’arte moderna di eccezionale efficacia propagandistica, anticipata dall’eliminazione delle opere espressioniste e astrattiste dai musei pubblici. Nella mostra del 1937, lavori di Kokoschka, Kandinskij, Klee, Mondrian, Dix, Grosz, Kirchner, Beckmann e tanti altri sono proposti allo scherno di un pubblico richiamato dagli slogan del volantino d’invito: «Tele martoriate, putrefazioni mentali, fantasie malate, pazzi incapaci premiati dalle cricche giudaiche, esaltati dagli intellettuali, sono stati prodotti e produttori di un’“arte” per la quale istituzioni statali e municipali irresponsabili hanno dilapidato milioni e milioni appartenenti al patrimonio nazionale, mentre negli stessi anni gli artisti tedeschi morivano di fame. […] Guardate con i vostri occhi! Giudicate voi stessi! Visitate la mostra “Arte Degenerata” […] Entrata libera. Vietato ai minori». Nella stessa Monaco le viene contrapposta la prima Grande esposizione d’arte tedesca, altrettanto politicizzata ma con segno opposto. Inaugurata da Hitler, presenta dipinti e sculture che nell’intenzione degli organizzatori rappresentano la vera “bellezza” e celebrano il popolo tedesco e il potere del Reich attraverso forme stilisticamente opportune e comprensibili, che non sembrino lo scarabocchio di un bambino o la visione di un pazzo. Il pezzo forte sono I quattro elementi di Adolf Ziegler, un trittico subito diventato popolarissimo. In Italia, la dialettica rimane più aperta e vivace e a cavallo del 1940 si manifesta nella rivalità tra i Premi Cremona (1939-1941) e Bergamo (1939-1942). Il primo, ispirato dal federale di Cremona Farinacci, è sintonizzato sull’onda delle mostre hitleriane: Ascoltando alla radio un discorso del Duce e Stati d’animo creati dal Fascismo sono i temi della prima edizione. Il secondo, promosso dal ministro dell’Educazione nazionale Bottai, è più attento alla qualità della pittura, come indicano i temi delle prime edizioni: Il paesaggio e Una o più figure umane in un’unica composizione. E proprio il Premio Bergamo - dove nel 1941 scoppia il caso della Crocifissione di Guttuso, “blasfema” per iconografia e per lo stile alla Picasso - funziona da palestra per tanti giovani pittori aperti alle suggestioni d’Oltralpe e destinati al rinnovamento artistico dell’Italia liberata. 



Negli anni della Repubblica di Weimar, Grosz ha rappresentato il proprio tempo, in pittura e nella grafica, sia attraverso complesse visioni d’insieme evocatrici di comportamenti collettivi, sia in prospettive ravvicinate, mirate su individui singoli e fatti specifici nei quali l’orrore di una realtà più generale si condensa e amplifica. Quando realizza questa scena agghiacciante “dopo l’interrogatorio”, riconducibile alla seconda tipologia, la “cultura di Weimar” ha da tempo cominciato a essere aggredita e dispersa dal nazismo: lui stesso è da due anni negli Stati Uniti - dove rimarrà sino al 1959, anno del ritorno a Berlino e della morte - mentre in patria sue opere storiche, esposte in fondamentali “stazioni del moderno” come la Prima Fiera Dada di Berlino (1920) e la mostra della Nuova Oggettività di Mannheim (1925), e acquisite da musei pubblici, sono sequestrate d’imperio, finendo in parte perdute o distrutte. Questo acquarello “americano” rappresenta, senza che si veda alcun essere umano “intero”, una scena del crimine, dove a parlare sono soltanto le cose rimaste: uno sgabello rovesciato, macchie di sangue dappertutto, dei pantaloni strappati, mentre un paio di poliziotti se ne va dopo aver eseguito gli ordini, col manganello ancora in mano. Coerentemente con un filone tematico delineatosi dagli anni della Grande Guerra in avanti, anche qui Grosz mette in scena una condizione umana segnata dall’alterazione assoluta del ragionevole, da una follia - dei singoli e della collettività - che cresce nutrendosi di mostruosità quotidiane. Al suo tipico stile “duro come il coltello” Grosz era arrivato attraverso la contaminazione di modelli nobili (Rubens su tutti) e triviali, come i graffiti popolari, infantili e pornografici. E lo applica, come ancora in questo caso, secondo le modalità narrative della grande illustrazione di tradizione ottocentesca, caratterizzata dalla capacità di cogliere e mettere a fuoco particolari in grado di far scattare il significato della scena rappresentata; e di ampliarlo a una dimensione più generale.

Antonello Negri
Bibliografi a Grosz 2007, p. 198, n. 278. 


artistico dell’Italia liberata. 5.01 GEORGE GROSZ (BERLINO 1893-1959) Dopo l’interrogatorio [Nach der Befragung] 1935 acquerello, pennino di bambù e penna su carta; cm 47 x 61,2 New York, Dr. and Mrs. Jerome and Elizabeth Levy

New York, Dr. and Mrs. Jerome and Elizabeth Levy Nel 1920, in un grande olio di collocazione ignota - di cui esiste però una riproduzione fotografica - Dix si autoritrae come sadico, che fa a pezzi una donna in un’orgia di sangue: lo stile è ancora quello programmaticamente “infantile” e anti-artistico dell’esperienza dadaista. Il tema ritorna in forma altrettanto truculenta in un tremendo Crimine sadico del 1922 - a sua volta conosciuto attraverso una fotografia, ma pure di ignota collocazione - e in una più piccola versione incisa dello stesso soggetto. Allo stesso anno è datato l’acquerello Sogno di una sadica II della romana Galleria Giulia, tendente a un pornografi co grottesco, ed è anche riferibile questo lavoro, dove il tema del sadismo - dichiarato dalla dedica del titolo più che dal soggetto in sé - appare intrecciarsi sia alla coeva iconografia tipicamente dixiana della prostituta sia, per le pose delle due figure, a soggetti legati al mondo del circo, ricorrenti nella sua figurazione proprio nel 1922. Lavori del genere sono esiti degli anni del perfezionamento artistico, per “diventare un vero pittore”, all’Accademia di Dresda (1919-1922), intercalati da esperienze berlinesi - la partecipazione nel 1920 alla Prima Fiera Internazionale Dada - e a Düsseldorf, dove Dix si stabilisce dal 1922 al 1925 e frequenta il circolo di Johanna Ey, la famosa “Mutter Ey”. Costituiscono altresì gli antefatti più liberi e provocatorî di quella maniera che avrebbe fatto collocare l’artista nell’ambito della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività), alla cui mostra fondativa di Mannheim, 1925, partecipò con quadri fortemente suggestionati dallo stile dei maestri del Rinascimento tedesco, lasciando da parte soggetti troppo audaci, anche stilisticamente, come questo acquerello. La crudezza della rappresentazione del corpo femminile, anticlassica e “antigraziosa”, è agli antipodi del classicismo artefatto e di maniera, ben più effettivamente volgare, con il quale la figura della donna sarebbe stata idealizzata nel decennio seguente dalla pittura nazista.

Antonello Negri
Inedito. 


5.02 OTTO DIX (UNTERMHAUS 1891-SINGEN 1969) Dedicato ai sadici [Sadisten gewidmet] 1922 acquerello, matita, penna e inchiostro nero su carta; cm 49,8 x 37,5 New York, Dr. and Mrs. Jerome and Elizabeth Levy

La versione più importante di questo soggetto è l’olio del 1925 Ungleiches Liebespaar della Galerie der Stadt di Stoccarda, dove una vecchia prostituta nuda, in stivaletti, è ghermita dalle mani ossute di un vegliardo in uno spasmodico, ultimo amplesso; in tutta la scena, dominata da un soffocante senso di morte, l’unico elemento vitale si direbbe l’improvvisa metaforica ventata proveniente dalla finestra aperta, che agita la chioma già orribilmente scarmigliata della donna. Del dipinto esiste una più piccola versione all’acquerello, mentre la composizione che qui si presenta ne rappresenta una variante, forse appena successiva. Più in generale, il tema della coppia di amanti ricorre nella pittura di Dix degli anni Venti accentuando, via via, il significato - di antica tradizione moraleggiante - di memento mori. Nella prima metà del decennio - si vedano il Ricordo della sala degli specchi a Bruxelles del 1920 della collezione Poppe di Amburgo e certe scene esoticamente ambientate del 1922-1923 - la coppia è di solito costituita da una prostituta e un militare, o un marinaio, in lavori che condividono un realismo spinto al limite della caricatura. Quando la coppia comincia a essere costituita da “vecchi” amanti, soprattutto dal 1923 in poi (come nei Vecchi amanti della Nationalgalerie di Berlino), il sopracitato senso allegorico prende il sopravvento, spostando il significato delle composizioni da un erotismo compiaciutamente osceno a un’immagine di decadenza fisica che si fa esplicita allegoria di morte. Indipendentemente dalle maniere di volta in volta seguite e dai soggetti, dopo la presa di potere nazista tutte le opere di Dix sono sequestrate dai musei tedeschi - solo la Nationalgalerie di Berlino ne conservava una quindicina, tra olî e acquerelli - e in parte esposte alla mostra Entartete Kunst del 1937 a Monaco.

Antonello Negri
Inedito. 


5.03 OTTO DIX (UNTERMHAUS 1891-SINGEN 1969) Coppia di amanti [Liebespaar] 1925-1926 acquerello, gouache e inchiostro di china su disegno a matita colorata; cm 74,7 x 57,4 New York, Dr. and Mrs. Jerome and Elizabeth Levy

Pinakothek der Moderne La grande allegoria dei Quattro elementi di Ziegler è stato il quadro moderno più visto - in una quantità di cartoline e riproduzioni - nella Germania nazista, dopo la collocazione di assoluto rilievo nella monacense Grosse Deutsche Kunstausstellung del 1937. Tale mostra, inaugurata da un discorso di Hitler nella monumentale “Casa dell’arte tedesca” di Monaco appositamente costruita, celebrava la nuova e pura arte nazionale, contrapposta agli orrori dell’“arte degenerata” delle avanguardie espressioniste e cubiste i cui prodotti, requisiti dai musei tedeschi, erano stati contemporaneamente raccolti in una famigerata esposizione monacense, organizzata dallo stesso Ziegler. Diventato professore di pittura all’Accademia di Monaco nel 1933, in concomitanza con la presa di potere nazionalsocialista, quindi presidente della Camera del Reich per le arti figurative e consigliere artistico di Hitler, nei suoi nudi femminili Ziegler dà forma agli ideali razziali del nazismo. In questa esemplare composizione, senza lasciar nulla all’immaginazione dell’osservatore, raffigura quattro nudi associati a fuoco, acqua, terra e aria che mostrano altrettante varietà della pura razza ariana. Il naturalismo del quadro - che dopo la mostra guadagna una posizione d’onore, sopra il camino, nel Führerbau di Monaco - è così esplicito da far coniare, per Ziegler, il soprannome di «Meister des Deutschen Schamhaares», “maestro dei peli pubici tedeschi”. I caratteri formali del dipinto, che ecletticamente combina naturalismo e pseudo-classicismo per rappresentare una scena fuori dal tempo e dalla storia, rientrano in pieno nelle tipologie di figurazione raccomandate dalla citata Camera del Reich, secondo la quale bisognava riprendere le “vecchie semplici e simpatiche forme stilistiche” nazionali (Brenner 1965, p. 100) contro i linguaggi artistici considerati antitedeschi, contaminati o prodotti da una cultura figurativa cosmopolita spregiativamente ricondotta alle etichette di “bolscevismo” e “giudaismo”. 
Antonello Negri 

Bibliografia 
Grosse Deutsche Kunstausstellung 1937, p. 7; Gross-Grossmann 1974, pp. 396-397; Golomštock 1990, pp. 250, 385; Kunst und Diktatur 1994, pp. 87, 172; Das XX. Jahrhundert 1999, p. 129, n. 82. 


5.04 ADOLF ZIEGLER (BREMA 1892-VARNHALT 1959) I quattro elementi [Die vier Elemente] ante 1937 tela; Terra e Acqua (pannello centrale) cm 171 x 190,8 Fuoco (pannello sinistro) cm 170,3 x 85,2 Aria (pannello destro) cm 161,3 x 76,7 Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen -Pinakothek der Moderne

Nel 1933 Cagli reclama Muri ai pittori dalle colonne di “Quadrante”: già dal 1927 si è dedicato a importanti imprese decorative, che lo vedono impegnato sul fronte di una reazione alla retorica del regime secondo una poetica che insiste sui temi del «primordio», per una pittura di «nuovi miti» in diretto confronto con precedenti illustri della grande tradizione italiana, da Paolo Uccello a Piero della Francesca. Le due grandi tavole in mostra fanno parte di un ciclo eseguito, con la collaborazione di Afro Basaldella, per il Padiglione Italiano all’Exposition Internationale des Arts et des Techniques di Parigi del 1937, collocato nel vestibolo o atrio d’onore al piano terra. La serie illustra in sequenza avvenimenti e luoghi della storia italiana: da Romolo che traccia il solco delle mura di Roma a Mussolini, ritratto a cavallo. Nei due pannelli Cagli rappresenta altrettante vedute oniriche di Roma, che ricordano un certo visionarismo scipionesco, attraverso una pennellata più fremente e mossa nei dettagli. Queste due scene monumentali costituiscono un «teatro di memorie» (Cagli e la “Scuola di Roma” 1985), creato da un montaggio di affastellati edifici della Roma non solo imperiale ma anche papalina, intervallati a comuni abitazioni: le casette in basso - come si possono vedere nelle fotografi e ante 1935 o 1936 - alludono alle demolizioni di Spina di Borgo per costruire via della Conciliazione. Si tratta di immagini compresse, sintetiche ma coerenti della città, secondo una verità più mnemonica che visiva. Nel primo pannello compaiono San Pietro in Vaticano con obelisco e colonnato berniniano e Castel Sant’Angelo, nel secondo San Giovanni in Laterano, il Colosseo, la Colonna Traiana, un angolo della chiesa del Santissimo Nome di Maria e una porzione più grande di Santa Maria di Loreto; sulla destra, il colonnato bianco appartiene al Vittoriano e, subito sopra, si riconoscono gli orti farnesiani sul Palatino, mentre l’edificio tra la cupola di Santa Maria di Loreto e l’elmo dorato è Palazzo Venezia. Sulle architetture si librano insegne imperiali che possono evocare i Trionfi di Cesare di Andrea Mantegna, con le loro esibizioni di labari e trofei. L’interpretazione di Cagli viene giudicata da molti troppo espressionista, poco celebrativa e irrispettosa della “romanità”: Galeazzo Ciano ne ordina la distruzione (non avvenuta), anticipando il clima di cambiamento di indirizzo politico successivo alle leggi razziali del 1938. Solo Nino Savarese, sulla “Gazzetta del Popolo” del 30 luglio 1937, apprezza l’impegno e la «sanità e vigore di temperamento» di Cagli confrontandolo col Raoul Dufy del coevo Pavillon de la Lumière nella stessa esposizione parigina: «Costretto, analogamente al pittore francese, a ritrarre persone della storia, non ha evitato di guardarle in faccia e non ci ha scherzato sopra». A mostra chiusa iniziano gli aspri attacchi antisemiti della destra fascista, che individua in Cagli e nel gruppo della Galleria della Cometa una situazione sovversiva. Su “Quadrivio”, nel novembre 1937, Giuseppe Pensabene lo accusa di alto tradimento contro i valori dell’italianità, mentre nel 1938, quando l’artista si è già trasferito a Parigi, Telesio Interlandi sul “Tevere” gli imputa di rappresentare le glorie della storia italica «secondo i valori primordiali dell’arte “moderna” disfattisticamente accomunandoli ai volti degli uomini delle caverne o dei minorati psichici».

Silvia Bignami
Bibliografia La Fondazione Cagli per Firenze 1979, nn. 30-31; Cagli e la “Scuola di Roma” 1985, p. 40, tav. 112a e 112b; Scuola romana 1988, pp. 112-113, n. 80; Piero della Francesca e il Novecento 1991, pp. 158-159; Cagli “L’Opera” 2007, pp. 76, 155, n. 18. 


5.05-5.06 CORRADO CAGLI (ANCONA 1910-ROMA1976) Veduta di Roma I (Trionfo di Roma, Veduta allegorica di Roma) 1937 tempera encaustica su tavola tamburata; cm 240 x 200 Roma, collezione privata Veduta di Roma II (Trionfo di Roma, Veduta allegorica di Roma) 1937 tempera encaustica su tavola tamburata; cm 240 x 200 Roma, collezione privata

La prima riproduzione fotografica del quadro uscì in “Valori Primordiali” (tavola XIX), nel febbraio 1938, insieme alle opere di Carrà, de Chirico, Ghiringhelli, Radice, Rho, Fontana, esempi dei moderni orientamenti della creazione contemporanea italiana. Successivamente furono ripubblicate, con scioccante capovolgimento di significato, da Telesio Interlandi sulla terza pagina di “Il Tevere” del 24-25 novembre, come prova del carattere degenerato di un’arte «straniera, bolscevizzante e giudaica». Il Caos fu scelta da Interlandi in ragione del titolo e per l’aspetto apertamente espressionista; ma non è da escludere l’allusione, in un passo dell’articolo, ad alcuni artisti di Milano e Torino, sottoposti al giudizio del Tribunale Speciale Fascista e alle vicende processuali di Birolli, incarcerato nell’aprile 1937. Lo scandaloso debutto dell’opera, nel 1938, fu seguito dalla sua pubblicazione nella monografia del 1941, curata da Sandro Bini per le Edizioni di Corrente. L’accoglienza del quadro fu comunque problematica e anche i critici più aggiornati erano disorientati nella lettura di un’opera così complessa ed enigmatica. A una agevole interpretazione e datazione del Caos non aiutano nemmeno le numerose occorrenze del titolo nei Taccuini del pittore. La citazione nel primo, infatti, non è coeva all’esecuzione del quadro, ma appartiene a un periodo successivo di rielaborazione degli scritti. Per l’analisi tematica, una prima considerazione andrebbe svolta prendendo in esame la serie di opere a cui Il Caos è collegato: da L’Età Felice a Eden. Per la cronologia è possibile ipotizzare una datazione parallela all’esecuzione dei disegni di Metamorfosi, usciti nel 1937 per le edizioni di Campo Grafico, però eseguiti nell’autunno-inverno 1936. La serie dei disegni sembra inserirsi in un dialogo serrato con il quadro: la roccia metamorfica da cui cadono i corpi, l’albero spezzato presente in due disegni scartati dall’edizione 1937 e i corpi schiacciati sul terreno ricordano l’immagine demoniaca di una valle in cui dall’alto di torri-montagne dei pipistrelli assistono alle trasmutazioni di uomini in animali. Nel marzo 1937 Birolli aveva scritto all’amico scultore Puglielli a proposito di Metamorfosi: «Sarà una cosa che ricorderà la mia pittura, leggermente acida cioè ma per ciò più attraente» (Archivio Birolli, Gabinetto G.P. Vieusseux , Firenze).

Paolo Rusconi
Bibliografia “Valori Primordiali“ 1938, tav. XIX; Birolli 1938, [n. 7?]; [Interlandi] 1938, pp. 1, 3; Bini 1941, pp. 25, 107; Biennale 1960, p. 39, n. 6; De Luca 1989, p. 144, n. 22; Somaschini 2009, pp. 136-137. 


5.07 RENATO BIROLLI (VERONA 1905-MILANO 1959) Il Caos 1936 olio su tela; cm 110 x 90 firmato in basso a sinistra «R. Birolli [936]» Milano, Collezione G. Iannaccone

I primi esperimenti non figurativi di Fontana hanno origine, a partire dal 1931, da una serie di tavolette graffi te su cemento colorato, che negli anni successivi si sviluppano in strutture aeree dai contorni variamente articolati. Costruiti in cemento colorato su un’anima di ferro secondo un doppio filone di ricerca formale - organico-fi tomorfi co e geometrizzante (Crispolti 2006, p. 48) - tutti hanno in comune la piattezza bifacciale, che li fa apparire come rilievi ritagliati dove grigio, nero e bianco hanno un forte valore coloristico, ribadendo l’orientamento policromo della parallela ricerca figurativa. Ne è un esempio l’opera in mostra, ricostruzione autografa, realizzata negli anni Cinquanta, di un originale (Crispolti 2006, 34 SC 12) andato disperso. Per il Fontana degli anni Trenta, grande sperimentatore lontano da ogni logica di schematica opposizione tra astratto e figurativo e da qualsiasi preoccupazione di esattezza matematica, queste opere, che trasformano la scultura in un disegno nello spazio, rappresentano una possibilità di arricchimento linguistico che il Fontana spazialista riprenderà negli anni successivi. Con esse l’artista si inserisce nel vivo della ricerca plastica europea d’avanguardia, a quell’epoca seguita con estremo interesse da quella milanese Galleria del Milione, dove le sue sculture astratte vengono esposte in una memorabile personale nei primi mesi del 1935. La ricezione, da parte del pubblico e della critica coevi, risulta tuttavia piuttosto problematica: a essere messa in discussione è la stessa possibilità di defi nire scultura questi «scheletri» - visti come l’opera di un artista «irrequieto» e «sfrenato» - che Leonardo Sinisgalli, in visita allo studio milanese di Fontana in via Lanzone, defi niva «un risultato di equilibrio involontario in cui le membrature venivano a pesare nell’insieme con gradi di libertà imprevisti da una legge di semplice armonia» (Sinisgalli 1934). 
Mariella Milan

Bibliografia
Lucio Fontana 1935 (versione originale); Apollonio-Argan-Masciotta 1960; Mostra del rinnovamento 1960, p. 49, n. 88; Tapié 1961; Aspetti dell’arte contemporanea 1963, n. 103; Biennale 1966, p. 18, n. 17, fig. 11; Arte moderna in Italia 1967, p. 321, fig. 1577; Ballo 1970, p. 54, fig. 56; Centenario di Fontana 1999, pp. 96, 341, n. I, 38; Crispolti 2006, 34 SC 13. 


5.08 LUCIO FONTANA (ROSARIO DE SANTA FÉ 1899-VARESE 1968) Scultura astratta 1934 (anni Cinquanta) ferro colorato su base in bronzo; cm 60 x 48 x 7 Torino, GAM - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, S/304

Entrato a far parte del gruppo gravitante intorno alla Galleria del Milione, Melotti s’inserisce nel vivo del dibattito sull’arte astratta. Dopo aver esposto nel marzo 1935 con Bogliardi, De Amicis, D’Errico, Fontana, Ghiringhelli, Licini, Reggiani, Soldati e Veronesi alla Prima collettiva d’arte astratta italiana, ospitata a Torino nello studio di Casorati e Paulucci, il 10 maggio dello stesso anno inaugura la sua prima personale al Milione. Vi presenta diciotto sculture pensate come “disegni nello spazio” e realizzate con materiali trattati in modo allora del tutto inconsueto: aste e fili di ferro nichelato e gesso, tipico della didattica e della sperimentazione ma qui levigato - mettendo a frutto la lezione di Wildt - fino a raggiungere la politezza del marmo. Nel testo in catalogo Melotti dichiara che l’arte si rivolge all’intelletto, non ai sensi, e che il culto della materia, la pennellata in pittura e la modellazione in scultura - «impronte digitali della personalità» - vanno sostituiti con la «modulazione», il canone, l’«occupazione armonica dello spazio», seguendo l’esempio dell’architettura greca, della pittura di Piero della Francesca, della musica di Bach. Le auree geometrie di Melotti che, appassionato di musica, trasferisce in scultura i principi dell’armonia e del contrappunto, sono, per il cugino Carlo Belli, «intollerabili per il Bernini, ma piacciono a Prassitele e all’autore del Partenone» (Belli 1935), mentre per Carrà, come per gran parte della critica italiana, si tratta di una ricerca «intelligente certo, ma non è scultura» (Carrà 1935). Della Scultura n. 11, il cui gesso viene esposto per la prima volta a Torino nel 1935 e poi alla personale al Milione, esistono, oltre a questo bronzo fuso intorno al 1960, tre rifacimenti d’autore eseguiti nel 1968. Il motivo della spirale aggettante sarebbe stato ripreso nella scultura realizzata per il ristorante Campari a Milano, progettato da Figini e Pollini nel 1937 e andato distrutto. 
Mariella Milan

Bibliografia 
Arte astratta italiana 1935, n. 36 (gesso); Belli 1935, p. 33 (gesso); Fausto Melotti 1935 (gesso); Barilli 1967, p. 278, n. 52; Melotti 1967, tav. IX; 15 maestri dell’astrattismo 1968; Fossati 1971, tav. 57; Celant 1994, p. 20, n. 1934 3; De Sabbata 2010, p. 193. 


5.09 FAUSTO MELOTTI (ROVERETO 1901-MILANO 1986) Scultura n. 11 1934 (1960 circa) bronzo; cm 76,5 x 70 x 15 Milano, Marta Melotti, 1934.3

Luciano Caramel Tra 1933 e 1934, quando “Quadrante” pubblica l’anticipazione di Kn e il dibattito sull’astrazione si intensifica, Rho lavora alle sue prime opere astratte, inaugurando il proprio percorso non figurativo nell’ambito del cosiddetto Gruppo Como. Avido lettore di riviste straniere - possedeva l’intera collezione dei Bauhausbücher - Rho, che lavora prima presso il Regio Istituto Nazionale di Setificio e poi alla Tessitura Serica Aliverti e Stecchini di Como, aggiorna la propria cultura visiva unendo l’interesse professionale a quello artistico. Dalla familiarità con gli studi cromatologici, con i processi di stampa e tessitura e con le indagini sui materiali, ricava «un senso di concretezza quasi didattica, un rifiuto di trasfigurazione lirica, un uso dei materiali che sia esperienza diretta sviluppo di una realtà esatta, di una precisione e ragionevolezza non aleatoria e non casuale» (Fossati 1971, p. 133). A ciò si aggiunge l’attenzione per il Léger di metà anni Venti, cui la Galleria del Milione aveva dedicato una mostra nel 1932, e lo studio sistematico delle ricerche grafiche e dei montaggi fotografici di László Moholy-Nagy, che per qualche anno resta un punto di riferimento fondamentale, sulla cui scia il comasco introduce nelle sue opere effetti di trasparenza. Dopo aver semplificato le composizioni a metà decennio, Rho indaga analiticamente, attraverso stesure uniformi e prive di matericità, effetti percettivi e articolazione nello spazio degli elementi geometrici e sperimenta equilibri sintattici più dinamici tra campiture cromatiche e geometriche di diversa ampiezza entro la costante di coordinate ortogonali, in una continua verifica di soluzioni già proposte. Frutto di un equilibrio asimmetrico costruito intorno a un asse verticale, l’opera in mostra - esposta per la prima volta nel 1937 a Como alla Mostra della Scuola Moderna di Milano e successivamente, nel 1939, alla III Quadriennale - è numerata in un primo tempo come 42 e poi rinominata dall’autore. 
Mariella Milan 

Bibliografia 
La pittura nella Scuola Moderna 1937, p. 87, n. 117, n. 22 (Composizione n. 42); Sartoris 1937, p. 40, n. 21; Quadriennale 1939, n 90; Fossati 1971, fig. 93 (Composizione 42); Anni creativi al Milione 1980, p. 100, n. 1; L’Europa dei Razionalisti 1989, p. 12; Caramel 1990, p. 98, n. 1936 11; Caramel 2003, pp. 84-85. 


5.10 MANLIO RHO (COMO 1901-1957) Composizione 43 1936 tempera su cartone; cm 53,5 x 42 firmato in basso a sinistra «Manlio Rho» Luciano Caramel

Dopo la formazione a Brera e una prima fase novecentista, che gli frutta nel 1927 il Premio Principe Umberto, nel novembre 1930 Ghiringhelli, insieme al fratello Peppino, fonda a Milano la Galleria del Milione, «una sorta di non autorizzata Centrale delle avanguardie» (Pica 1967), cui dal 1936 si dedica a tempo pieno abbandonando l’attività pittorica. Intorno al 1933, dopo un soggiorno in Libia - nel 1932 era a Tripoli come assistente di Achille Funi in un cantiere a fresco - Ghiringhelli lavora alle prime opere astratte: due Ricordi d’Africa, uno dei quali esposto alla V Triennale nella Villa-studio per un artista di Figini e Pollini. Nel 1934, insieme a Oreste Bogliardi e Mauro Reggiani, espone la sua produzione più recente in una mostra a tre al Milione, accompagnata da una Dichiarazione in catalogo. Firmato dai tre ma redatto da Ghiringhelli, il testo suscita qualche polemica - la critica dibatte sulla legittimità di un’arte che prescinda dalla rappresentazione dell’uomo -, manifestando l’aspirazione a una dimensione classica, «ad un certo clima mediterraneo», a un ordine e a un equilibrio geometrico, che la cerchia del Milione individua nei ritmi dell’architettura antica e di quella razionalista, così come nelle proporzioni auree dei maestri rinascimentali. Tra le opere esposte, la Composizione n. 7, inviata pochi mesi dopo anche a Torino per la Prima collettiva di arte astratta italiana, è giocata sull’accostamento di due forme. Il tema del doppio e del contrasto tra bianco e nero, tra positivo e negativo, sviluppa uno schema costruttivo di derivazione tardo-cubista molto diffuso nel vocabolario astrattista di quegli anni. Campiture schematiche e residui figurali, accanto a ripetizioni alla Léger e a impaginazioni kandinskiane, denotano una chiara componente dechirichiana nello «sdoppiamento di talune parti del quadro, come si procedesse a eco, oggetto e ombra che s’inseguono in uno spazio infinitamente ripetibile» (Fossati 1971, p. 141).
Mariella Milan

Bibliografia
Bogliardi Ghiringhelli Reggiani 1934; Prima mostra di arte astratta 1935, n. 26; Quadriennale 1965, p. 127; Biennale 1966, n. 22; Arte moderna in Italia 1967, p. 322, fig. 1584; 8 novembre 1934 1994, pp. 8, 21. 


5.11 GINO GHIRINGHELLI (VIRGINIO GHIRINGHELLI; MILANO 1898-SAN VITO DI CREMIA 1964) Composizione n. 7 1934 olio su tela; cm 73,5 x 60 Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, VAF-Stiftung, MART 3281, VAF 1435

Arrivato a Milano nel 1925, Reggiani si stacca gradualmente dai modelli novecentisti e, meditando sulle lezioni cézanniana e cubista - complici due soggiorni a Parigi - mette a punto, fra 1933 e 1934, le prime prove astratte. Dopo due anni di silenzio espositivo, i risultati della nuova ricerca sono proposti al pubblico della Galleria del Milione nel novembre 1934 con una mostra a tre insieme a Oreste Bogliardi e Gino Ghiringhelli. Seguono, nel 1935, diversi appuntamenti - dalla collettiva Abstraction-Création a Parigi alla II Quadriennale romana, alla Prima mostra collettiva di arte astratta italiana nello studio di Casorati e Paulucci a Torino - per un gruppo che intorno al Milione si progettava da tempo e si era pensato di chiamare “Kn” in omaggio al volume di Carlo Belli che “Quadrante” aveva pubblicato in anteprima nel 1933 (8 novembre 1934 1994). La Dichiarazione in catalogo, firmata dai tre artisti ma scritta da Ghiringhelli, richiama «un certo clima mediterraneo che è fatto di ordine e di equilibrio. Siamo perciò favorevolmente disposti a simpatizzare per il ciclo classico. Ma è evidente che non si tratterà mai né di archi né di colonne». La Composizione in mostra, pur non risultando tra quelle esposte al Milione, ben rappresenta le opere di Reggiani visibili in quell’occasione sulle pareti della galleria milanese. Se dall’anno successivo l’artista abbandona ogni «analogismo postcubista» (Reggiani 1973, p. 13) per approdare a soluzioni più tipiche della cultura neoplastica e concretista europea - una direzione di ricerca testimoniata dalla personale allestita da Reggiani al Milione nel 1936 e poi trasferita a Genova nella Galleria Genovese d’Arte di Stefano Cairola - qui si rileva ancora una sensibilità spaziale, cromatica e linguistica pienamente riferibile al cubismo sintetico e al vocabolario visivo tipico della natura morta, le cui scomposizioni e sovrapposizioni di piani a questa data sono ormai assurte a lingua franca internazionale. 
Mariella Milan

Bibliografia
Un secolo di arte italiana 2005, p. 133; Belli 2006, p. 48; Camera con vista 2007, p. 120. 


5.12 MAURO REGGIANI (NONANTOLA 1897-MILANO 1980) Composizione 1934 olio su tela; cm 70 x 50 firmato e datato in basso a sinistra «M. Reggiani / 34» Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, VAF-Stiftung, MART 1765, VAF 852

Nel 1939 Ricchetti partecipò al Premio Cremona sul tema «In ascolto di un discorso del Duce», con una grande tela ambientata in un interno contadino popolato da numerose figure, a rappresentare le diverse età della vita. L’opera si aggiudicò il primo premio e fu collocata nel Museo civico di Cremona. Alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, fu distrutta in spregio al fascismo: si salvarono soltanto l’ampio lacerto con Madre e figlio, qui esposto, una piccola natura morta e il volto di un balilla (entrambi in collezione privata). Dell’originale si conservano riproduzioni a colori, due studi preparatori (collezione privata) e un “bozzetto” (Cariparma) forse realizzato ex-post (Arisi 1997, p. 114). La tela piacque al re, al duce (Ambrogio 1940, p. 138) e all’umorale Ugo Ojetti, che la difese dai critici: «Arte vera? Per me sì. Lassù, in paradiso, v’è Giotto, Masaccio, Raffaello, Tiziano, Tintoretto, Veronese, Tiepolo, e tutti hanno dipinto scene del loro tempo e accettato i soggetti desiderati dai committenti. Quaggiù, v’è questo Ricchetti, spalla a spalla con noi. Vogliamo soltanto perché sta vicino a noi chiamarlo illustratore?» (Ojetti 1939). Talento assai precoce e versatile, consolidato da una pur sporadica frequentazione dell’Istituto Gazzola di Piacenza e dell’Accademia di Brera, Ricchetti si era segnalato alla Biennale veneziana del 1932 e alla Prima mostra interprovinciale sindacale emiliana del 1934, fi no a ottenere numerose commissioni a livello locale e nazionale nei generi più disparati, che coltivò poi fino alla morte: ritratto, paesaggio, natura morta, illustrazione, grande decorazione per chiese e palazzi e, saltuariamente, anche scultura. Nel frammento qui in mostra, che ben rappresenta (e fa rimpiangere) l’opera nella sua interezza, la costruzione plastica, la semplicità rurale e la forza emotiva richiamano la saldezza di certe Madonne del Rinascimento, in un personale connubio fra tradizione dei grandi maestri e innovazione d’avanguardia del Novecento. La tela fu donata nel 1978 da Armida Contini e Olivo Teragni alla Galleria, che di Ricchetti conta oggi altri sei dipinti e un ritratto in bronzo del fondatore. 
Alessandro Malinverni 

Bibliografia
Ambrogio 1940; Arisi 1967, pp. 21-24, fig. 38; Arisi 1978; Bernocchi 1983; Arisi 1996, p. 62, n. 18; Arisi 1997, pp. 113-115, nn. 240-247, figg. 240-244. 


5.13 LUCIANO RICCHETTI (PIACENZA 1897-1977) Madre e figlio (frammento di In ascolto) 1939 olio su tela; cm 182,5 x 102 Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi, inv. 746

Ritrattista caro alla borghesia lombarda, che dalla metà degli anni Venti ne apprezza l’adesione moderata - e dunque rassicurante - alle istanze novecentiste (Rebora 2004), nel 1935 Gaudenzi lascia Milano, dove nel 1931 aveva ottenuto un caloroso successo con la personale allestita nella Galleria Pesaro, e si stabilisce nella campagna ciociara di Anticoli Corrado, dove aveva già soggiornato a lungo dal 1910. La propensione dell’artista a un linguaggio solenne trova spazio nel 1940, quando partecipa alla seconda edizione del Premio Cremona - inaugurato alla presenza di Mussolini il 19 maggio nelle sale di Palazzo Affaitati - vincendo il primo premio di 50.000 lire con il grande trittico Il grano. Il tema del concorso, la «Battaglia del Grano», rientrava nel programma efficacemente riassunto dall’avvocato Tullo Bellomi - vicepresidente della giuria che doveva vagliare le opere inviate anonimamente dai partecipanti - in un discorso alla radio: «Primo: Chiamare gli artisti italiani a fare dell’arte ispirata a temi storici e politici [...] Secondo: Negare, almeno in questo campo, diritto di cittadinanza italiana alle deformazioni artistiche del vero, di marca e d’origine prevalentemente straniere» (Premio Cremona 1940, p. 8). Il «novecentismo fascista: forte, vigoroso, epico» auspicato da Farinacci si traduce nell’opera di Gaudenzi in una composizione magniloquente, i cui «tre pannelli ci conducono in un paese delle campagne dell’Italia del sud, dove i borghi sono poveri e dure sono le figure dei lavoratori e delle loro donne»; ma qualche voce critica accusa l’artista di aver «espresso la nota dolorosa, triste del lavoro, invece di cantare nella luce la gioia del raccolto» (Munaro 1940, p. 49). Gaudenzi guarda alla monumentalità classica della pittura tardo-rinascimentale, sfruttando l’intrinseca capacità del polittico - non a caso un formato molto presente tra le diverse opere in concorso - di valorizzare simbolicamente simmetrie e corrispondenze formali.
Mariella Milan

Bibliografia
Premio Cremona 1940, sala VIII, n. 50; Munaro 1940; Italienische Bilder 1940; Premio Cremona 1941; Gli anni del Premio Bergamo 1993, p. 130, n. 46. 


5.14 PIETRO GAUDENZI (GENOVA 1880-ANTICOLI CORRADO 1955) Il grano 1940 circa pittura murale su intonaco applicato su masonite; cm 249 x 434 firmato in basso a sinistra nel pannello centrale «Pietro Gaudenzi» Cremona, Sistema Museale della Città di Cremona Museo Civico “Ala Ponzone”, inv. 486

Nel 1942, in occasione del IV Premio Bergamo, Guttuso espone una delle opere più emblematiche e caratterizzanti della prima maturità del suo percorso d’artista, la Crocifissione, che suscita notevoli polemiche specialmente per l’originale impianto prospettico, con il Cristo non al più centro della composizione e parzialmente coperto dalla figura di uno dei due ladroni. Questo disegno è il primo studio preparatorio eseguito per la grande tela. La struttura complessiva del bozzetto è sviluppata da Guttuso secondo una modulazione concitata ma calibrata, che si avvale di poche note cromatiche e dispone i personaggi in posizioni precisamente determinate, come in una pièce teatrale. La figura di Cristo è già collocata in secondo piano, in parte coperta dal ladrone e tracciata con un segno sottile. Particolare attenzione viene riservata alle figure campite in primo piano, caratterizzate da un tratto marcato, risultato di una ricerca di stile che vede il cubismo come principale modello di riferimento. «Il Cubismo era per Guttuso, in questi anni, un termine ideale di riferimento per legittimare una libertà di organizzazione pittorica del dipinto, liberamente anticonvenzionale in senso […] antiformalistico» (Crispolti 1983). Essendone il primo studio compositivo, il disegno presenta importanti differenze rispetto alle versione definitiva della Crocifissione. Traendo spunto dal dipinto Crocifissione in una stanza - che Crispolti data al 1938-1939 e considera la prima elaborazione formale del tema - Guttuso concepisce questo studio all’interno di uno spazio claustrofobico: ricorrendo all’immagine di un interno angusto, chiuso da muri e porte sbarrate, l’artista siciliano ricerca e ottiene quel senso di oppressione corrispondente alla principale urgenza, politica e morale, dell’opera. «La prima idea, che non ebbi il coraggio di condurre a fondo, era di rappresentare la Crocifissione in una stanza […] così come avvengono i supplizi oggi» (Nozza 1964). 
Valentina Raimondo 

Bibliografia
Guttuso 1963, n. 39; Nozza 1964; Arte e Resistenza 1965, n. 3; Crispolti 1970; Guttuso 1971, n. 39; Guttuso 1982 (opera esposta ma non presente in catalogo); Crispolti 1983, pp. CXLVI-CXLVII, 108; Guttuso 1984, p. 181, n. 2; Guttuso 1985, p. 46, n. 21; Gott mit Uns 1987, p. 72, n. 107. 


5.15 RENATO GUTTUSO (BAGHERIA 1911-ROMA 1987) Studio per la “Crocifi ssione” 1940-1941 tempera e olio su carta intelata; cm 90 x 80 intitolato e datato sul verso: «Guttuso bozzetto crocifi ssione 1940 (studio di via Pomegnano)» Archivi Guttuso

L’opera è presentata alla quarta edizione del Premio Bergamo, che prevede il tema libero per i dipinti ma l’assegnazione di un premio specificamente destinato alla composizione con figura. De Amicis ha già partecipato alle edizioni precedenti attirando su di sé le attenzioni prevalentemente positive della critica, se si esclude il feroce commento di Ojetti all’opera I bevitori presentata nel 1940 (Ojetti 1940), cui fa seguito la distruzione del dipinto da parte dell’artista, dopo l’esposizione. In questa Figura, un ritratto della moglie Maria Lavezzari, De Amicis rivela l’equilibrio che la sua pittura raggiunge fra gli anni Trenta e i Quaranta, dopo l’esperienza espositiva europea di Novecento e l’avvicinamento al razionalismo architettonico con prove nell’ambito dell’astrattismo pittorico, riuscendo a mediare fra una solidità dei volumi che rimanda alla lezione di Cézanne e un’attenzione per il colore frutto di una personale riflessione sul postimpressionismo di Van Gogh. Al modello offerto da Van Gogh, cui guardano in quegli anni non pochi giovani anche per reazione alle maniere novecentiste, è riconducibile la pennellata materica ed estremamente libera, mentre il taglio compositivo dell’immagine, la posa della figura (nella quale si avverte però ancora una volta l’eco di Cézanne e dello stesso Van Gogh) e la qualità decorativa della carta da parati sullo sfondo ricordano certi lavori di Matisse. Nonostante l’indubbio interesse per l’esperienza francese, De Amicis mostra anche nel colore la scelta di una sobrietà tonale che, anche all’interno del gruppo del chiarismo lombardo, fa emergere l’originalità della sua interpretazione, frutto di un’elaborazione individuale dei modi pittorici contemporanei volta al superamento di qualsiasi stilema, in vista di un risultato improntato a un forte senso della misura capace di disciplinare emozione e concezione costruttiva. 
Silvia Vacca

Bibliografia
Premio Bergamo 1942, p. 33, n. 70, tav. 40; Torriano 1942, p. 16; Salerno 1958; De Amicis 1988, tav. 9; Galmozzi 1989, p. 53; Gli anni del Premio Bergamo 1993, p. 202, n. 118; Documenti del Premio Bergamo 1993, p. 181; De Amicis 2003, p. 66. 

5.16 CRISTOFORO DE AMICIS (ALESSANDRIA 1902-MILANO 1987) Figura 1942 olio su tela; cm 93 x 73 firmato e datato in basso a sinistra «De Amicis 42» Archivio Cristoforo De Amicis

L’opera di Afro vince uno dei premi aggiunti dal Segretario Federale Gino Gallarini nel corso della quarta edizione del Premio Bergamo nel 1942, per la precisione il sesto premio di 2.500 lire, ex aequo insieme ad altri quattro dipinti. Afro la presenta all’esposizione insieme a due altre opere, Natura morta e Paese: è l’ultima edizione della manifestazione bergamasca, che vede fra i premiati altre figure che saranno di spicco nell’imminente nuova stagione dell’arte italiana come Francesco Menzio, Renato Guttuso e Renato Birolli. In questo dipinto di Afro è evidente il rimando a La sedia di Gauguin di Van Gogh, un soggetto affrontato anche da altri artisti, come Migneco; la stessa qualità materica della pennellata del Seggiolone richiama l’esempio dell’artista olandese, mentre il colore, dai toni caldi, di matrice tradizionalmente veneta, giocato su sapienti accordi ma anche su insistite dissonanze, e l’evidente deformazione dei contorni, mostrano l’adesione a quei modi espressionistici neoromantici condivisi da molti pittori della Scuola romana presenti al Premio Bergamo. D’altra parte, la scelta del soggetto, una sedia vuota, evidenzia il valore evocativo della pittura di Afro, il riferimento alla memoria, caricato di una dimensione dolente di solitudine, di ricordo di un’assenza. La stesura del colore in ampie campiture cromatiche, che vengono tuttavia fratte in porzioni più piccole, in continue variazioni, mostra infine la svolta della sua maniera fra la fine degli anni Trenta e i Quaranta, quando la sua ricerca si orienta verso un’originale forma di sintetismo. 
Silvia Vacca

Bibliografia: Podestà 1942, p. 396; Premio Bergamo 1942, p. 31, n. 56; “Voce di Bergamo” 1942; Eco di Bergamo 1942; Radius 1942; Angiolini 1942; Lelij 1942; Guzzi 1942, p. 349; Ponti 1942; Afro 1987; Galmozzi 1 989, p. 30; Afro 1992; Gli anni del Premio Bergamo 1993, p. 197, n. 113; Documenti del Premio Bergamo 1993, p. 122; Afro 1997, p. 58, n. 114. 


5.17 AFRO BASALDELLA (UDINE 1912-ZURIGO 1976) Il seggiolone (La sedia) 1942 olio su tela; cm 63 x 50 firmato e datato in basso a destra «Afro. 942» Collezione privata. Courtesy Fondazione Archivio Afro

L’edizione del 1941 del Premio Bergamo vede per la prima volta introdotto il tema libero per il concorso, che mantiene però due premi principali destinati al paesaggio e alla figura; proprio quest’ultimo di 20.000 lire, il più importante, viene assegnato al Ritratto di Mario Marcucci. La decisione della giuria solleva qualche obiezione da parte della critica, perché ritenuta una sorta di compromesso volto a sedare le polemiche e le contrapposizioni dell’anno prima per la premiazione di artisti come Mafai e Guttuso, del tutto lontani dal clima Novecentista ancora imperante in altre manifestazioni artistiche. La scelta del 1940 dichiarava infatti l’intenzione della mostra bergamasca di proporsi come vetrina delle tendenze più aperte e innovatrici dell’arte nazionale, rappresentate da tanti “giovani”. Il quadro di Marcucci non è ritenuto da tutti il miglior dipinto di figura fra quelli esposti e, nonostante il riconoscimento delle qualità dell’artista, il giudizio di Mandelli, che avvicina il suo stile a modi di tradizione ottocentesca, è condiviso da diversi critici: «un dipinto di fine intonazione dove si può notare un palpito di vita anche se tuttavia non vediamo in quest’opera quella “nobiltà di esecuzione e di stile” citata come una delle cause dell’assegnazione [del premio]». La scelta di Marcucci per il conferimento del riconoscimento più importante della manifestazione è comunque dovuta, come ricorda Manlio Cancogni in un recente colloquio con chi scrive, soprattutto alle pressioni esercitate in giuria da Ottone Rosai, artista diverso da Marcucci, ma in grado di riconoscerne il profondo talento. Al di là di queste considerazioni, l’opera di Marcucci, autodidatta e di origini popolari, rivela già quelle caratteristiche che lo porteranno in breve a essere uno degli artisti di nuova generazione più amati dagli scrittori (fra tutti Montale). La sua pittura fatta di raschiature che mostrano la tela sottostante e di velature, capace di incrociare l’esempio di Morandi con la partecipazione emotiva di Viani, riesce a restituire attraverso il colore la realtà interiore dei soggetti raffigurati. 
Silvia Vacca

Bibliografia
Premio Bergamo 1941, n. 10; “Corriere della Sera” 1941; “Rivista di Bergamo” 1941, p. 254; “Il Giornale Italia” 1941; “Il Messaggero” 1941; Bernardi 1941; Ronchi 1941; Mazzafionda 1941, p. 20; “Lavoro” 1941; “Il Regime fascista” 1941; Pata 1941; Mandelli 1941, p. 7; Podestà 1941b, p. 31; Calzini 1941, p. 51; Almanacco Bompiani 1942, p. 242; Galmozzi 1989, p. 81; Documenti del Premio Bergamo 1993, p. 234. 


p. 58, n. 114. 5.18 MARIO MARCUCCI (VIAREGGIO 1910-1992) Ritratto 1932 olio su tela; cm 43 x 34 Collezione privata

Pastori dell’isola viene presentato alla seconda edizione del Premio Bergamo, che ha come tema per i dipinti «due o più figure umane legate insieme da un unico tema compositivo». Il concorso, che ha dovuto resistere al tentativo di riportare i soggetti nell’ambito di un classicismo di maniera attraverso l’introduzione del discrimine mitologico o legato alla storia di Roma, vede alla fine premiate opere delle tendenze artistiche più libere e nuove, come quelle riferibili al gruppo milanese di Corrente e alla Scuola romana. Il successo dell’esposizione è sancito dal suo prolungamento fino a dicembre, con lo spostamento da un centro periferico come Bergamo a Milano, nel Palazzo della Permanente, per volere del ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, e con il parere favorevole degli ispettori centrali del Ministero, Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi. Proprio dal Ministero dell’Educazione Nazionale nel 1941 l’opera viene acquistata e destinata alla galleria d’Arte Moderna di Roma. Nei Pastori dell’isola l’artista, fra i fondatori del gruppo di Corrente, mostra quella realtà siciliana quotidiana e popolare che sarà soggetto costante della sua pittura anche negli anni successivi. I suoi modi sono ora improntati a un espressionismo arcaico e a una deformazione formale che, insieme alle accensioni cromatiche, richiamano alla mente il linguaggio di Van Gogh, che per tanti giovani - si pensi in primo luogo a Birolli - costituisce un modello di pittura alternativo all’ufficialità del tempo, tanto classicista quanto futurista. La violenza espressiva di questo Migneco - sostenuta dai toni acidi ed esasperati dei verdi e dei gialli e dalla dinamica dei neri - verrà irreggimentata, dopo la guerra, da una griglia di pennellate scure e costruttive volte a contenere il colore come in una ragnatela di contorni.
Silvia Vacca

Bibliografia
“La Voce di Bergamo” 1940; Premio Bergamo 1940, a Bergamo n. 19, a Milano n. 86; ”Il Resto del Carlino” 1940; “Primato” 1940; Galmozzi 1989, p. 98; Gli anni del Premio Bergamo 1993, n. 86, p. 170; Documenti del Premio Bergamo 1993, p. 251.


5.19 GIUSEPPE MIGNECO (MESSINA 1908-MILANO 1997) Pastori dell’isola 1940 olio su tela; cm 70 x 91 firmato e datato in basso a destra «Migneco 40» Roma, GNAM - Galleria Nazionale d’Arte Moderna, inv. 3979

Nel 1941, questa Natura morta di Morlotti si aggiudica uno dei dieci premi di secondo grado, corrispondenti a 5.000 lire, alla terza edizione del Premio Bergamo. Presentato dall’artista al concorso insieme ad altre due opere, un nudo e una seconda natura morta, il dipinto arriva a Torino, come acquisto, nel 1957. Giovanni Testori, nel 1952, ne scrive in questi termini: «Vi si leggeva un amore non retorico, per qualcosa che, in quel relitto, malgrado tutto, continuava a persistere, e una spinta (certo non ancora cosciente) a cavar da quella solitudine […] un simbolo». Tale lettura permette di comprendere il carattere particolare dell’adesione di Morlotti al gruppo di Corrente, dato che la sua produzione d’allora si allontana dai modi più marcatamente espressionisti degli altri esponenti del movimento, per avviare invece una riflessione sulle potenzialità espressive dell’oggetto, in questo caso un frammento scultoreo, in chiave si direbbe già quasi esistenzialista. Il dipinto presentato a Bergamo fa parte di una serie di nature morte, realizzate a partire dal 1940, in cui la composizione rivela una chiara ascendenza morandiana e suggestioni metafisiche; ma l’intensa matericità del colore, volutamente mantenuto sobrio e abbassato, rimanda a istanze differenti, soprattutto legate alla riflessione sull’opera di Picasso. In particolare, la Natura morta qui proposta, con la presenza del gesso raffigurante una testa di bue, sembra anticipare l’esito pienamente picassiano della Natura morta con bucranio del 1943. Il dipinto riconduce a un’immagine tragica del reale attraverso la decontestualizzazione di un banale oggetto di studio, un gesso d’accademia, che da silente frammento di realtà diviene simbolo e sorta di estrema testimonianza di una civiltà in pezzi di fronte ai disastri della guerra. 
Silvia Vacca

Bibliografia
“Giornale di Sicilia” 1941; Premio Bergamo 1941, p. 40, n. 70; Testori 1952, p. 21; Rebesco 1986, p. 44, n. 42; Galmozzi 1989, p. 102; Gli anni del Premio Bergamo 1993, p. 187, n. 103; Documenti del Premio Bergamo 1993, p. 264; Tassi-Pirovano 1993, p. 49, tav. 15. 


5.20 ENNIO MORLOTTI (LECCO 1910-MILANO 1992) Natura morta 1941 olio su tela; cm 48,5 x 68,5 Torino, GAM - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, P/1560

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.