Questa sorta di “oltranza”, questo desiderio di totalità, lo porta ad uccidere la splendida armonia che riusciva a sprigionare sulle sue tele, “e nulla di chiaro e di vivo veniva più dalle sue dita”. Persino la stupenda donna nuda che egli ha dipinto in una sorta di Déjeneur sur l’herbe che ricorda proprio Manet, gli appare - come la donna raffigurata da Porbus a Frenhofer nel Capolavoro sconosciuto di Balzac - una “macchia vaga di cadavere, carne di sogno evaporata e morta” (pp. 53 e 57). Anche la carne di Olympia era sembrata ai critici “carne morta”. Lantier a questa non contrappone un corpo vivo, ma un corpo che non è più un corpo. La sua donna nuda, come vedremo, è infatti un immenso simbolo: un’immagine totemica.
Finalmente giunge il momento della “tela immensa”, “l’abbozzo magistrale, uno di quegli abbozzi in cui fiammeggia il genio nel caos non ancora disbrogliato dei toni” (p. 235). In un primo tempo dipinge una chiatta con degli operai al lavoro nell’Île de la Cité, che sono poi sostituiti da tre bagnanti, “la terza ritta, nuda sulla prua, di una nudità così splendente che raggiava come un sole”. Sandoz, l’amico scrittore, il naturalista, Zola stesso, non capisce il senso di questa rappresentazione che sembra tradire i dettami della loro teoria. Claude non sa rispondere. Questo può solo dire, che egli “ha bisogno di questo” (p. 235). Sandoz, nei giorni seguenti, cerca di convincere l’amico che questa “strana composizione” è un “oltraggio alla logica”, allo spirito di un pittore moderno, “che si piccava di dipingere solo la realtà” e che invece “imbastardiva un’opera introducendovi simili immaginazioni”. Claude si ostina, non riesce a confessare “il tormento di un simbolismo segreto, questo vecchio rigurgito di romanticismo, che gli faceva incarnare in questa nudità la carne stessa di Parigi”.
La sua figura, di mese in mese, di anno in anno, attraverso mille ripensamenti e rifacimenti, cresceva.
La grande figura nuda [...] aveva uno splendore, una crescita allucinatoria di una strana e sconcertante falsità nel mezzo delle realtà vicine (p. 259).
Christine, la sua compagna. lo vede dipingere ancora, come se la accarezzasse, con un sorriso fisso sulle labbra, la sua “donna nuda”, con una candela in mano, incurante di tutto, mentre sul muro si stagliano membra mescolate, “come in un accoppiamento brutale”.
Ed egli dipingeva il ventre e le cosce, come un visionario in delirio, gettato dal tormento del vero nell’esaltazione dell’irreale; e quelle cosce si doravano in colonne di tabernacolo, quel ventre diventava un astro splendente di giallo e di rosso puri, splendido e al di fuori della vita. Una nudità strana da ostensorio, che sembrava rilucere di gemme per una qualche adorazione religiosa.
Claude non risponde all’appello di Christine. Si abbassa e intinge il pennello per far “fiammeggiare gli inguini, che sottolineò con due tratti di vivo vermiglio” (p. 343). Christine allora lo assale. Claude sembra destarsi da una sorta di sogno allucinatorio. “Chi aveva dipinto quell’idolo di una religione sconosciuta [...], la rosa mistica del suo sesso tra le colonne preziose delle cosce, sotto la volta sacra del ventre”, quell’immagine che diventava sempre più preziosa “nello sforzo vano di farne della vita”. Alla fine Christine entra un mattino nello studio e vede Claude impiccato di fronte “alla sua opera mancata”, il viso girato verso la Donna “dal sesso fiorito di una rosa mistica”, come se egli “la guardasse ancora con le pupille fisse” (p. 352).
Claude è arrivato all’irrappresentabile? Ha sfiorato l’invisibile, oppure ha fallito, come crede la moglie, come credono i suoi pochi amici che lo accompagnano al cimitero, e come in fondo ha creduto lui stesso? Bongrand, che a mio giudizio rappresenta nel romanzo Gustave Flaubert, davanti alla tomba afferma di sentirsi preso da un sentimento della fine. “Crepo di tristezza,” dice, e “sento che tutto crepa... Sì, l’aria dell’epoca è cattiva, questa fine di secolo ingombra di demolizioni, dai monumenti sventrati, con i terreni rivoltati cento volte, che esalano tutti un odore di morte.” Mai, prosegue Bongrand, “ci si è tanto tormentati e mai si è veduto meno chiaro come il giorno in cui si è preteso di vedere tutto”. Sandoz risponde a bassa voce, come tra sé: “Non siamo alla fine, ma siamo all’inizio di un’altra cosa”, a meno che “la follia non ci spinga nel buio”.