il segreto di manet

L’Olympia svela ai nostri occhi il segreto di Manet. Questo è interamente svelato soltanto nell’Olympia, ma una volta scoperto ne troveremo ovunque le tracce. 
Georges Bataille 

Ma se è vero che il segreto iniziale di Manet traspare in questa Olympia che duplica una Venere del Rinascimento, forse si scopre un segreto più profondo, che le stecche del ventagliodissimulano, ma per meglio rivelarne la profondità. 
Georges Bataille 
1.Il vicolo cieco del mistero è solo in apparenza cieco. Non è un buco nero, l’implosione del senso, la perdita del mondo e del soggetto. È l’affacciarsi di una verità di cui non possiamo tracciare netti contorni, ma di cui non possiamo fare a meno. Cerchiamo di penetrare dentro questa dimensione insieme a Maurice Blanchot, che ha scritto ne Lo spazio letterario,3 che dall’opera d’arte si sprigiona l’aura di un’assenza di tempo. L’assenza di tempo è di fatto ciò che definisce lo spazio della morte, che è ciò che l’artista - secondo Blanchot - con la sua opera cerca di raggiungere. Ci sarebbe dunque una taciuta e nascosta intimità tra l’opera e la morte? La morte è di fatto la fine del tempo, del nostro tempo, ma se l’opera si pone nello spazio dell’assenza di tempo, l’opera pone paradossalmente se stessa e l’artista nella condizione di non poter morire. L’assenza di tempo è il tempo della morte, ma è anche inevitabilmente il tempo in cui nulla può più avvenire, nemmeno la morte. Stare dunque in prossimità alla morte, senza mai possederla, è l’esercizio dell’arte, come Blanchot ha detto della letteratura, che sembra proporsi come la conquista di “un diritto alla morte”.4

2. sempre, quando ci si avvicina a un grande artista, o a un artista che ci è sconosciuto, e si comincia a decifrarne i tratti, a entrare nelle sue opere e a dialogare con le sue figure, si impara a vedere. S’impara a scorgere l’enigma che l’opera, che ogni opera nasconde. L’essenza del sorriso della Gioconda, ha scritto Marina Cvetaeva in Indizi terrestri,5 è l’inesorabilità dell’interrogativo che questo sorriso propone. È l’interrogativo stesso che costituisce “l’assoluto della sua risposta”. Qui è dato “il Mistero, il mistero come essenza e l’essenza come mistero. È dato il mistero in sé”. Il sorriso della Gioconda è dunque l’enigma che questo stesso sorriso esprime, un enigma che non ha soluzione, e che ogni volta si ripropone in quanto tale. Nelle parole di Cvetaeva sembra di avvertire l’eco di Joseph Conrad, che apriva Cuore di tenebra,6 ricordando che “il racconto assomiglia a quegli aloni indistinti che talvolta la spettrale luce della luna rende visibili”. Una luce che illumina e rende visibile l’indistinto, il buio, l’enigmatico. Con essi concorda anche Theodor W. Adorno, che in Teoria estetica7 afferma che tutte le opere d’arte sono enigma. Lo è anche l’arte nel suo insieme, che dice qualcosa nel momento stesso in cui lo nasconde. Questo carattere enigmatico “sopravvive all’interpretazione” che anzi, quando è autentica interpretazione, dà appunto “ragione all’insolubilità” dell’enigma che l’arte propone. Ogni grande opera sembra paradossalmente pretendere la sua interpretazione con la stessa forza con la quale la respinge. Questo ci insegnano le grandi analisi adorniane di Kafka, di Beckett, della musica moderna. Non spiegano, ma dialogano anche conflittualmente con la complessità e il mistero che le opere propongono. Detto questo cerchiamo comunque di avvicinarci non certo a una spiegazione, ma al luogo dell’enigma, dell’enigma di Manet. Dobbiamo cercare di percorrerne i margini e - se è possibile, se è giusto - porci a guardia dei suoi confini.

3. Credo che ciò che in primo luogo mi ha colpito nei quadri di Manet siano gli occhi e gli sguardi dei suoi ritratti, che provocano, come dice Bataille, un malaise, una sensazione di malessere,8 come lo sguardo obliquo dell’Innocenzo X di Velázquez, o come gli occhi delle figure di Pontormo o come gli sguardi perduti in Une baignade à Asnières di Georges Seurat. Cosa, o chi, o dove guarda la donna in primo piano del Déjeuner sur l’herbe, dove guardano la donna di Olympia o Berthe Morisot ne Le balcon, o ancora la donna de Le chemin de fer, e infine la donna che sta al banco del Bar aux Folies-Bergère?

 
Émile Zola si è preoccupato di sottolineare l’intelligenza, la grazia e il carattere tranquillo di Manet, uomo che “mostra nei suoi modi e nella voce la più grande modestia e la più grande dolcezza”.9 Zola ripete lo stesso giudizio in un saggio di qualche anno successivo e aggiunge “l’artista mi ha confessato che adora la società e che prova profondo piacere nelle delicatezze profumate e luminose delle serate mondane” (p. 94). Zola, evidentemente, cercava di tranquillizzare e sedare l’accanimento che accompagnava ogni esposizione di Manet. Bataille (Manet, p. 27) - confermando il carattere tranquillamente borghese di Manet - parla anche di una imbarazzante timidezza morale che fa sì che egli, Manet, presentando nel 1867 l’esposizione che lui stesso aveva organizzato delle sue opere in Place de l’Alma, affermi, in terza persona, “che M. Manet non hai mai voluto protestare [...] e non ha avuto la pretesa di rovesciare la pittura del passato né di crearne una nuova”. È come se Manet avesse un lato luminoso e tranquillo da esibire e un’inquietudine, che si è celata nell’opacità di quegli sguardi, quello dell’Olympia, o quello di Berthe Morisot, in cui, come scrive Roberto Calasso, “è possibile intravedere il lato oscuro, lacerato, abissale di Manet”.10

4. Abbiamo parlato di malessere, disagio, di una inquiétante étrangeté, vale a dire di quello stato psichico che Sigmund Freud ha studiato in un formidabile saggio del 1919, Das Unheimliche che, insieme a Al di là del principio di piacere, apre la via alla più audace speculazione teorica di Freud, tanto audace che turba e sconcerta anche gli stessi suoi allievi.11 Il saggio è stato tradotto in italiano con il titolo Il perturbante. La traduzione più esatta sarebbe “spaesamento”, un sentimento che ci spinge in una zona di incertezza, che in qualche modo ci esilia dalle nostre più consolidate abitudini mentali. È una coincidenza, anch’essa in qualche modo sconcertante, che il saggio di Freud ruoti intorno all’analisi di un racconto di E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, certamente conosciuto da Baudelaire e certamente anche da Manet.12 L’uomo della sabbia sarebbe, secondo il racconto della vecchia nutrice del protagonista Nathanael, l’uomo che getta della sabbia negli occhi dei bambini finché questi cadono. Freud sottolinea il rapporto tra gli occhi strappati e il timore della castrazione. Ma c’è però un altro aspetto del racconto, che Freud sfiora e non approfondisce. Nathanael s’innamora della figlia di uno scienziato, Spallanzani. S’innamora di Olympia, dal viso angelico ma con occhi che avevano “qualcosa di rigido”, come non vedesse, come dormisse con gli occhi aperti. (Hoffmann, p. 37). Quegli occhi “stranamente morti e fissi”, occhi che riflettevano una pallida luce lunare, sono gli occhi di una bambola, di una mummia (pp. 47-51).


Nel vasto catalogo delle ingiurie, che hanno accompagnato e commentato l’esibizione pubblica dell’Olympia di Manet al Salon 1865, c’è anche questo. Olympia è una bambola inanimata.13 Comunque a questa immagine si avvicina anche Paul Valéry in un saggio di straordinaria penetrazione, Trionfo di Manet, su cui torneremo, quando scrive: “La sua testa [di Olympia] è vuota: un filo di velluto nero la isola dall’essere del proprio essere”.14 Un essere privato del suo essere. Non più umano, non più animale. Inanimato. Una bambola, appunto. 

5. Esiste una malia Manet, ed esiste una mania Olympia, che ha portato molti davanti a questo quadro, fin dall’inizio, in una sorta di sconcerto e di furia distruttiva. Nel catalogo degli insulti, accuratamente esposto da T.J. Clark nel secondo capitolo del suo The Painting of modern life,15 emergono ben tre enigmatici riferimenti alla morte. Un critico che si firma Ego, su Le monde illustré parla di Olympia con il corpo che “ha il colore livido di un cadavere esposto alla morgue”. Anche Fournel Geronte parla di un cadavere esposto all’obitorio, come un altro critico ancora, Saint Victor, quando afferma che “la gente si affolla come alla Morgue davanti all’Olympia in stato di decomposizione”.


Questi giornalisti paradossalmente hanno colto qualcosa facendo trasparire nelle pieghe dell’insulto un’oscura intuizione, se anche oggi Philippe Sollers in un libro del 2008, Les folies françaises, parla della cameriera di Un Bar aux Folies-Bergère, che posa le mani su un banco, forse di marmo, che è “come un tavolo da obitorio”.16 Una donna che ha una assoluta “intensità di assenza” (Sollers, L’Éclarcie, p. 100), quella stessa assenza che è la cifra profonda e mortale di Olympia, la star, la maga, come dice ancora Sollers, “che continua la sua opera al nero” (L’Éclarcie, p. 31). Un lavoro al nero che travaglia un’opera di Michel Leiris, fatta di appunti, riflessioni, annotazioni di vario genere, affiorando nelle sue pagine con l’insistenza di un interrogativo irrisolto, che continua a ripresentarsi e a tormentare con il suo pungolo, tanto che Olympia deve apparire anche nel titolo del suo libro che non è un libro su Manet: Le ruban au cou d’Olympia.17

L’inquietudine suscitata da Olympia risale al Déjeuner su l’herbe, e si prolunga nel nero abissale degli occhi di Berthe Morisot, nel quadro Le balcon. Quel nero che attrae a sé, nella sua cupa e al tempo stesso placida indifferenza, nell’assenza che esso denuncia e che condanna all’insignificanza le due altre figure che le stanno accanto. È Le balcon il quadro su cui si poseranno gli occhi di Paul Valéry, nel Trionfo di Manet, quasi a sfuggire “all’orrore sacro” che si sprigiona da Olympia, ma affacciandosi così su un’altra dimensione del segreto di Manet. 

6. Pierre Bourdieu è evidentemente preso dal fascino inquietante di Manet e della sua opera, se a Manet ha dedicato due anni dei corsi al Collège de France, pubblicati in un ampio volume, Manet. Une revolution symbolique.18 In esso è compreso anche un suo esteso tentativo di saggio, Manet l’hérésiarque, tracce di “un’opera senza fine”, come afferma Christophe Charle che ne ha curato l’edizione nel contesto del volume complessivo. Manet, la cui opera, la cui “eresia”, spezza l’ordine simbolico esistente, si spinge, secondo Bourdieu, oltre il limite. Déjeuner sur l’herbe è, per Bourdieu, “una bomba simbolica” (p. 60) che ha effetti paragonabili ad una “rivoluzione religiosa” (p. 549). Bourdieu, dopo due anni di corso, e le quasi ottocento pagine del volume dedicato a Manet, sembra rimanere sulla soglia di quello che potremmo definire il segreto di Manet. La preoccupazione, che è stata anche di Clark, di Michael Fried o di Françoise Cachin e persino di Michel Foucault, di fare di Manet l’inventore della pittura moderna, gli ha impedito di andare più a fondo. L’ansia di storicizzare, di inseire Manet nella rottura dell’accademismo, d’altronde in gran parte già operata da Delacroix e da Courbet, e prima ancora da Ingres, e di farlo precursore e poi membro del gruppo degli impressionisti, ha fatto sì che il suo mistero rimanesse, da lui come da molti altri critici e storici, inindagato. Georges Bataille, nel breve saggio del 1955, che abbiamo ricordato più sopra, secondo Sollers (L’Éclaircie, p. 30) va al cuore di questo mistero costituito dall’“indifferenza suprema” di Manet, che rende abissale lo sguardo delle grandi protagoniste dei suoi quadri, uno sguardo che sembra venire dalle regioni della morte, o guardare verso di esse.
Cachin, introducendo una riedizione del saggio di Bataille, si chiede cosa possa aver attirato Bataille in Manet, cosa egli possa aver intravisto sotto la scorza del parigino, del dandy. Forse, ipotizza Cachin, le immagini della morte, d’altronde assai rare nell’opera di Manet (pp. 5-6). Inoltre, continua Cachin con un certo cipiglio accademico, “la percezione intuitiva”, per così dire “evocativa”, che porta Bataille vicino a Manet, gli fa però perdere consistenza sul lato della verità storica. Gli fa perdere il filo che lega le opere di Manet in un percorso logico e che colloca Manet nel contesto della pittura francese del XIX secolo. Gli fa perdere l’evoluzione interna alla stessa pittura di Manet. Ma c’è davvero un’evoluzione dall’Olympia al Bar aux Folies-Bergère o c’è qualcosa che rende queste due opere assolutamente prossime, quasi che “il lavoro al nero” di Olympia si ritrovasse interamente anche negli occhi di Suzon, la modella del Bar aux Folies-Bergère, dietro quel banco di marmo, che ancora può ricordare il pianale di un tavolo di obitorio? A Bataille d’altronde non interessava fare di Manet un capitolo di storia dell’arte, e fare di se stesso un aspirante a una cattedra accademica o a un posto di curator in un museo. Altro, come vedremo più avanti è il suo obiettivo, in altra direzione si dirige il suo sguardo.
 
Dovremo tornarci ma è certo che Manet, come dice Cachin (p. 5), è il pittore che “attira gli scrittori come calamite”. Scrittori e saggisti, come: Baudelaire, Zola, Mallarmé, Malraux, Valéry, Bataille e, aggiungiamo noi all’elenco proposto da Cachin, Proust, Foucault, Leiris, Sollers. Ad aggiungersi a questa schiera aggiungiamo anche Picasso, che ormai vecchio interroga il Déjeuner sur l’herbe nell’unico modo in cui un pittore può interrogare ed esplorare un quadro, dipingendolo in più versioni (come ha fatto anche Francis Bacon con l’Innocenzo X di Velázquez). Cachin, che pure si è assunta il compito di introdurre Bataille, non si chiede il motivo di questa attrazione, dell’esigenza di molti poeti e artisti e pensatori di portare l’opera di Manet al di fuori del campo della storia dell’arte.
 
Io credo che chi si è più avvicinato al segreto di Manet sia stato proprio Bataille, che discuteremo più avanti. Ma prima è necessario chiarire alcuni tratti del percorso che stiamo per intraprendere, chiedendoci per esempio cosa sia il segreto in rapporto a un’opera d’arte in generale, e magari a un’opera d’arte figurativa in particolare, e come questo segreto sia stato colto da chi ha compiuto delle vere e proprie incursioni al di fuori del proprio ambito disciplinare spingendosi - quasi in terra straniera e con uno sguardo inabituale - verso opere lontane dalla propria formazione, illuminandole così con una luce diversa e spesso spingendole ai limiti del loro territorio, sui suoi confini, e perfino oltre il confine. Mi riferisco per esempio a Genet e Bonnefoy che si pongono davanti a Giacometti, o Simmel e ancora Genet di fronte a Rembrandt, o Rilke di fronte a Cézanne, e Artaud di fronte a Van Gogh. 
7. “L’Olympia svela ai nostri occhi il segreto di Manet. È svelato completamente soltanto nell’Olympia, anche se una volta scoperto ne troveremo un po’ ovunque le tracce”, scrive Bataille (Manet, p. 78), e aggiunge in nota che Olympia è “senza dubbio l’avvenimento più significativo della storia dell’arte contemporanea”. Il contagio di Olympia si spinge fino allo sguardo di Berthe Morisot ne Le balcon, intenso, e che ha “una gravità temporalesca”. Fissandola, ancora una volta si ha “la sensazione di scoprire un segreto profondo”. Ma l’Olympia è anche il quadro “di cui più la folla abbia riso di un immenso riso” (p. 16). E non solo la folla ma anche i critici, e anche un poeta e uno scrittore come Théophile Gautier, il dedicatario dei Fiori del male di Baudelaire. La furia dei detrattori è feroce e accanita, tanto che Zola nel suo Édouard Manet. Étude biographique et critique19 immagina un individuo preso nella furia di una sassaiola da parte di ragazzi, mentre le “forze dell’ordine, pardon i critici”, complici di questa lapidazione, affermano che quell’uomo “aveva oltraggiosamente insozzato il tempio del Bello”. Zola, che ha cercato di sottrarre l’artista a quella furia, risponde profeticamente ai critici che “il destino aveva già contrassegnato al Louvre il posto futuro dell’Olympia e del Déjeuner sur l’herbe”. Ma non ci siamo capiti, conclude Zola. La sua difesa non ha interrotto la sassaiola, “e mi sono ritirato perché i ragazzi cominciavano a guardarmi con aria feroce” (p. 117). Manet dipinge nel 1868 un ritratto dell’amico scrittore, Ritratto di Émile Zola. E forse, come ringraziamento per la sua difesa, e per la difesa del suo quadro, pone sulla parete dello studio dello scrittore un ritratto di Olympia, un’Olympia, come ha osservato Gerard Genette, che qui non guarda nel vuoto, ma piega gli occhi verso lo scrittore.20 
8. Gli spettatori avevano qualche motivo per protestare. Come scrive Roberto Calasso,21 “il pubblico circolava nei Salon provvisto di un libretto che indicava il soggetto dei singoli quadri. Giudicare consisteva nel valutare l’adeguatezza della rappresentazione visiva all’argomento trattato”. Quale indicazione poteva avere un quadro come Olympia? Un altro quadro di Manet, L’Exécution de Maximilien, viene rifiutato dalla giuria del Salon nel 1868. Ma cosa rappresentata quel quadro che pure s’ispirava al dipinto di Goya Tres de mayo? Qual era il suo soggetto? Il dipinto di Goya rappresenta il precipitare, in un urto spaventoso, della morte sui condannati. Le braccia levate del condannato che aspetta la seconda scarica dei fucili è un urlo che lacera. Manet invece dipinge l’esecuzione di Massimiliano come una natura morta, ha scritto Bataille, come un mazzo di fiori, come un pesce. Dunque il soggetto del quadro non è l’esecuzione dell’imperatore Massimiliano. Non è nemmeno una esecuzione. La morte compare in questo come in altri dipinti di Manet come un’assenza così grande da lacerare ogni retorica, ogni enfasi, e precipitare in una sorta di angosciosa e muta inquietudine. È la prima volta scrive Sollers (L’Éclaircie, p. 79) che “si dipinge un silenzio di morte”. All’urlo di Goya, alle braccia levate verso il cielo, Manet contrappone silenzio e assenza. Qui, come in Olympia, il soggetto vero del quadro, come dice Bataille su cui torneremo più avanti, è l’assenza. Un’assenza che richiama un delitto. Ecco l’obiettivo di un’indagine intorno al segreto di Manet. 
9. Zola è il primo che liquida la faccenda del “soggetto”, che aveva occupato la pletora dei giornalisti e dei critici. Il soggetto della pittura di Manet, per Zola, è la pittura stessa: le macchie di colore che significano intransitivamente se stesse. Zola apre così la strada, che porta a definire l’arte moderna come l’arte che non rappresenta altro che se stessa, come diranno critici come Michael Fried, Michel Foucault, Pierre Bourdieu. È la critica formalista che diventerà dominante e che in modi diversi è ancora oggi dominante.
 
Ma Zola non può fare a meno di convertire questa prospettiva in un compito vero e proprio. Il pittore, in modo contraddittorio rispetto a quel formalismo che per primo egli ha proposto, attraverso le sue macchie deve rappresentare quello che vede. È il dettame della scuola naturalistica che Zola sta via via precisando per se stesso e per la sua opera e che estende anche a Manet. Dipingere ciò che si vede? Nemmeno Zola ci crede fino in fondo. In un grande romanzo, L’Œuvre,22 mette in campo un suo pittore, Claude Lantier che andrà oltre il visibile, per accedere a ciò che non è visibile, in un’oltranza allucinatoria, che non ha nulla a che vedere con la teoria del naturalismo teorizzata dallo stesso Zola. Ciò che vede Lantier è Parigi, ma egli non si accontenta di ciò che vede. Vuole vedere il segreto di Parigi, che cercherà infine di cogliere dipingendo in modo ossessivo e allucinato una immane donna nuda. Non c’è più una mano che, come in Olympia, copra gli inguini ora fiammeggianti. Questa donna è un idolo, un mostro sacro, come Valéry definirà Olympia. Un idolo a cui Lantier sacrifica se stesso, facendo emergere quel tema sacrificale, che è proprio di Bataille e che Bataille richiamerà anche per Manet, e per una parte dell’arte moderna, che si espone appunto a un sacrificio sull’orlo di un immane mutamento.
10. Come dice Mitterand23 negli apparati dell’Œuvre, mezza dozzina di pittori hanno contribuito a costruire la figura di Claude Lantier, ma più di tutti vi ha contribuito lo stesso Zola. “Se io mi metto in scena,” ha scritto, “vorrei completare Claude o essergli opposto.” Zola si è messo in scena con il nome di Sandoz, ma anche con il nome di Claude (tra l’altro suo pseudonimo in alcune opere giovanili). I problemi di Claude sono i problemi di Zola, anche se nel romanzo, in quanto Sandoz, Zola sfugge al “dramma terribile di un’intelligenza che divora se stessa”. O sembra sfuggire, dal momento che il giudizio sul fallimento dell’opera, come vedremo, accomuna in questo caso l’Io e l’Altro, l’autore e il suo personaggio. L’OEuvre esce a puntate sul Gil Blas dal 23 dicembre 1885 al 27 marzo 1886, e subito dopo in volume. Nel gennaio 1886 Van Gogh scrive al fratello Theo: “Ho visto per la prima volta un frammento del nuovo libro di Zola, L’Œuvre, il quale, come sai, esce a puntate sul Gil Blas. Penso che questo racconto, se avrà una certa popolarità, potrà fare del bene. Il frammento che ho letto è notevole”.24 In effetti il problema che L’Œuvre solleva riguarda anche e forse soprattutto proprio Van Gogh e Cézanne. Li riguardava in primo luogo come i pittori che più radicalmente si erano assunti il compito terribile di rappresentare l’irrappresentabile.
Claude Lantier è ossessionato dal desiderio di un’opera

in cui tentare di mettere le cose, gli animali, gli uomini, l’arca immensa! E non nell’ordine dei manuali di filosofia, secondo la gerarchia imbecille in cui si culla il nostro orgoglio, ma nella piena colata della vita universale, il grande tutto, senza né alto né basso, né sporco né pulito.25

Questa sorta di “oltranza”, questo desiderio di totalità, lo porta ad uccidere la splendida armonia che riusciva a sprigionare sulle sue tele, “e nulla di chiaro e di vivo veniva più dalle sue dita”. Persino la stupenda donna nuda che egli ha dipinto in una sorta di Déjeneur sur l’herbe che ricorda proprio Manet, gli appare - come la donna raffigurata da Porbus a Frenhofer nel Capolavoro sconosciuto di Balzac - una “macchia vaga di cadavere, carne di sogno evaporata e morta” (pp. 53 e 57). Anche la carne di Olympia era sembrata ai critici “carne morta”. Lantier a questa non contrappone un corpo vivo, ma un corpo che non è più un corpo. La sua donna nuda, come vedremo, è infatti un immenso simbolo: un’immagine totemica.

 
Finalmente giunge il momento della “tela immensa”, “l’abbozzo magistrale, uno di quegli abbozzi in cui fiammeggia il genio nel caos non ancora disbrogliato dei toni” (p. 235). In un primo tempo dipinge una chiatta con degli operai al lavoro nell’Île de la Cité, che sono poi sostituiti da tre bagnanti, “la terza ritta, nuda sulla prua, di una nudità così splendente che raggiava come un sole”. Sandoz, l’amico scrittore, il naturalista, Zola stesso, non capisce il senso di questa rappresentazione che sembra tradire i dettami della loro teoria. Claude non sa rispondere. Questo può solo dire, che egli “ha bisogno di questo” (p. 235). Sandoz, nei giorni seguenti, cerca di convincere l’amico che questa “strana composizione” è un “oltraggio alla logica”, allo spirito di un pittore moderno, “che si piccava di dipingere solo la realtà” e che invece “imbastardiva un’opera introducendovi simili immaginazioni”. Claude si ostina, non riesce a confessare “il tormento di un simbolismo segreto, questo vecchio rigurgito di romanticismo, che gli faceva incarnare in questa nudità la carne stessa di Parigi”.

 
La sua figura, di mese in mese, di anno in anno, attraverso mille ripensamenti e rifacimenti, cresceva.


La grande figura nuda [...] aveva uno splendore, una crescita allucinatoria di una strana e sconcertante falsità nel mezzo delle realtà vicine (p. 259).

Christine, la sua compagna. lo vede dipingere ancora, come se la accarezzasse, con un sorriso fisso sulle labbra, la sua “donna nuda”, con una candela in mano, incurante di tutto, mentre sul muro si stagliano membra mescolate, “come in un accoppiamento brutale”.

 
Ed egli dipingeva il ventre e le cosce, come un visionario in delirio, gettato dal tormento del vero nell’esaltazione dell’irreale; e quelle cosce si doravano in colonne di tabernacolo, quel ventre diventava un astro splendente di giallo e di rosso puri, splendido e al di fuori della vita. Una nudità strana da ostensorio, che sembrava rilucere di gemme per una qualche adorazione religiosa.

Claude non risponde all’appello di Christine. Si abbassa e intinge il pennello per far “fiammeggiare gli inguini, che sottolineò con due tratti di vivo vermiglio” (p. 343). Christine allora lo assale. Claude sembra destarsi da una sorta di sogno allucinatorio. “Chi aveva dipinto quell’idolo di una religione sconosciuta [...], la rosa mistica del suo sesso tra le colonne preziose delle cosce, sotto la volta sacra del ventre”, quell’immagine che diventava sempre più preziosa “nello sforzo vano di farne della vita”. Alla fine Christine entra un mattino nello studio e vede Claude impiccato di fronte “alla sua opera mancata”, il viso girato verso la Donna “dal sesso fiorito di una rosa mistica”, come se egli “la guardasse ancora con le pupille fisse” (p. 352).

 
Claude è arrivato all’irrappresentabile? Ha sfiorato l’invisibile, oppure ha fallito, come crede la moglie, come credono i suoi pochi amici che lo accompagnano al cimitero, e come in fondo ha creduto lui stesso? Bongrand, che a mio giudizio rappresenta nel romanzo Gustave Flaubert, davanti alla tomba afferma di sentirsi preso da un sentimento della fine. “Crepo di tristezza,” dice, e “sento che tutto crepa... Sì, l’aria dell’epoca è cattiva, questa fine di secolo ingombra di demolizioni, dai monumenti sventrati, con i terreni rivoltati cento volte, che esalano tutti un odore di morte.” Mai, prosegue Bongrand, “ci si è tanto tormentati e mai si è veduto meno chiaro come il giorno in cui si è preteso di vedere tutto”. Sandoz risponde a bassa voce, come tra sé: “Non siamo alla fine, ma siamo all’inizio di un’altra cosa”, a meno che “la follia non ci spinga nel buio”. 

11. Si è molto discusso su quale pittore si nasconda dietro Lantier. Lantier dipinge una sorta di Déjeuner sur l’herbe, come Manet, affronta la pittura en plein air come Monet, di cui porta anche il nome, Claude, e ha il carattere di Cézanne che, riconoscendosi in Lantier, rompe la lunga amicizia che lo aveva legato a Zola, come vedremo anche più avanti. Quello che ci importa sottolineare è che l’idolo sacro e pagano, che esibisce la sua assoluta nudità, l’idolo che ha preteso il sacrificio dell’artista, di Lantier, è senza alcun dubbio Olympia, il mostro sacro di cui parla Valéry, “votata al nudo assoluto”. Così assoluto da essere disumano.

 
Quella di Zola non è la prima Olympia dopo Manet. Forse Cézanne aveva riconosciuto nel quadro di Lantier le sue Olympia, infatti egli aveva dipinto due Olympia, una nel 1870 e una nel 1873-1874. Dunque l’Olympia di Zola, quella di Lantier, è la quarta dopo quelle di Cézanne e ovviamente quella di Manet. O dopo quelle di Manet. Infatti, come abbiamo già visto, Manet dipinge una seconda Olympia, e l’appende al muro dello studio di Zola nel ritratto che gli ha dedicato nel 1868. Ne troveremo certamente altre, altre Olympia. Quello che qui ci interessa sottolineare è la questione del sacrificio che emerge prepotente ne L’Œuvre di Zola. 



12. Bataille ha scritto nello stesso periodo il Manet e Lascaux. La nascita dell’arte.26 Una tensione sacrificale è all’origine dell’arte rupestre, quella di Lascaux, e segna per sempre l’atto artistico lungo tutta la sua storia. Un sacrificio rinnovato - una sorta di delitto l’ha definito Bataille - segna il nuovo patto che l’artista stringe con la realtà e con il segreto che questa nasconde e che deve essere decifrato. L’uomo si allontana dal mondo animale attraverso il lavoro, che si “oppone al mondo della sessualità e della morte”. Questa è la dimensione del sacro in quanto “non esiste una distinzione precisa tra il sessuale e il sacro”. Ma ciò che è fondamentale è che l’uomo, attraverso l’erotismo, come attraverso la sacertà, supera gli interdetti legati al mondo del lavoro e ritrova una solidarietà con la vita animale (Lascaux, pp. 42-43). È il mondo della notte che affiora tra le pieghe del giorno. È ciò che emerge nell’angoscia, ed è ciò a cui andiamo incontro nella trasgressione e con il sacrificio, che alla trasgressione è sempre connesso. Bataille afferma che “L’Olympia nel complesso si distingue appena da un crimine e da uno spettacolo di morte” (Manet, p. 69). Ma, allo stesso modo, “l’antichità vedeva nel sacrificio il crimine del sacrificante che, nel silenzio angosciato degli astanti, metteva la vittima a morte, crimine in cui il sacrificante, con conoscenza di causa e lui stesso angosciato, violava l’interdetto dell’omicidio” (Lascaux, pp. 40-41). La trasgressione di questo interdetto, come dell’interdetto legato alla sessualità, porta, secondo Bataille, ad un superamento del sapere meramente concettuale e ci spinge a cercare quell’esperienza interiore a cui l’arte cerca di dare forma. Spesso senza riuscirci, ma di fatto è ciò che la giustifica.27 È il tema dell’Impossible che era originariamente intitolato L’odio della poesia, sottolineando così quello scoglio che talvolta rende impossibile anche alla poesia e all’arte raggiungere la verità della cosa, che è sempre, più di quel che è, come egli ha più volte ribadito nei suoi testi più metafisicamente impegnati. La cosa ha una profondità abissale che inesorabilmente sfugge ai linguaggi socialmente utili, e a cui talvolta, solo talvolta, si accede attraverso i linguaggi dell’arte e della poesia proprio perché hanno sacrificato la funzione meramente comunicativa del linguaggio stesso. Hanno di fatto sacrificato la sua utilità sociale.
C’è un’immagine nelle pitture di Lascaux che ha colpito Bataille e che lo segue fino all’ultima sua opera, Le lacrime di Eros, perché riassume in sé la contiguità del sesso, della morte, e dell’animalità. Un uomo con una piccola testa d’uccello giace a terra, forse morto, con il sesso eretto. Su di lui incombe il bisonte ferito e morente, con le budella che pendono dal suo ventre. L’uomo, l’animale, il sesso e la morte: l’essenziale. Manet, scrive Bataille, come gli anonimi artisti di Lascaux, con la sua arte “metteva in gioco l’essenziale”. È questo che ha mosso la furia del pubblico contro di lui, in quanto la gente oscuramente percepiva di fronte alla nudità assoluta di Olympia, qualcosa che di solito è legato al sacrificio religioso. Ma, come ricorda Bataille citando Malraux, la tematica sacrificale attraversa tutta l’arte moderna:

Da Baudelaire a Verlaine, da Daumier a Modigliani, quanti sacrifici umani! Raramente un così gran numero di grandi artisti offrirono un così gran numero di sacrifici a un dio sconosciuto” (Bataille, Manet, p. 55).

La tematica sacrificale attraversa l’opera di Proust, l’opera di Kafka, è nello sguardo che Jean Genet porta sui volti di Rembrandt, è la lacerazione nelle aspre parole di Artaud che cercano di penetrare il segreto di Van Gogh.

13. Bataille ad un certo punto avvicina Manet e la sua pittura a Proust, che ha messo in campo nella Ricerca del tempo perduto28 un pittore, Elstir, per certi versi molto vicino a Manet. “La distanza tra Elstir e Manet non è molto grande. Proust ha parlato del ‘periodo [...] in cui la personalità di Elstir non era ancora completamente sviluppata e s’ispirava un po’ a Manet’”, e ricorda come nella Ricerca del tempo perduto anche per Elstir si parli di uno studio di Zola. Bataille ricorda anche che Proust attribuisce a Elstir Un mazzo di asparagi, noto dipinto di Manet, oltre a una serie di marine che portano la traccia ancora di Manet. Dunque, secondo Bataille, “è certo che è a partire da Manet che Proust si è ispirato” per descrivere un mondo e un paesaggio che non sono quelli dell’impressionismo. Ma egli non ha voluto esprimere l’idea che si era fatto di Manet, ma “quella del pittore che, a partire dall’impressionismo, era potenzialmente lui stesso” (pp. 78-84).

 
Certamente Proust pensa a Manet quando insegue Elstir lungo tutto il percorso della Ricerca del tempo perduto. Persino le risate, che avevano accompagnato la presentazione di Olympia al Salon del 1865 vengono richiamate nella Prigioniera (RTP, vol. III, p. 683) nei “grandi scoppi di risa davanti ai quadri di Elstir”. Sia nella Prigioniera che nel Tempo ritrovato (vol. III, p. 799; vol. IV, p. 682) Proust avvicina Elstir a Dostoevskij per un procedimento creativo che sconvolge l’ordine abituale della rappresentazione, mostrando l’effetto prima della causa. Sono convinto che Elstir-Manet sia presente anche là dove il Narratore presenta a Albertine la bellezza di Nastas’ja Filippovna,29 una “bellezza nuova e mista di un viso di donna” affermando che è “ciò che Dostoevskij ha recato di unico al mondo, e gli accostamenti che i critici possono fare fra lui e Gogol, o fra lui e Paul de Kock non hanno alcun interesse, essendo esterni a questa bellezza segreta” (vol. III, p. 798). Questa “bellezza nuova e mista” e “segreta”, unica e terribile, non può, a mio giudizio, che richiamare l’unicità sconcertante di Olympia, o lo sguardo di Berthe Morisot ne Le balcon, che ha “l’intensità di una tempesta, e che ci consegna un segreto ancora più profondo di quello di Olympia” (Bataille, Manet, pp. 115 e 117).

L’incontro del Narratore con Elstir si distende per molte pagine di All’ombra delle fanciulle in fiore (vol. I, pp. 10101047). E non c’è dubbio che Proust per descrivere Elstir e la sua pittura qui abbia fatto ricorso oltre che a Manet, anche a Monet e a tutta la schiera degli impressionisti. Ma c’è qualcosa che esce dalla pittura di paesaggio impressionista e ci riporta inesorabilmente a Manet, i cui paesaggi en plein air sono talvolta meno interessanti e debitori di un’epoca e di un genere. Infatti, persino il Déjeuner sur l’herbe è pensato da Manet non tanto come un quadro en plein air ma piuttosto come una sorta di paradossale intérieur. Il Narratore dunque, quasi per caso, scopre un “acquarello che doveva risalire a un periodo molto anteriore della vita di Elstir” che lo colpì “per quella particolare specie d’incanto di cui sono dispensatrici alcune opere non soltanto di squisita fattura, ma anche di soggetto così singolare e seducente”. È qualcosa che ci appaga anche contro la ragione, ed è un “contrappeso alle astrazioni dell’estetica”.

Era quell’acquarello il ritratto di una giovane donna non bella ma d’un tipo curioso, con un copricapo simile a una bombetta bordata da un nastro di seta color ciliegia.

Nelle mani teneva una sigaretta e un grande cappello da giardino all’altezza del ginocchio. Accanto a lei “un portafiori traboccante di rose”. Il Narratore colpito osserva che “il carattere ambiguo dell’essere il cui ritratto mi stava sotto gli occhi dipendeva, senza che io lo potessi capire dal fatto che si trattava d’una giovane attrice d’altri tempi parzialmente vestita da uomo”. Ma in un primo tempo la bombetta, i capelli corti, la giacca aperta su uno sparato bianco “mi fecero esitare circa la datazione di quella moda e il sesso del modello, di modo che non sapevo esattamente cosa avessi sotto gli occhi, se non la più nitida delle pitture”. Le plus clair de morceax de peinture. Si sentiva che Elstir senza curarsi di quel che potesse esserci d’immorale nel travestimento della giovane attrice, per la quale il talento nell’interpretare la parte contava certo meno dell’intrigante seduzione che avrebbe suscitata sui sensi disincantati o perversi di certi spettatori, aveva insistito al contrario proprio su quei tratti di ambiguità.

In un gioco continuo appare il volto di una ragazza “un po’ mascolina” o “l’idea di un giovane effeminato, vizioso e sognatore e di nuovo svaniva restando inafferrabile. La pensosa tristezza dello sguardo con quegli accessori appartenenti al mondo della crapula e del teatro non era che turbasse di meno”. È Miss Sacripant, datata 1872, che Elstir si preoccupa di nascondere all’arrivo della moglie (vol. I, pp. 1026-1029). Proust ha spinto Elstir a dipingere una sua Olympia. Miss Sacripant è Olympia. Proust rivisita così Manet molto più che negli accostamenti sparsi lungo Alla ricerca del tempo perduto che abbiamo richiamato insieme a Bataille. Certo Olympia è una donna, una donna nuda. Anzi, come scrive Valéry, “votata al nudo assoluto” (p. 898). Miss Sacripant è vestita, ma il suo vestito non è fatto forse per suscitare lo stesso sconcerto sucitato dalla nudità di Olympia
14. Charles Bernheimer ha sottolineato che “l’identità sessuale di Olympia è in dubbio. La sua raffigurazione fa sorgere deliberatamente nello spettatore maschio un dubbio se la sua sessualità possa appartenerle o se non sia sempre spostata, sempre rappresentata altrove” (p. 259). In ogni dipinto in cui appare, Victorine, la modella di Olympia, come afferma Carol Armstrong, “è vista sotto altre forme, con costumi differenti e in diversi ruoli [...]. In ogni immagine i suoi tratti rimangono riconoscibili e tuttavia sottilmente altri” (p. 14).30 Victorine è l’ambiguità stessa che compare in nove o dieci dipinti di Manet, sempre con quello sguardo opaco. Se lo sguardo di Berthe Morisot ne Le balcon ha una profondità abissale, che rinvia a un segreto abissale, lo sguardo di Victorine è uno sguardo che non guarda, e che risulta impenetrabile. È di fatto una sorta di specchio vuoto. Miss Sacripant è vestita da uomo. Victorine appare vestita da uomo in Mille Victorine en costume d’espada (1862), Le joueur de guitare (1867) e secondo Paul Janot anche ne Le fifre (1866). Victorine torero agita la sua spada “come volesse ritmare giustamente la misura di una sinfonia tragica (mentre alla sua mano sinistra l’ondeggiare della muleta è quasi dello stesso rosa del grande nodo che s’increspa all’orecchio dell’impassibile Olympia)”.31
Bataille, come abbiamo visto, ha parlato del pittore che è in Proust, anch’egli tentato, a mio giudizio, da un’altra Olympia, da una sua Olympia.
15. Abbiamo già ricordato la presenza della tematica sacrificale in Proust. Il richiamo ad Ulisse - che sulla soglia del regno dei morti fa bere il sangue delle vittime sacrificali alle ombre perché queste possano parlare - si affaccia ben presto in Proust, già in una lettera a A. Bidesco del 1902, e ricompare alla fine della Ricerca, nel mezzo di quello che è stato definito il bal de têtes, in cui tutti i personaggi si ripresentano con la maschera dalla vecchiaia e della prossimità alla morte (vol. IV, pp. 633-634). Proust non ha che il suo sangue - in un terribile autosacrificio - da offrire alle ombre che lo abitano perché esse possano parlare. Ma la furia sacrificale investe anche altri personaggi, tanto che il libro, La ricerca, non è in fondo che “un grande cimitero dove sulla maggior parte delle tombe i nomi cancellati non si possono più leggere” (vol. IV, p. 587). La morte è così presente in Proust che Walter Benjamin ha potuto scrivere: “Riconosco che Proust nel senso più profondo peut-être se range du côté de la mort. Il suo cosmo ha forse il suo sole nella morte intorno al quale girano gli istanti vissuti, le cose raccolte”.32

Il cimitero è pieno di personaggi che Proust ha sacrificato all’opera d’arte. Nella Prigioniera Proust scopre nella musica di Vinteuil, che Proust ha avvicinato a Elstir, una realtà incognita, una patria lontana e perduta, la cui verità non può trasmettersi “nemmeno dall’amico all’amico, dal maestro al discepolo, dall’amante all’amato” (vol. III, p. 666). Solo l’arte può farlo. E sui gradini di questo altare Proust ha sacrificato Bergotte, lo scrittore che egli aveva tanto ammirato. Bergotte ormai malato va a vedere una mostra di pittura in cui è presente anche il quadro di Vermeer La veduta di Delft, un quadro che egli conosceva bene, o credeva di conoscere, ma nel quale non aveva notato un “piccolo lembo di muro giallo”, su cui un critico aveva attirato l’attenzione. Attraversa le sale della mostra e finalmente si trova davanti al quadro in cui “forse grazie all’articolo, osservò per la prima volta, piccoli personaggi azzurri, la sabbia rosata, e infine la preziosa materia del piccolo lembo di muro giallo”.

 
Su questo si fissano i suoi occhi mentre stordimento e vertigini lo assalgono, e mentre continua a dirsi: “È così che avrei dovuto scrivere. I miei ultimi libri sono troppo asciutti, sarebbe stato necessario passare diversi strati di colore, rendere anche la mia frase più preziosa, come questo piccolo lembo di muro giallo”. Vede allucinatoriamente una “bilancia celeste”: su un piatto la sua vita, sull’altra il piccolo lembo di muro giallo. “Piccolo lembo di muro giallo”, continua ripetersi, finché si schianta su un divano pensando alle patate poco cotte mangiate a colazione. “Un nuovo colpo l’abbatté, scivolò dal divano a terra, dove accorsero visitatori e guardiani. Era morto.” (vol. III, p. 587). Bergotte è lo scrittore che pensava che la verità che si sprigiona dal lembo di muro giallo, nel complesso dei colori del quadro di Vermeer, sia una questione di raffinatezza, di preziosità, e non di verità. Per questo non ha capito il suo compito. Per questo andava sacrificato. Ma il sacrificio più importante è quello di Albertine, sulla soglia di quella Olympia che Proust dipinge con le parole, animando, come dice Bataille, il pittore che è dentro di lui. 

16. È un terribile paradosso. Per rappresentare Albertine Proust deve sacrificare Albertine. Lo annuncia nella conclusione della Prigioniera in un racconto che prosegue lacerante in Albertine scomparsa. È significativo che l’annuncio della fine, del compimento del sacrificio avvenga con un richiamo a Vinteuil, alla sua musica che si era riassunta nell’immagine del gallo del mattino:

Un canto che fendeva l’aria [...], il più ignoto, il più differente di quanto avessi mai immaginato, al contempo ineffabile e stridente [...], lacerante l’aria, vivo come la sfumatura scarlatta nella quale era immerso l’inizio, già come un mistico canto di gallo, un appello ineffabile ma acutissimo dell’eterno mattino” (III, p. 658).

Il Narratore è nella camera di Albertine, che rifiuta di baciarlo, che rifiuta i suoi baci. Il Narratore è preso da un’angoscia terribile, che è di fatto già presentimento della fine, e si stringe alla veste di Albertine di un azzurro scintillante e dorato come il Canal Grande a Venezia, in cui sono intessuti “uccelli accoppiati simbolo di morte e di resurrezione”. E d’improvviso sente “le cadenze di un lamentoso appello. Erano i piccioni che cominciavano a tubare”. La notte sta dunque per finire e per finire anche la speranza del bacio che Albertine gli ha negato e che lo avrebbe rasserenato. Ma “la somiglianza tra il tubare e il canto del gallo era così profonda e oscura, come nel Septuor di Vinteuil [...], quel pezzo melanconico eseguito dai piccioni era una sorta di canto del gallo in minore. [...] So che allora pronunciai la parola morte, come se Albertine stesse per morire” (III, 822-823).
17. Abbiamo detto che Albertine è l’Olympia di Proust, un’Olympia che, a mio giudizio, guarda verso l’opera di Manet. Proust procede via via a un processo di spogliazione di Albertine, che è spogliazione dei caratteri umani, un processo di disumanazione, come quello che ha trasformato Olympia di Manet in un mostro sacro e disumano. Albertine gli dà l’idea “di un lungo stelo fiorito” che sia stato posto casualmente lì. Sembra che “dormendo si fosse trasformata in una pianta”. Chiudendo gli occhi e perdendo coscienza “Albertine si era spogliata, uno dopo l’altro, dei vari caratteri d’umanità [...]. Oramai era animata soltanto dalla vita inconsapevole dei vegetali, degli alberi, una vita più remota della mia, più strana, che tuttavia mi apparteneva di più”. È la strana e opaca e misteriosa vita dell’Olympia di Manet. Come questa anche “Albertine aveva richiamato a sé tutto ciò che di lei era al di fuori di lei, si era rifugiata, racchiusa, riassunta nel suo corpo”. È quello che aveva scandalizzato i visitatori del Salon di fronte al quadro dell’Olympia. Un corpo intransitivamente chiuso in se stesso, che non ha bisogno di nulla, di nessuno. I suoi occhi guardano nulla, non il gatto, non la serva nera e i suoi fiori, né il presunto spettatore che qualcuno ha pensato di poter inserire nascosto nel quadro. Albertine come Olympia sembra una di quelle “creature inanimate di cui è fatta la bellezza”, sembra dunque, come l’Olympia del racconto di Hoffmann, una bambola. È così che il Narratore la vuole. Quindi si sdraia accanto a lei traendone, talvolta, “un piacere meno puro”, quando “il  rumore del suo respiro”, del respiro di Albertine addormentata, “facendosi più forte, poteva dare l’illusione dell’ansito del piacere”, una risposta al piacere del Narratore. “Mi sembrava, in quei momenti, d’averla posseduta più completamente come una cosa incosciente e senza resistenza della muta natura” (vol. III, pp. 456-459).
18. La bambola Olympia. La richiama così anche Leiris ne Le ruban. L’Olympia di Manet è un
gingillo senz’altra anima che il suo fascino, bambola tanto bianca e tanto fredda come indica il suo nome, che richiama non tanto l’Olimpo e le avventure degli dei, quanto piuttosto la creatura di cui l’eroe del racconto di Hoffmann, L’uomo della sabbia, s’innamora fino alla follia e che - per quanto appaia vivace e attraente a lui che vede in lei tutt’altra cosa che un puro effetto dell’artificio - s’avvera essere un automa dotato di un grande potere illusorio dallo scienziato che l’ha precariamente animato (p. 67).
Eppure l’Olympia di Leiris - perché esiste un’Olympia di Leiris, o almeno un’appropriazione dell’Olympia di Manet tale che la rende in definitiva sua - è questo ma è anche molte altre cose. In lei, attorno a lei, c’è “l’oscurità di un mistero”, che si esprime in quell’incongruo gatto nero che si muove sul suo letto. Ma è anche una sorta di nume tutelare, che appare in quel momento in cui “da incorreggibile ostinato mi sono aggrappato al nastro di Olympia, corda che mi impedisce di affondare” (p. 100). Nume tutelare, salvezza, in quanto in lei c’è verità. Nella sensazione angosciosa di una fuga del tempo, di una sorta di evaporazione della storia “in una sequenza di eventi fugaci”, è proprio “la presenza di questa cittadina, l’Olympia di Manet, che m’invita con la sua modernità (acuità, prossimità, istantaneità) a non addormentarmi in una immobile e vana contemplazione”, ma ad essere dentro questa stessa fugacità, a integrare la mia propria fugacità a quella dello scorrere degli eventi (p. 141-142).
Il nastro al collo di Olympia si trasforma in laccio. “Non è forse sempre qualcosa di selvaggio (grezzo, nudo, intoccato, indocile) che il lazo deve afferrare, al di fuori come dentro di me?” (p. 203). Talvolta quello che emerge da questo “quadro carico di mistero” è l’immagine di una fredda bellezzaincurante del bouquet che le viene offerto, come a una Salomè cui è offerta la testa dell’anacoreta, ha l’aria di essere lì, nell’assoluto della sua presenza, e una bestia - il gatto - i cui pensieri, mascherati più che espressi dagli occhi fissi, sfuggono al punto che si fatica a capire se abbia qualche oscura idea in testa, fosse anche la meno articolabile (p. 208).

Ma forse proprio questa “fredda bellezza” è quello che salva dal sentirsi “estranei alla propria epoca, e dal non essere più nella vita, ed essere già nella morte”. Olympia diventa lo stimolo a cogliere della propria modernità quanto in lei, della sua epoca, dell’epoca di Manet, si è raccolto e rappresentato della sua modernità. E dunque ci fa capire come sia necessario cogliere anche noi la nostra epoca, “proprio questa epoca qui, fase particolare dell’avventura umana, fase dotata di una sua verità, foss’anche la più sconvolgente per me” (p. 220).
Olympia è dunque dannazione e salvezza. Olympia è l’ambiguità stessa. Salvezza e condanna:
Come passare intorno al collo delle cose - almeno di qualcuna di quelle con cui entro in rapporto - il nastro che le renderà, per me e per quelli a cui ne parlerò, così presente e così pressante come l’Olympia di Manet con il suo collo barrato di nero? Nastro prezioso di cui, dimenticando che non è che una parure ornata da un nodo, come quello dei lacci delle scarpe, vorrei poter usare a volontà e fare - salvagente contro l’annegamento - la leggera ma sicura cintura di salvataggio che il  suo movimento circolare richiama... Nastro tuttavia che, esaminando più onestamente la sua immagine dipinta - legatura stretta che chiude un collo ben piantato sulle spalle -, dovrei piuttosto classificare nella ben più tenebrosa famiglia della garrotta o del cappio! (p. 262).
La pagina resterà incompiuta, anche se Leiris afferma che lavorerà fino all’ultimo respiro, per capire cos’è davvero il nastro al collo di Olympia (p. 263). Quel nastro “colore della notte che aiuta a vedere chiaro” (p. 275). Quel nero che sembra arrestare l’annientamento delle cose, il loro precipitare nel nulla. È stato quel nastro “il filo che mi preservava dal perdermi totalmente nel dedalo in cui mi trascinava la scrittura”. Un cordone che, tirato quasi a caso, apre una tenda, al di là della quale emerge “una chiarezza di cui praticamente ignoravo ciò che questa mi avrebbe mostrato”. Il nastro è un dettaglio che lo ha messo in cammino, e ha giocato lo stesso ruolo che un’ipotesi di lavoro muove lo scienziato nella sua ricerca. È il dettaglio che cristallizza una realtà, tanto da augurarsi che un simile dettaglio intervenga in una creazione, facendo sì che essa, proprio per questo, acquisti “una esistenza irrecusabile”. Dunque “un’idea che tu sogni di sfruttare non sarebbe forse più di un’idea morta se, all’inizio, non ci fosse il nastro o il dettaglio per mezzo del quale tu te ne approprierai, non come un bene astratto, ma come una preda” (pp. 285-286).
Ho presentato un mosaico di citazioni da cui emerge davvero il tentativo di Leiris di proporre un faccia a faccia con il quadro di Manet, così serrato e quasi ossessivo, tanto che Olympia entra a far parte della sua vita. Fonda il tentativo di rappresentarla nelle parole e nella scrittura, anche se questo significa entrare nel labirinto del suo segreto, nel mistero in cui lei appare e scompare, come se riuscisse a proiettarsi sempre altrove. Come se proprio, in questo essere e scomparire, in questo terribile e affascinante movimento perpetuo - quello che Bataille ha definito “la folle oscillazione di un ago magnetico che nulla orienta” (Bataille, Manet, 26) - stesse la sua verità, la sua modernità. Non ha forse detto Valéry, appunto nel suo saggio su Manet, “che un’epoca si ritiene ‘moderna’ quando trova in sé parimenti ammesse, coesistenti e in atto negli stessi individui, un gran numero di dottrine, tendenze, ‘verità’ assai differenti, se non totalmente contraddittorie” (p. 896)? Là dove, per dirla con Montale de La casa dei doganieri,
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Avventura, appunto. Senza garanzie. Nella contraddizione, in movimento verso la verità, su cui Olympia ha davvero qualcosa da dire.
19. Clement Greenberg inaugura quella corrente della critica, che annovera tra gli studiosi più significativi Michael Fried, autore di una serie di saggi che trovano la loro forma più compiuta nel suo Manet’s Modernism. Questi studiosi sostengono che Manet abbia inaugurato la pittura “modernista” espellendo, scrive Arden Reed, “la letteratura dalla pittura perché ‘il letterario’ doveva sparire per permettere la nascita dell’ottica modernista”.33 Non ho intenzione di seguire questa discussione per due motivi. In primo luogo perché rifiuto l’identificazione dell’idea di moderno, inaugurata da Baudelaire, con il modernismo: una scuola con i suoi aderenti e circoscritta a qualche decennio del Novecento. Per me il moderno è il tempo metropolitano, quel viaggio con lo Zarathustra di Nietzsche, che ci porta, con il passo intitolato Della redenzione, in mezzo a contraddizioni, in mezzo a “frammenti di uomini”, in mezzo a un’“orrida casualità” che l’arte e le forme devono redimere. Questo è il paesaggio del moderno, il suo tempo che, come ha detto Octavio Paz, si sfarina tra le mani, insieme agli eventi che hanno scavato nelle anime e nei corpi, che hanno reso sfuggenti le forme in cui nel passato l’uomo ha dato un senso al suo essere nel mondo, al suo operare in esso.34 L’altro motivo per cui non vorrei entrare in questa querelle è perché penso, come George Steiner in Vere presenze, che spesso la critica non si confronti con l’opera ma con altra critica: in una galleria di echi in cui il saggio critico dialoga con il saggio critico, l’articolo parla con un altro articolo, in una crescita infinita che sembra depositarsi sulle opere e renderle invisibili.35 Così Reed, per rispondere ai vari articoli saggi e ai vari libri che egli vuole contestare, s’inventa un Flaubert pittore tra l’altro della vetrata che avrebbe ispirato il suo racconto La leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere, mentre, come possiamo cogliere attraverso il suo immenso epistolario, l’unico quadro su cui Flaubert abbia posto attenzione è Le tentazioni di Sant’Antonio Abate, tradizionalmente attribuito a Pieter Brueghel il Giovane, conservato allora a Genova nel Palazzo Balbi. Comunque ciò che caratterizza la lettura di Manet in chiave “modernista” è un’accentuazione formalista, su cui concorda Carole Talon-Hugon. “Se si dovesse formulare con una frase in cosa concordano Michel Foucault, Georges Bataille e Michael Fried a proposito dell’opera di Manet, bisognerebbe dire che essi vi scorgono una pittura che si mostra per quello che è. [...] L’opera di Manet inaugura un’epoca in cui si tratta di far vedere la pittura. Accomunati da questa convinzione, Foucault, Bataille e Fried appartengono - sia pur a diverso titolo - alla linea critica del formalismo”.36 La pittura che esibisce se stessa, era già stata proposta da Zola. Teoria che è stata ripresa certo anche da Foucault, tra gli altri. Per Bataille, come vedremo più avanti, è davvero tutto un’altra storia. La pittura ha anzi, per Bataille, un compito immane: quello di far emergere un senso al di là del senso (Manet, p. 95). 

20. Foucault, come racconta Maryonne Saison nell’Introduzione alla Pittura di Manet, avrebbe a lungo pensato di scrivere un libro su Manet, in quella sorta di “Folie Manet”, che sembra aver attirato molti verso l’artista. Folie Manet, per far eco al Folie Baudelaire di Roberto Calasso, che nel suo libro dedica molte pagine a Manet. Foucault avrebbe preso molti appunti e avrebbe pensato anche a un titolo per questo suo libro: Il nero e il colore. Di tutto questo rimane soltanto la memoria di una conferenza, pronunciata a Milano nel 1967, poi ripetuta a Tokyo e quindi a Firenze nel 1970, e infine a Tunisi nel 1971. Di quest’ultima resta una registrazione, e La pittura di Manet è la trascrizione di questa conferenza. Ho una grande ammirazione per Foucault, ma a me questo testo pare tutt’altro che memorabile, molto più vincolato al formalismo di quanto non lo sia il testo di Fried.

 
Secondo Foucault Manet ha operato una rottura che va oltre il merito di aver aperto la strada all’impressionismo. Manet, “per la prima volta nell’arte occidentale, almeno dal Rinascimento, almeno dal Quattrocento, si è permesso di utilizzare e di far giocare, in un certo modo, all’interno dei suoi stessi quadri, all’interno di quel che rappresentano, le proprietà materiali dello spazio su cui dipingeva” (pp. 20-21). Ha rinunciato, in una parola, alla rappresentazione delle tre dimensioni nello spazio bidimensionale della tela. Manet ha così inventato “il quadro-oggetto, il quadro come materialità, il quadro come cosa colorata illuminata da una luce esterna e davanti al quale, o attorno al quale, si sposta lo spettatore” (p. 23). Foucault presenta così tredici opere attraverso le quali dimostrare il suo assunto.


La prima questione riguarda “in che modo Manet ha rappresentato lo spazio”. La musique aux Tuileries (1860) dovrebbe dimostrare la scansione dello spazio per linee verticali, gli alberi, e per linee orizzontali, le teste della folla, riunita in uno spazio senza profondità. Le bal masqué à l’Opera (1873) accentua queste caratteristiche: la profondità qui “è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro e non vi è nulla da vedere dietro” (p. 27). L’Exécution de Maximilien (1868) è anch’esso un esercizio spaziale: “Entriamo in uno spazio pittorico in cui la distanza non si mostra più, dove la profondità non è più oggetto di percezione, dove la posizione spaziale e la lontananza dei personaggi sono semplicemente dati da segni che hanno senso e finzione solo all’interno della pittura” (p. 30). Foucault procede attraverso l’analisi de Le port de Bordeaux (1871), Argenteuil (1874), Dans la serre (1879), La Serveuse de Bocks (1879), Le chemin de fer (1873), per arrivare al secondo punto su cui egli vuole attirare l’attenzione, vale a dire i problemi dell’illuminazione e della luce, attraverso Le fifre (1877), il Déjeuner sur l’herbe (1863), Olympia (1863) e Le balcon (1868-69).

 
Foucault sottolinea il fatto che nella pittura precedente a Manet la sorgente della luce era indicata nel quadro stesso. Con Manet è la luce esterna che investe il quadro, come se questa si generasse dallo sguardo dello spettatore. Ed è proprio il posto dello spettatore che Foucault vuole analizzare nell’ultimo quadro che egli presenta, Un bar aux Folies-Bergère (1981). Qui il muro che chiude lo spazio è uno specchio. Negazione della profondità, come vorrebbe Foucault, o perversione dello spazio, in cui proprio nella sua negazione si manifesta la profondità? È evidente che di fronte a quest’opera Foucault è in difficoltà nel definire quale sia lo spazio dello spettatore, quale sia lo spazio del pittore. E poi quale sia lo spazio stesso del quadro, e come in esso si collochi la cameriera con lo sguardo che guarda nulla, lo stesso sguardo di Olympia o della donna de Le chemin de fer, con le mani appoggiate al marmo del banco, il nastro nero intorno al collo, come Olympia, il braccialetto al polso destro, come Olympia, un fiore rosa accanto a lei, come quello all’orecchio di Olympia. Foucault non vede nulla di tutto questo. Procede rapido alla sua conclusione:

Manet non ha certo inventato la pittura non rappresentativa poiché tutto in Manet è rappresentativo, ma ha fatto giocare nella rappresentazione gli elementi materiali fondamentali della tela; era dunque in procinto di inventare il quadro-oggetto, se volete, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché finalmente un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali (p. 72). 

21. Siamo arrivati fin qui spinti e accompagnati quasi sotto traccia, come si è visto, dalle osservazioni di Bataille nel suo straordinario La pittura di Manet. Bataille sapeva che Manet probabilmente non era il “pittore più bravo”. Corot e soprattutto Courbet hanno quadri magnifici. Courbet in particolare esprime fino in fondo l’esprimibile. La sua pittura è nuda come lo sono i magnifici corpi di donna che dipinge. Ma quello che conta, ha detto Baudelaire, è esprimere l’inesprimibile. È ciò che Bataille ripete nella mirabile introduzione a Madame Edwarda: “Vedere ciò che eccede la possibilità di vedere” e “pensare ciò che eccede la possibilità di pensare” (OC, III, p. 12). Questo è Manet, la pittura di un eccesso e di un segreto, quel segreto, dice Bataille, “che solo in Olympia è interamente svelato” (p. 78). O forse non interamente svelato. In Olympia certo traspare, ma forse “il segreto più profondo” appare tra i tagli delle stecche del ventaglio che fanno intravedere “il se greto difficilmente penetrabile” degli occhi di Berthe Morisot in Berthe Morisot à l’eventail e ne Le balcon (p. 115), quello sguardo che ha “la gravità di una tempesta” (p. 117).

 
Cercheremo più avanti di seguire, anche se sommariamente, il percorso che porta Bataille dentro Manet, fino al punto in cui forse nessun altro è giunto. Ma prima dobbiamo compiere alcuni passi, soltanto apparentemente laterali, perché in realtà ci portano nella direzione di quel contesto in cui è stato posto Manet, sostanzialmente come Il pittore della vita moderna.

22. Il pittore della vita moderna è il titolo di un saggio straordinario di Baudelaire, pubblicato nel 1863. È un saggio che dovrebbe parlare di Manet che proprio nel 1863 dipinge Déjeuner sur l’herbe e Olympia. Manet sembra emergere dalle pagine in cui Baudelaire parla del carattere duplice della bellezza moderna in cui l’aspirazione all’eterno convive con il contingente,37 o quando esprime un “Elogio del trucco”, in cui egli afferma che il rosso con cui vengono accentuati gli zigomi e il nero che circonda gli occhi di una donna “rappresentano la vita, vita naturale e smisurata; il bordo nero fa lo sguardo più profondo e singolare e dona all’occhio un’apparenza più risoluta di finestra aperta sull’infinito” (p. 1311). Pensiamo subito allo sguardo di Berthe Morisot ne Le balcon, al nastro al collo di Olympia. Ma Baudelaire non parla di Manet, parla invece di Costantin Guys, che viene citato con le sole iniziali, C.G., come il personaggio di Kafka, K., che si aggira nei meandri del Castello. C.G. è qualcosa di analogo. È l’anonimo abitatore della metropoli, della vita moderna. Del vero pittore della vita moderna, di Manet, Baudelaire non parla, neanche nei suoi Salon. Guardando La musique aux Tuileries (1862), in cui è raffigurato lo stesso Baudelaire, o Le bal masqué à l’Opéra (1873) sembra di vedere rappresentato il capitolo XIII del Salon del 1846 di Baudelaire, “Dell’eroismo della vita moderna” in cui invita gli artisti moderni a dipingere uomini di oggi con i loro vestiti, con le scarpe di vernice, personaggi con “il frac funebre e svolazzante che tutti indossiamo”. Come i personaggi di Balzac, o come Balzac stesso, “il più poetico di tutti i personaggi” che egli ha tratto dalla sua carne. Questo riferimento a Balzac è importante perché Baudelaire strappa via Balzac dal luogo comune dello scrittore realista, e lo presenta come un allucinato indagatore del segreto. Per esempio nell’Esposizione universale -1855- Belle arti38 in cui scrive:

Si racconta che Balzac [...] trovandosi un giorno di fronte a un bel quadro, un paesaggio invernale, malinconico e tutto ghiacciato [...], dopo aver guardato a lungo una casupola da cui saliva un esile fumo, esclamasse: “Che bello! Ma che fanno nella capanna? Che pensano, e quali sono i loro affanni? È stato buono il loro raccolto? Hanno davvero scadenze da pagare?”.

Per Baudelaire Balzac è “un visionario, e un visionario appassionato”, sempre pronto a incalzare il segreto, a enfatizzare caratteri della realtà per far risaltare quello che di solito si nasconde nelle sue pieghe. Perché allora il silenzio su Manet? Perché il poeta dei Fiori del male non ha voluto riconoscere Olympia, che avrebbe potuto campeggiare sulla copertina del suo libro I Fiori del male? Non ha voluto riconoscere l’artista che, secondo Valéry,39

metteva in scena agli occhi di Baudelaire, il problema di Baudelaire stesso: vale a dire la situazione critica di un artista in preda a numerose tentazioni contrarie e capace d’altronde di essere se stesso nei modi più mirabili. Basta sfogliare la sottile raccolta dei Fiori del male, osservare la diversità significativa e come concentrata, degli argomenti dei poemi, paragonarvi la diversità di motivi che emergono dal catalogo delle opere di Manet, per rintracciare agevolmente un’affinità reale fra le inquietudini del poeta e del pittore.

Eppure, Manet è citato soltanto come dedicatario di uno dei poemetti dello Spleen di Parigi, “La corda”, che presenta un aneddotto riferito da Manet stesso, di cui Baudelaire è amico, di cui frequenta la casa, anche per ascoltare il Wagner che la moglie di Manet suonava al piano proprio per lui. Compare talvolta nella corrispondenza degli anni sessanta, e in particolare in una lettera dell’11 maggio 1865 diretta a Manet.40

[...] Bisogna dunque che vi parli ancora di voi. Che mi applichi a dimostravi quel che valete. Quello che volete è stupido. Ci si prende gioco di voi, le battute di spirito vi snervano; non vi rendono giustizia, ecc., ecc. Credete di essere il primo in una simile situazione? Avete più genio di Chateaubriand e di Wagner? Non ci si è forse presi gioco di loro? Non ne sono morti. E per non ispirarvi troppo orgoglio, vi dirò che questi uomini sono dei modelli, ciascuno nel suo genere, e in un mondo molto ricco, mentre voi, voi non siete altro che il primo nella decrepitezza della vostra arte. Spero che non ve la prendiate per il modo diretto con cui vi tratto.

Evidentemente, e in modo inspiegabile, per Baudelaire la pittura aveva iniziato a declinare dopo Ingres e Delacroix, che certamente, al di là della loro grandezza, non esprimevano certo la modernità che Baudelaire, dal Salon 1846 al Pittore della vita moderna, ha continuato ad affermare, al punto che egli è di fatto colui che ha teorizzato il concetto stesso di modernità come esso si è consegnato al XX secolo. Oltre a questa incomprensione critica, c’è forse anche un’incomprensione umana. Manet era un uomo ricco, ben sistemato, che poteva, rifiutato al Salon, mettere in piedi a sue spese una grande esposizione personale. Baudelaire, inseguito dai debiti e dai suoi fantasmi, si era rifugiato in Belgio dove vive una straziante percezione della fine.41 “Il Mondo sta per finire” inizia l’ultima annotazione di Razzi. E in una nota della sequenza di frammenti intitolata Povero Belgio, scritta circa tre mesi dopo la lettera a Manet leggiamo42

Oggi, lunedì 28 agosto 1865, in una serata calda e umida, ho vagato attraverso i meandri di una Kermesse di strade [...] e ho colto sospeso nell’aria, con una gioia viva, frequenti sintomi di colera. L’ho dunque abbastanza invocato questo mostro adorato? Ho studiato con sufficiente attenzione i segni precursori della sua venuta? Quanto si fa attendere, l’orribile beneamato, l’Attila imparziale, il flagello divino che non sta a scegliere le sue vittime? Ho abbastanza supplicato il Signore Mio Dio di portarlo al più presto sugli argini puzzolenti della Senna? Quanto finalmente godrò contemplando la smorfia di agonia di questo popolo avvolto dalle volute del suo Stige contraffatto, del suo ruscello Briareo che trascina con sé più escrementi di quante siano le mosche nutrite dall’atmosfera che lo sovrasta! - Godrò dei terrori, delle torture della razza dai capelli gialli, nanchino e dal color lilla.

L’odio, la collera, nei confronti del Belgio, di quella che per lui era la contraffazione di Parigi, la capitale della vita moderna, si mescola anche al presagio della propria fine che lo coglierà alcuni mesi dopo, nel marzo del 1866, quando cadrà afasico sui gradini di una chiesa. 
23. L’altro grande dirimpettaio di Manet è Gustave Flaubert. Bourdieu accomuna la rivoluzione simbolica messa in atto da Manet a quella, per lui corrisondente e quasi speculare, messa in atto da Flaubert a cui ha dedicato il libro Les règles de l’art. Genèse et structure du champ littéraire. Flaubert, a differenza di Baudelaire, non si è mai occupato d’arte. Nel 1845 vede a Genova il trittico Tentazioni di Sant’Antonio, attribuito a Pieter Brueghel il Giovane. Ne rimane così colpito che inizia subito un libro, Le tentazioni di Sant’Antonio, che lo accompagnerà con successivi rifacimenti fino alla stesura definitiva del 1874. Per il resto le opere d’arte che compaiono nei suoi scritti sono parte dell’arredamento degli ambienti che descrive. L’unica volta in cui nomina il Salon è perché vi era esposto un dipinto della nipote Carolina. “Mi inorgoglirò al braccio della mia famosa nipotina” scrive in una lettera del 28.4.1880, nipote che egli aveva cercato decisamente di raccomandare perché vi fosse accolta.43

Nella nota al testo dell’edizione bilingue da lui curata de La Leggenda di san Giuliano l’Ospitaliere, Stefano Agosti mette in rilievo le varie fonti letterarie e iconografiche che stanno dietro al racconto, che non è, come scrive Flaubert, semplicemente “la storia di san Giovanni l’Ospitaliere, quale all’incirca la potete trovare, su una vetrata di chiesa nel mio paese”.44 Risulta a mio giudizio vana l’impresa tentata di Arden Reed di far emergere da questo racconto un “Flaubert pittore” e interessato all’arte figurativa. Che ci sia in lui una fantasia allucinatoria e visiva, o meglio visionaria, Flaubert lo dichiara esplicitamente in una lettera a Hyppolite Taine del novembre del 1866. C’è in lui un’attenzione straordinaria ai dettagli visivi, che va dalle allucinazioni di Salammbô, fino allo sguardo di Charles Bovary che sfiora le unghie di Emma intenta al cucito, “più polite degli avori di Dieppe”.45

C’è però effettivamente un’assonanza tra Manet e Flaubert, che forse avebbe dovuto interessare anche Bataille, che invece pare non coglierla. Entrambi sembrano tesi in prima istanza, uno ad una pittura intransitiva, che mostra ed esibisce se stessa, l’altro, Flaubert, a una scrittura altrettanto intransitiva, tesa a reggersi su se stessa. Si arriva allo stile, egli scrive in una lettera a Louise Colet del 14-15 agosto del 1846, soltanto “con un lavoro atroce, con un’ostinazione fanatica e devota”. Così, afferma in una lettera sempre a L. Colet del 16 gennaio 1852, vorrei fare “un libro su nulla, un libro senza rapporto esteriore, che si terrebbe da solo per la forza interna del suo stile, come la terra che senza esser sostenuta si tiene in aria, un libro senza quasi soggetto o almeno in cui il soggetto sarebbe quasi invisibile”.

Anche Manet ricordiamo aveva liquidato il soggetto, quello che i visitatori portavano con sé cercando nel Salon scene di battaglia, scene d’antichità, paesaggi. Ma come l’assenza di soggetto esplicito in Manet ha spinto Bataille verso la profondità del segreto, del delitto sacrificale, anche in Flaubert l’assenza di soggetto rinvia a un fondo abissale. Lo stile, la perfezione formale, è “fare diga al flusso di merda che ci invade. - Slanciamoci nell’ideale! [...]. L’industria ha sviluppato il Brutto in proporzioni gigantesche!”.46 Ma per fare diga all’orrore ci vuole “una rabbia fredda e permanente”, un’arte che abbia “un metodo inesorabile”,47 che stringa tutto in una rete perfetta, senza smagliature: una rete tesa sull’abisso del nulla.
 
Il mondo sembra preso dalla volgarità e da quel demone che Flaubert chiama bêtise. Dietro questo bordo opaco si apre l’abisso, lo sguardo vuoto e cavo del nulla. Il paradosso dell’arte sta nel disgregare questa crosta, che riflette appagata questo sguardo, per sostituire ad essa una rete che ci permetta di guardare dritto dentro l’abisso, che ci permetta di riconoscere il nostro destino. È uno sguardo che porta dentro di sé un riflesso tragico. Con questo spirito Flaubert nell’agosto 1872 inizia la fase preparatoria di “un libro che mi occuperà molti anni”. È la storia di “due buonuomini che copiano una sorta di enciclopedia farsesca”. Per questo, aggiunge, “mi toccherà studiare molte cose che ignoro: la chimica, la medicina l’agricoltura”. Il “piano è superbo”, ma l’impresa “è schiacciante e spaventosa”. Si tratta comunque di un libro più importante del Sant’Antonio, di cui ha terminato la terza e definitiva stesura. Ma bisogna essere “arrabbiati, e trasformarsi in frenetici, per intraprendere un libro simile”.48

È un libro di odio, “in cui esalerò la mia collera. Sì, mi sbarazzerò alla fine di ciò che mi soffoca. Vomiterò sui miei contemporanei il disgusto che essi mi ispirano, dovessi schiantarmi il cuore; sarà ampio e violento. [...] Vi prometto che urlerò la mia ultima elucubrazione [...]. Ci abbandoneremo a una letteratura feroce”.49 E finalmente, dopo la lettura di centinaia, o di migliaia di libri, dopo centinaia di pagine di annotazioni, dopo aver ripreso anche i suoi quaderni e le note stese per i romanzi precedenti, egli è pronto, nel 1874, “per un grande viaggio verso regioni ignote” da cui forse, scrive profeticamente, “non tornerò mai più”.50 Questo, Bouvard e Pécuchet, è il libro in cui egli spingerà finalmente all’oltranza l’idea, il libro che se riuscirà sarà, “parlando seriamente, il vertice dell’arte”, e al tempo stesso “il suo testamento”.51 È il libro che lo porterà alla morte. È anche il suo lascito all’epoca successiva: un libro che, come i romanzi di Dostoevskij o come i quadri di Manet, chiude l’Ottocento e apre ad un’altra fase della modernità. Se dopo Manet c’è Cézanne e dunque Picasso ma anche Francis Bacon, dopo la coppia Bouvard e Pécuchet di Flaubert stanno i funzionari di Kafka, stanno Vladimiro e Estragone di Samuel Beckett. 

25. Il testo di Bataille su Manet giunge al termine di un periodo di straordinaria tensione filosofica, che si esprime in testi di vera propria meditazione, in scritti diaristici, in testi narrativi. È il periodo che si apre all’inizio degli anni quaranta con i testi della Somma ateologica che prende avvio da Madame Edwarda e con l’Esperienza interiore, e che comprende Il colpevole e Su Nietzsche, a cui fanno seguito negli anni cinquanta L’abate C. e La parte maledetta e i testi su Lascaux e Manet, e quella serie di saggi che saranno raccolti nell’Erotismo.

 
Dal 1936 al 1939 Bataille dà vita a Acéphale. Nelle società primitive la comunità si fondava sul sacrificio. Nello sfarinamento della comunità nell’età contemporanea, Bataille cerca di riproporre una comunità ancora oggi fondata sul sacrificio. È il tentativo di Acéphale che era stata una rivista, ma anche il tentativo di una setta segreta parareligiosa, che aveva lo scopo appunto di fare comunità attraverso la ripresa di una pratica sacrificale. Di questa società, come dice Surya,52 non si sa praticamente nulla, forse per il segreto a cui erano tenuti gli adepti, ma più probabilmente perché il solo Bataille ne aveva chiaro il progetto e la natura. Bataille negli anni immediatamente successivi prende le distanze da quel tentativo, e scrive: “Fu un errore mostruoso, ma l’insieme dei miei scritti renderanno conto nello stesso tempo dell’errore e del valore di questa mostruosa intenzione” (OC, VI, 373). Bataille ha capito che il vero sacrificio è “il sacrificio nudo, senza montone e senza Isacco” (OC, V, 66). Il sacrificio possibile è quello che si compie nella poesia e nell’arte, quando nella ricerca della verità si mettono in gioco e letteralmente si sacrificano i linguaggi legati all’utile, alla mera rappresentazione. In una parola, quel sacrificio che Bataille scorge nell’opera di Manet. È questo che dovrebbe permettere di cogliere la vita anche nel suo lato oscuro, vale a dire il lato della morte, che porta la vita stessa a compimento. Tale compimento al di fuori del sacrificio è impossibile, in quanto nel momento in cui - nella nostra attesa di essere - giungiamo alla compiutezza toccando il compiuto, vale a dire la morte dentro la vita, o la vita dentro la morte, cessa allora la coscienza di questa pienezza, che è dunque soltanto supposta. 

26. Bataille si è scontrato con il più grande sistema filosofico dell’età moderna, la filosofia di Hegel, che aveva dominato in Francia a Parigi negli anni trenta con le lezioni di Alexandre Kojève,53 seguite da tutta l’intellettualità francese, da Merleau-Ponty a Hyppolite, da Lacan allo stesso Bataille. Bataille si oppone a questa filosofia, che considera mostruosa nella sua volontà di annientare la singolarità del soggetto come dell’oggetto. All’annientamento del soggetto Bataille risponde esponendo se stesso, la sua nuda soggettività, che non è semplicemente un ente, qualcosa che ha una valenza solo filosofica ma è “questo essere qui che è”. È questa la prospettiva filosoficamente vertiginosa che si apre e che scopre “il fondo dei mondi” (OC, V, p. 227), un illimitato. È l’oltranza metafisica che è nel cuore del singolo ente, della singola cosa, del singolo essere.

Hegel nella Fenomenologia dello spirito aveva affermato l’irrilevanza anche dell’oggetto. Il “questo qui che c’è”, finché esso non assurge all’universalità del concetto - vale a dire astraendosi e non essendo più lo stesso oggetto singolare - rimane del tutto irrilevante. È l’istanza metafisica che a partire da Platone ha cercato il senso dalle cose del mondo al di là delle cose stesse, relegate in quella che veniva chiamata la mera apparenza. La risposta di Friedrich Nietzsche nella conclusione della Prefazione dalla Gaia scienza è perentoria. Nietzsche si rifà ai Greci per affermare che ciò che è stato chiamato apparenza è la realtà, l’unica realtà che abbiamo:

Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; [...] arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare l’apparenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali per profondità!
La profondità della cosa. La profondità di ciò che c’è. Quello che abbiamo definito l’oltranza metafisica di Bataille (ma anche di Nietzsche) è qui. Non in una presunta verità superiore, ma nella profondità abissale di ciò che è perché “tutto ciò che è è più di ciò che è” (OC, III, 11). Ciò che è anche il suo oltre, è anche la sua essenza metafisica innominata e innominabile, che scuote ogni metafisica conosciuta. L’affermazione di Bataille di Madame Edwarda si ripete ne L’Abbé C.: “Ciò che è significa ben più di ciò che è” (OC, III, p. 555). È quanto Bataille afferma anche in rapporto a Manet. Manet iscrive un mondo di ricerche tese nella singolarità dei soggetti. Manet è all’origine dell’impressionismo? È possibile. Ma si situa ad una profondità estranea all’impressionismo. Nessuno ha caricato altrettanto il soggetto: se non di senso, vale a dire di ciò che, essendo appunto l’al-di-là del senso, è più del senso stesso (p. 95). La profondità della cosa che è più di quel che è. La profondità di questo essere qui che è. È di qui che Nietzsche muoverà verso quella che lui stesso definisce “metafisica artistica”. È anche per Bataille una tensione estrema. È spingersi verso la verità della cosa che, sembra sempre sfuggire. È l’immagine di una macchina in corsa, che cerca di raggiungere la macchina che la precede, mentre questa strappa in avanti rendendosi sempre più irraggiungibile (Abbé C., OC, III, p. 266). Questa immagine è la metafora di questa tensione che riverbera il suo senso sulla grande poesia e sulla grande arte in cui, come abbiamo detto, c’è il sacrificio della parola utile, dell’immagine servile. Bataille, come abbiamo già ricordato, oscilla su questo limite, sulla potenza e sull’impotenza dell’arte e della poesia, tanto che scrive - come abbiamo già osservato più sopra - l’Impossibile, per mostrare che nemmeno la poesia e l’arte al culmine del loro sacrificio, possono raggiungere la verità abissale, il segreto della cosa che si nasconde nel silenzio, nella nudità e nella morte. La poesia non può allora nemmeno dire la bellezza, o almeno non può esaurirla. Forse ci siamo illusi, in quanto la poesia, che pure ha rotto il legame con il linguaggio dell’utile, non può dire la nudità assoluta, quella nudità che è al contempo mistero e orrore. Ecco, Bataille cerca di accostarsi a questo mistero e a questo orrore presentandoci un’immagine enigmatica e terribile: “Bello come la coda di un topo nella neve” (OC, III, p. 136).


Ad ogni istante seguendo Bataille mi è parso di vedere alle sue spalle Manet. Cercherò ora di muovere direttamente all’incontro, al faccia a faccia, di Bataille con Manet. Il confronto che è stato una sorta di guida continua per tutto il percorso che ho cercato di fare fin qui nel territorio di Manet. E sui confini di questo territorio cercando sempre il varco verso il cuore di questa esperienza artistica, che ha segnato una cesura nel corso della storia dell’arte. Una cesura anche nella nostra percezione del mondo e della realtà. 

27. Françoise Cachin, presentando il Manet di Bataille, s’interroga, come abbiamo già ricordato, su quali siano i motivi d’interesse e d’attrazione di Manet per Bataille. Ciò che lo affascina, ipotizza Cachin, “è l’uomo del dubbio, che egli pensa nascosto sotto il dandy, colui che trasgredisce i valori stabiliti [...]. Un’immagine che avrebbe certamente stupito il pittore” che si presenta come un tranquillo borghese - così lo descrive Zola - e con una sorta di timidezza morale - così osserva Bataille -, che lo porta a voler rassicurare il suo pubblico. Eppure Manet, che scaglia nella cultura artistica del suo tempo, “una bomba simbolica”, come ha osservato Bourdieu, probabilmente portava in sé un segreto su cui Cachin non indaga, e che invece appassiona Bataille. Quel lato d’ombra e di morte che lo attira, anche se, afferma Cachin (p. 6) “le immagini di morte sono rare” nell’opera di Manet.
 
Bataille inizia il suo saggio ripetendo sostanzialmente quanto aveva scritto Zola, che ha fondato quella critica formalista che ha avuto in Fried e nello stesso Foucault dei continuatori. “Il nome di Manet nella storia della pittura ha un senso a parte. Manet non è soltanto un grande pittore: ha rotto con quelli che lo hanno preceduto; ha aperto il periodo in cui noi stessi viviamo, accordandosi con il mondo che è nostro; discordando con il mondo in cui visse che egli scandalizzò”. L’Olympia è “il primo capolavoro su cui la folla abbia riso d’un riso immenso” (Manet, pp. 15-16). Sia Georges Clemenceau, ricorda Bataille, che Mallarmé, grande amico di Manet, ricordano come egli ogni mattino si buttasse sulla tela “come se non avesse mai dipinto”. Mallarmé aggiunge che la sua opera veniva percepita dal pubblico, ma anche come abbiamo visto dai critici, come un pericolo, uno specchio perverso.54 Dunque, secondo Bataille, “nell’insignificanza della sua conversazione e del suo aspetto, quest’uomo, che apriva una strada a un mondo nuovo ha dissimulato lì un tormento” (p. 22). È il tormento dell’uomo moderno che, come afferma Valéry, fa coabitare in sé un’infinità di cose contraddittorie e inconciliabili tra di loro, che lo trasformano, come abbiamo già ricordato, “nella folle oscillazione di un ago magnetico che da nulla è orientato” (Manet, p. 26). Oppure, scavando più a fondo, scopriamo che in lui “abitava la morte a cui gli altri erano diventati ciechi” (Manet, p. 26-27)? Quella morte che, secondo Cachin, sarebbe così rara nei suoi dipinti?
 
Credo che Bataille si sia mosso sostanzialmente proprio a partire dalla morte, che appare in modo sconcertante nella prima opera che egli analizza a fondo, L’Exécution de Maximilien del 1867. 

28. Massimiliano d’Asburgo si proclama, spinto da Napoleone III, re del Messico e in Messico viene fucilato il 19 giugno 1867. La sua morte fece grande scalpore, e Manet la rappresenta in un grande quadro. L’opera è evidentemente influenzata dal quadro di Francisco Goya, Tres de mayo del 1814, che Manet conosceva, e che rappresentava una fucilazione avvenuta nel 1808, nel periodo della resistenza spagnola all’esercito francese.
Il quadro di Goya rappresenta un uomo con le braccia levate. Ai suoi piedi sangue e morte. I fucili sono puntanti su di lui, e gli uomini del plotone hanno la schiena curva come volessero avvicinare la bocca del fucile al condannato. Tra i fucilieri e il condannato c’è chi si copre gli occhi, chi forse prega, e sullo sfondo di un cielo notturno il profilo di una chiesa, case, persone che fanno da cornice a questo plumbeo e notturno paesaggio di morte. Questa scena, come la vediamo nel quadro di Goya, scrive Bataille, “è l’apparizione della morte stessa”. La morte, che è intimamente in noi e che ci sfugge sempre perché quando questa ha luogo cessa la nostra possibilità di conoscerla, qui, in questo dipinto, fa la sua apparizione. Goya coglie infatti “quel bagliore istantaneo della morte la cui folgorazione eccede lo splendore della luce: l’intensità di quel lampo distrugge la luce”. Il quadro di Goya è eloquente, eloquente come un grido. Ma il grido che da esso si leva va oltre l’udibile e ci colpisce come “un silenzio definitivo”. Un’eloquenza che dunque strangola se stessa e deve sprofondare nel silenzio (p. 46).

 
Manet ha visto questo quadro. In qualche modo lo ripete ne L’Exécution de Maximilien. Nel suo quadro Massimiliano è al centro, con una sorta di sombrero in testa. I suoi lineamenti sono appena distinguibili. Il suo vestito è del colore della divisa dei soldati e delle due persone che gli stanno accanto, e che lui tiene per mano. Dietro di lui c’è un muro, su cui si affacciano persone, forse anche dei bambini, spettatori curiosi e al tempo stesso indifferenti, e dietro ancora un prato, degli alberi, appena uno spicchio di cielo azzurro. Sei soldati puntano i fucili su di lui. Hanno sparato, e l’uomo alla destra di Massimiliano sembra sollevare la testa prima di cadere colpito. Massimiliano e l’altro uomo, alla sua sinistra non sembrano aver ancora percepito il colpo, che pure deve esserci stato, dal momento che il fumo che esce dalla canna dei fucili aleggia come una nebbia leggera tra i soldati e Massimiliano. Un settimo soldato con il berretto rosso, bordato di giallo, sta controllando a parte, indifferente, il suo fucile.

 
Questo quadro si ispira a Goya ed è l’opposto del quadro di Goya. Goya raggiunge - ha detto Bataille - il silenzio oltre l’urlo. Ma c’è silenzio anche nel quadro di Manet. Uno strano silenzio. 

29. “Manet dipinge la morte del condannato con la stessa indifferenza che se avesse scelto come oggetto del suo lavoro un fiore, o un pesce.” Anche la pittura di Manet, come quella di Goya, evidentemente racconta, e tuttavia questo quadro “è la negazione dell’eloquenza, è la negazione di una pittura che esprima, come fa il linguaggio, un sentimento”. Dunque Manet distrugge il soggetto, o meglio il significato del sogget to, come avviene - o meglio avverrà - di fatto nella pittura moderna in cui “il soggetto è il pretesto per dipingere”. La morte, la morte per fucilazione, dovrebbe impedire l’indifferenza, eppure pare che Manet abbia dipinto questo episodio come fosse insensibile. “Questo quadro richiama stranamente la desensibilizzazione di un dente”. Tra le macchie di colori emerge però “l’impressione disorientante che lì un sentimento avrebbe dovuto nascere dal soggetto: è la strana impressione di un’assenza” (p. 49). L’assenza è il soggetto vero - il significato vero - del quadro, da cui emerge una “pienezza pesante che riempie lo sguardo” (p. 50). Noi qui abbiamo a che fare con un’assenza, ma anche l’assenza ha un senso.
 
Questa tela è come una natura morta è stato detto, ma forse qui possiamo scorgere “un tratto del carattere di Manet, che di tanto in tanto associa la sua pittura alla morte”. Manet ha rovesciato l’eccesso di Goya in una intollerabile assenza, in un silenzio che “è fatto di una violenza interiore, che è la sua essenza”. Manet di fatto ha affondato l’attesa della morte che diventa urlo lacerante nel quadro di Goya. Manet di fatto ha ucciso anche la morte.55 È penetrato in essa, e ne ha dichiarato l’irrapresentabilità. Come possiamo pretendere di rappresentare un irrappresentabile, se non rappresentando l’irrappresentabilità stessa? Dunque il silenzio, l’assenza. Abbiamo altrove ricordato che per Bataille la pittura di Manet è simile a un crimine, a un delitto. Il delitto di colui che ha spinto la morte nell’assenza, in quell’assenza che continuiamo a a percepire. Che ci insegue, che ci perseguita. 
30. La seconda tappa di Bataille è “Lo scandalo dell’Olympia”, capitolo che si apre, come ho ricordato più sopra con il tema del sacrificio. Questa “pittura mette in gioco l’essenziale. La collera generale”, che ha accolto questo quadro, “risponde al fervore religioso - oscuro e inesplicato - che mette in gioco il creatore”. E quello stesso sacrificio al dio sconosciuto, a cui si sono sottoposti alcuni grandi artisti e poeti della modernità. L’Olympia, salutata al suo apparire con insulti e vere e proprie aggressioni, e poi accolta al Louvre e consacrata come un capolavoro, continua a inquietare. La collocazione nel tempio dell’arte non ha spento la sua forza. Io, come ho detto, ogni volta che vado a Parigi sono in una sorta di inquieto pellegrinaggio davanti a lei e al Déjeuner sur l’herbe che, secondo Bataille, ne è la preparazione. La sua forza è tale, come leggiamo in Leiris (Le ruban), che la sua immagine affiora in noi e ne sospettiamo la presenza anche in contesti in cui essa direttamente e esplicitamente non appare. Proprio in questi giorni, mentre sto scrivendo queste pagine, sono andato alla Galleria Nazionale di Arte moderna di Roma a vedere il nuovo allestimento, l’esposizione Time is out of joint. E la mia attenzione è presa prima da un’opera di Alain Jacquet del 1964, un Déjeuner sur l’herbe, un acrilico che riproduce oggi, attraverso personaggi di oggi, l’immagine del quadro di Manet del 1863. Ma forse in quella stessa sala, o in un’altra sala, mi fermo di fronte a una grande statua di Thomas Schütte, Bronzenfrau n. 10, del 2002. Assomiglia all’Olympia? È grande, i suoi occhi sono fissi e non attoniti come quelli di Olympia, la bocca ha un taglio severo. È seduta e non sdraiata, ha le gambe divaricate. Dunque non assomiglia per niente all’Olympia. Ha però un nastro intorno al collo. Un nastro bianco, mentre quello di Olympia è nero. Ma, come dice Valéry di Olympia, il nastro isola la testa dal corpo. Anche in questo bronzo il nastro ha una funzione analoga. Anche qui, forse, l’Olympia ha lasciato le sue tracce, il suo segno. Ma è tempo che ci riportiamo all’Olympia di Bataille, che “svela il segreto di Manet” e che approfondisce proprio  quell’assenza, quel silenzio, quella cancellazione del soggetto e che si spinge fin dentro il vuoto e l’assenza, che Bataille ha imparato ad osservare nell’Exécution de Maximilien messa a confronto con la grande pittura di Goya, con cui evidentemente Manet si era misurato. È un problema capire fino a che punto Manet si rendesse conto del rovesciamento che egli stava operando attraverso il confronto con un pittore, Goya, che sembrava riassumere in sé la grande eloquenza della grande pittura del passato e al contempo coprirla con un urlo lacerante che introduceva al silenzio. Sta di fatto che il rovesciamento è avvenuto e finalmente “entriamo in un mondo nuovo e il sipario si apre su Olympia”. È un mondo in cui regna davvero il silenzio. L’arte avrebbe dunque preso il posto “di tutto ciò che nel passato più lontano - fu sacro, fu maestoso” (Manet, p. 60). Bataille non poteva sospettare cosa l’arte sarebbe diventata ai nostri giorni in un processo di desacralizzazione, che Adorno aveva profetizzato già negli anni cinquanta per esempio in Minima moralia. Eppure il segreto di Olympia è forse ancora in grado di rianimare quell’orrore sacro, che Valéry aveva provato di fronte a questo dipinto, o almeno un’inquietudine, su cui pesa comunque ancora l’ombra del sacro.
 
È l’inquietudine che aveva animato il furore contro di lei, l’impura, la nudità assoluta, che porta in sé la morte perfino nel colore della sua pelle. E successivamente, dopo il furore, il tentativo di normalizzarla classificandola. Prima, come è stato scritto, facendone l’immagine di una prostituta, il nome stesso rinvierebbe a questa professione, e poi come un nudo, un classico nudo da Museo. 

31. Prima di andare avanti fermiamoci a guardarla. Fermiamoci a guardare. Siamo al Museo d’Orsay, di fronte all’Olympia, dipinto nel 1863, ed esposto al Salon nel 1865. Il quadro misura cm 130x190. Anche in quest’opera, come nell’Exécution de Maximilien, Manet si confronta con opere del passato, rovesciandole. È impossibile non richiamare alla mente La Venere di Urbino che Tiziano ha dipinto nel 1538 e ancora Goya, La Maja desnuda del 1800. La stanza in cui è distesa la Venere di Tiziano è vasta e aperta sul mondo attraverso una finestra che scorgiamo sul fondo. La Venere di Tiziano, come la Maja di Goya, ci guarda. La stanza in cui è sdraiata Olympia non ha invece nessuna profondità. Non si apre su nulla e Olympia non ci guarda, non guarda nessuno. Il suo sguardo è fisso, è perduto, è assente, come perduto in un altrove, forse nella morte.

 
Torniamo a guardarla. Un letto con lenzuola e cuscino bianchi e un copriletto con le frange, giallo e ricamato a fiori. Olympia è sdraiata su questo letto, in parte sopra il copriletto, e poi sui cuscini su cui appoggia il gomito destro. Il cuscino si leva quasi in verticale, e non riesco a capire come e dove - su quale parete - possa poggiare. Anche la testa di Olympia è solo parzialmente appoggiata al cuscino, il che la mette nella posizione di avere il volto completamente offerto allo sguardo. Il corpo di Olympia è interamente scoperto. Ha un fiore rosa dietro l’orecchio sinistro, un bracciale al polso destro, un nastrino nero intorno al collo annodato alla gola a cui è appeso un piccolo gioiello, e le pianelle, una calzata al piede destro, l’altra abbandonata sulla coltre. Tutto il suo corpo è offerto: ha le gambe incrociate, i seni erti e i capezzoli puntuti e, in evidenza, l’incavo dell’ombelico. Solo il pube è nascosto. La mano destra lo copre con il palmo, mentre il pollice si distende lungo l’incavo dell’inguine, e le altre dita si piegano seguendo la rotondità della coscia su cui posano.

 
Il corpo è magro, anche se le spalle, come il volto frontale, sono piuttosto larghi, quasi mascolini. E ancora una volta quegli occhi, gli occhi comparsi in molti quadri contemporanei a Olympia e che ritroveremo anche nella donna de Le chemin de fer (1873) e nella cameriera di un Bar aux Folies-Bergère (1881). Un’altra figura è presente nel quadro, la serva nera con un fazzoletto in testa, che porge a Olympia, guardandola, un gran mazzo di fiori. Olympia indifferente, come perduta, non volge lo sguardo verso i fiori che le sono offerti. Scorgiamo infine un  gatto nero che se ne sta ritto in fondo al letto e guarda nella stessa direzione in cui guarda Olympia, i piccoli occhi fissi e sbarrati.
Bataille di fronte all’Olympia ricorda le affermazioni di Valéry: l’orrore sacro, l’impura per eccellenza, “vestale bestiale votata al nudo assoluto”, “barbarie primitiva, animalità rituale” relativa alla prostituzione delle grandi città. È possibile che questo sia il testo, l’argomento, il soggetto del quadro, dice Bataille, ma questo “testo”, quello che Valéry e altri hanno letto nel quadro, si stacca da esso, allo stesso modo che la rappresentazione di Manet della morte di Massimiliano si stacca dal racconto di quella morte.

Nell’uno e nell’altro caso, il testo è cancellato dal quadro. E ciò che il quadro significa non è il testo ma la cancellazione. È nella misura in cui Manet non ha voluto dire ciò che ha detto Valéry - nella misura in cui anzi ne ha soppresso (polverizzato) il senso -, che questa donna nuda è lì; nella sua esattezza provocante lei non è nulla, la sua nudità (che si accorda è vero a quella del corpo) è il silenzio che se ne sprigiona come quello di una nave arenata, di una nave vuota: è l’“orrore sacro” della sua presenza la cui semplicità è quella dell’assenza (Bataille, p. 62).

Ciò che domina nel quadro, prosegue Bataille, è il sentimento di una soppressione, della durezza di una distruzione, che ha a suo tempo scandalizzato i visitatori del Salon e tra loro, come abbiamo ricordato, anche Théophile Gautier. È ciò che già si poteva intravvedere ne La musique aux Tuilerie (1860) e certamente nel Déjeuner sur l’herbe, che opera anch’esso un rovesciamento del passato, vale a dire del quadro di Giorgio-ne (o di Tiziano) a cui esso si ispira, il Concerto campestre del 1510.56 Manet non era soddisfatto dell’espediente delle giacche della Musique, o degli uomini vestiti accanto a un nudo del Déjeuner. Doveva andare oltre. Quegli espedienti disperdevano ciò che doveva rimanere concentrato. Nel segreto, il silenzio della camera, Olympia giunge alla durezza, all’opacità della violenza: questa figura chiara, che compone con il lenzuolo bianco il suo splendore acido, non è attenuata da nulla (p. 68).
La conclusione è terribile, come terribile è evidentemente il segreto di Manet. “L’Olympia tutta intera si distingue male da un delitto o dallo spettacolo della morte” (p. 69). In lei tutto scivola nell’indifferenza della bellezza. Ma è questa indifferenza che nasconde il segreto, “il segreto di Manet”, che è il titolo di un capitolo del saggio di Bataille. L’indifferenza di Olympia è l’indifferenza di Manet, ed è “l’indifferenza suprema” che ci consegna un silenzio abissale. “È il silenzio di una distruzione rigorosa. L’Olympia rappresenta il culmine dell’eleganza in quanto il gioco dei colori rari ha in essa la stessa intensità della negazione di un mondo convenzionale. Le convenzioni erano ormai svuotate di senso poiché il soggetto di cui era stato annullato il senso non era più altro che il pretesto di un gioco e del violento desiderio di giocarlo” (p. 73). È la stessa operazione che Bataille ha individuato nell’Exécution de Maximilien. È questo che fa di Olympia - che forse non è il più bel quadro rispetto ad altri - un’opera decisiva, in quanto esprime “quel silenzio che la isola che lo fa grande, e che ha permesso al solo Valéry di parlarne gravemente nominando l’“orrore sacro” (p. 77) che ad essa si accompagna. Dunque L’Olympia svela ai nostri occhi il segreto di Manet. Questo è interamente svelato soltanto nell’Olympia, ma una volta scoperto ne troveremo ovunque le tracce (p. 78).   Come vedremo, proseguendo nella terza tappa del faccia a faccia di Bataille con Manet, non solo Olympia svela il suo segreto. Anche Berthe Morisot ritratta più volte e soprattutto ne Le balcon lo svela. A meno che lo sguardo di Berthe non disveli il segreto ma anzi consegni al segreto il segreto. Lo inabissi dunque in un segreto ancora più profondo. Ma prima di fare questo passo, ancora un’osservazione di Bataille sul rapporto di Manet con l’impressionismo. Risulta chiaro, che se Manet può aver aperto con la sua audacia la strada all’impressionismo, non ne condivide però lo spirito e le modalità espressive. Forse ha fatto qualche passo in quella direzione spinto proprio da Berthe Morisot, che era lei stessa un’artista. Quando gli impressionisti, tra cui Berthe, espongono nel 1874 egli non partecipa alla mostra (Bataille, Manet, pp. 100-101).
 
Il passo successivo di Bataille lungo la strada che egli sta aprendo nell’opera di Manet è Le balcon (1868-69) in cui “c’è una tale divergenza di sguardi che ne proviamo un malessere” (p. 82). 
32. Su un balcone con la ringhiera verde, su cui appoggia l’avambraccio destro, sta seduta su uno sgabello Berthe Morisot, la modella che diventerà la cognata di Manet, a sua volta artista di notevole talento. Alla sua destra sta un vaso di fiori, forse delle ortensie, e una persiana verde. Un cagnolino si affaccia ai suoi piedi tra le gambe dello sgabello. I capelli sono neri, come neri sono i suoi occhi, e nero è il nastro che circonda il suo collo, a cui è appeso - come in Olympia - un gioiello. Tra le mani tiene un ventaglio chiuso, rosso. Alla sua sinistra una donna, come lei vestita di bianco. Tiene tra le braccia un ombrello verde, e si sta sistemando un polsino, come fosse imbarazzata e dovesse tenere occupate le mani. Tra le due donne, in posizione arretrata, impettito e imponente, c’è un uomo, forse con una sigaretta tra le dita della mano sinistra. Dietro di loro, nell’ombra che rende quasi indistinguibili tutte le cose sullo sfondo, un ragazzo che tiene sollevato un oggetto, forse un recipiente, forse una teiera. Gli sguardi, come ha osservato Bataille, di tutti i personaggi sul balcone sono divergenti. Come divergenti sono per esempio gli sguardi di tutti i personaggi di Une baignade à Asnières di Georges Seurat,57 che a me sembra un Manet cristallizzato, come rappreso sull’orlo di quel fondo in cui Manet cercava di portare il suo e il nostro sguardo.

33. Manet ha ritratto più volte Berthe Morisot: Le repos-Portrait de Berthe Morisot (1870-1871), Berthe Morisot au bouquet de violettes (1872), Berthe Morisot à l’eventail (1872), Portrait de Berthe Morisot à l’éventail (1874). Tutti questi ritratti, ma soprattutto dall’immagine de Le balcon, suggeriscono che mentre lo sguardo di Olympia è vuoto, è uno specchio in cui si specchia l’assenza, il nulla, gli occhi di Berthe Morisot sono come un buco nero che attrae a sé e inabissa ciò che la circonda come l’implosione di una stella. Bataille osserva che proprio l’insignificanza delle persone sul Balcone finisce per concentrare l’attenzione “sullo sguardo eccessivo, sui grandi occhi di Berthe Morisot. Così che di questa pittura allucinata possiamo dire che il soggetto ci è nello stesso tempo dato e ritirato” (p. 85).

 
Ne Le bal masqué à l’Opéra (1873) domina ancora una volta quell’“assenza di significato che un’arte eclatante esaspera al punto che la stessa vacuità diventa la strada che conduce alla profondità” (p. 87). Il quadro rappresenta l’indistinzione di una festa: un movimento di cappelli a cilindro, neri, un muro indistinto di vesti nere, maschili e femminile, tra cui si mescola qualche figura femminile colorata e mascherata. Sopra il muro nero s’intravvede una loggia da cui sporge una gamba nuda o coperta da una calza leggera con uno stivaletto rosso. È una folla indistinta, come quella in cui si dissolve ogni individualità. È la folla della festa, in cui tutti stanno come distratti, sospesi nel vuoto, in quella vacuità che è abissale e insondabile profondità che si spinge fino all’oscuro. 

34. Il vuoto - lo abbiamo appreso - conduce nel profondo. Questo è Manet che darà ancora, per un’ultima volta,
l’assenza del vuoto in una delle sue composizioni. Un bar aux Folies-Bergère (1881) è un incantesimo della luce che rinvia il gioco di uno specchio di grandi dimensioni. In primo piano le bottiglie e i frutti sono illuminati direttamente da una e dall’altra parte della cameriera, grande e briosa, è vero, ma in qualche modo spenta, lo sguardo appannato di fatica sotto la frangia di capelli biondi (p. 88).
È strano che Bataille non abbia colto che la cameriera del Bar aux Folies-Bergère è tutt’altro che briosa, altrimenti non si appoggerebbe con entrambi i palmi al piano di marmo del bancone, come fosse davvero stanca, come fosse sfinita. È strano che non abbia notato che il gioiello che Suzon, la modella che nel quadro è ritratta, porta al collo, appeso ad un nastro nero, è molto simile a quello di Olympia e a quello che Berthe portava ne Le balcon. E che i suoi occhi, neri come quelli di Berthe, si stanno invece spegnendo e svuotando come quelli di Olympia, come se egli, nell’ultimo suo grande quadro, avesse ripreso alcuni tratti decisivi di tutto il suo percorso, della sua esplorazione del segreto. Esplorazione che continua, e che riporterà Bataille ancora a Berthe Morisot e anche alla Cameriera del Bar che qui ha fatto apparire e che ha frettolosamente abbandonato.

35. Il segreto è ora rivelato? È solo parzialmente rivelato. L’interrogazione di Bataille prosegue. Manet, lo abbiamo già ricordato, probabilmente “non è il più grande pittore del suo tempo”. L’andamento, in prima istanza, meno sicuro di Manet rispetto a Corot e a Delacroix e Courbet, nasce “da uno slancio più aggressivo, più malato anche. Manet sconcerta e non vuole soddisfare: cerca persino di deludere. Contesta la possibilità di rappresentare che la tela gli propone. [...] Il virtuosismo di Manet si apparenta a quello della pittura francese della sua epoca, ma è più carico di ricerche oblique, più ricco di rovesciamenti” (p. 92). Bataille torna alla questione capitale del soggetto, che non è trascurato da Manet. Il suo rapporto con il soggetto è simile a quello del sacrificante con la vittima sacrificale. Il sacrificio infatti “distrugge la vittima senza trascurarla”. Torna ancora, come si vede, la tematica sacrificale che, secondo Bataille è sottesa a tutta l’opera di Manet. Il soggetto, in questo atto sacrificale, più che annientato “è trasfigurato nella nudità di questa pittura”. La trasfigurazione è il momento centrale dell’atto sacrificale in ogni religione, anche all’interno della religione cattolica, nella trasfigurazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Cristo. Per questo Manet si colloca a “una profondità che è estranea all’impressionismo”. Infatti, come abbiamo già ricordato, ed è un momento decisivo del pensiero di Bataille, “nessuno ha caricato di più il soggetto: se non di ciò che, non essendo che l’al di là del senso, è più di esso”. Un senso che eccede se stesso, dunque. Il soggetto si carica di una ulteriorità, di un’oltranza, che è la tensione metafisica che Bataille impone al rapporto del pittore con la realtà, e che impone anche a noi, al nostro rapporto con la realtà.

 
Rapporto difficile, tanto che spesso in Manet sembra emergere il dubbio, l’esitazione, una tensione che sembra contraddire all’indifferenza di cui egli ha caricato le sue opere, o almeno la superficie delle sue opere. C’è nel suo carattere “una sorta di crepa, una malinconia soffocante che si unisce a quella natura soleggiata, in cui il pittore italiano De Nittis vedeva il fondo dell’amico”. A questa malinconia, a questa tensione, a questa incertezza si unisce “la grevità di una sensualità curiosa, snervata. La sensualità che è, senza dubbio, il retrofondo cancellato dell’Olympia, ma la nudità della ragazza ha la semplicità di  una ossessione. Un bar aux Folies-Bergère è sì la festa illimitata della luce, che assorbe la bellezza inerte della cameriera, ma una ambigua facilità morale fa pesare ancora una volta il silenzio su questo quadro. Un bar aux Folies-Bergère partecipa dello stesso gioco irrigidito di un moderno sinistro e di un equivoco voluttuoso” (p. 102). 

36. Manet, verso la metà degli anni settanta, inizia una serie di pitture di genere a cui fa eccezione le Portrait de Stéphane Mallarmé (1876) e ovviamente l’ultimo grande quadro, Un bar aux Folies-Bergère. Il ritratto di Mallarmé è secondo Baitaille il capolavoro di Manet dopo l’Olympia. Manet e Mallarmé erano amici. Mallarmé abitava vicino a lui e quasi ogni giorno passava dal suo studio. C’è una grazia nell’incontro di questi due uomini, che inseguivano l’uno e l’altro la loro chimera, l’uno sulla tela, l’altro “nel gioco imprevedibile delle parole” (p. 112). Mallarmé ha uno sguardo evasivo che richiama a una fuga, in senso musicale, nella stanza. Il suo volto non definito dalla pittura viene liberato da ogni pesantezza. L’opera sembra negare quel principio d’indifferenza che sembrava dominare la pittura di Manet, e sembra restituire al dipinto l’eloquenza di un soggetto definito. Non poteva essere altrimenti, dal momento che in Mallarmé Manet rappresentava non solo il poeta, ma l’arte stessa. La poesia, la pittura, tutto.

Valéry, annota Bataille (p. 112), associa “il trionfo di Manet al suo incontro con la poesia - prima nella persona di Baudelaire, e poi di Mallarmé”. Uno, Baudelaire, gli ha insegnato la frenesia e al contempo l’atonia della vita moderna. L’altro, Mallarmé, insieme a Manet, è all’origine di quella che George Steiner ha definito la rottura del patto mimetico che era ciò che garantiva la corrispondenza tra un’immagine raffigurata e un oggetto nella realtà, tra una parola e un correlato oggettivo, per usare un’espressione di T.S. Eliot. Steiner pensa che questo contratto tra parola e mondo “sia stato rotto per la prima volta in senso radicale e sistematico [...] durante il periodo che va dagli anni 1870 agli anni 1930. Questa rottura del patto tra parola e mondo costituisce una delle poche rivoluzioni autentiche dello spirito nella storia occidentale e definisce la modernità stessa”.58 La parola fiore, come dice Mallarmé, non è in nessun mazzo di fiori: è il segno di un’assenza. Ed è proprio la rottura di questo patto che impone una nuova e terribile responsabilità. La letteratura e l’arte, prosegue Steiner, penetrano in un mondo che è ridiventato mistero, in cui nessun patto ci garantisce un senso delle cose. Si affacciano sul mistero del mondo e dell’essere, ci propongono una nuova relazione tra Eros e Logos, che rinvia alla creazione “che non è mai totalmente accessibile”. Ci rinviano, in una parola, al di là di noi stessi: appunto al segreto, al mistero. Comunicare “questa rappresentazione a un altro essere umano è un atto morale”, è un atto di responsabilità.

 
Lo sguardo in fuga di Mallarmé comunica anche questo. Ma, avvicinandosi alla conclusione del saggio, Bataille non poteva non ritornare sui suoi quadri, sulle opere che egli ha più amato di Manet. Bataille parla dell’atonia di certi ritratti, per tornare all’atonia delle figure che stanno accanto a Berthe Morisot su quel balcone su cui egli ha già puntato la sua attenzione. Quei volti non sono che “lo scrigno neutro per il gioiello che è il viso di Berthe Morisot, illuminato dall’interno dall’ardore dell’arte e della bellezza”. Quel volto e quello sguardo sono addirittura più di Olympia.

Le differenti immagini di Victorine Meurent,59 tra cui quella di Olympia, non avevano questo senso: il loro splendore è offuscato, letteralmente spento dal sentimento di insignificanza che l’insieme del quadro impone. Per prima, d’improvviso, la  Berthe Morisot de Le balcon si rivela inattesa, calma, come una stella tra le nubi nere”.

Riapparirà anche in seguito, occupando la superficie del quadro che ce la presenta “come se avesse sempre avuto qualcosa di immotivato”, che la poneva sempre sull’orlo di una fuga o di una sparizione. Un soggetto vero e proprio che si affaccia proprio ne Le balcon “o nel tremito di altri ritratti”, ma come sospeso e celato “tra le stecche di un ventaglio che ne lascia intravedere gli occhi”. 

37. Berthe Morisot porta ad una sorta di tradimento di Olympia. Infatti, se è vero che “segreto iniziale di Manet traspare in quell’Olympia che duplica una Venere del Rinascimento, un segreto più profondo forse si scopre, dissimulato dalle stecche del ventaglio, ma per meglio scoprirne la profondità”.60 Dunque un segreto, che pareva disvelato, o sul punto di disvelarsi, ci ha portati a un segreto più profondo. Come ha detto Marina Cvetaeva - lo abbiamo già ricordato - il segreto della Gioconda è esattamente il suo segreto. La Gioconda ha infatti il compito di far emergere un segreto che nel quadro non viene sciolto, ma reso evidente. Così come Conrad ci ha ricordato che un racconto o un’opera d’arte è come la luce della luna, che illumina gli aloni oscuri che la circondano. Vale a dire il segreto e il mistero che la circondano.

 
Cosa può aggiungere Bataille a questo punto? “Ho voluto mostrare, scrive, in Manet uno dei pittori più segreti, e più difficilmente penetrabili”. Certo il più degno di annunciare la nascita della pittura moderna che dispiega davanti ai nostri occhi la ricchezza e la varietà delle sue forme. Ma Bataille è ben cosciente che la morte del soggetto pittorico, che ha annunciato all’inizio del suo saggio, non apre a una pittura intransitiva, che presenta solo se stessa. Apre a un vuoto, a una sottrazione, che è il soggetto tragico che le è sotteso, e che ne Le balcon addirittura riaffiora in primo piano, negli occhi di Berthe Morisot, con una profondità abissale, una grevità tempestosa.61 Occhi che sembrano fissarsi sulla scena cava, lontana e perduta, di una misteriosa tragedia. E che sembrano guardare profeticamente al terribile secolo venturo, quel Ventesimo secolo, in cui la pittura per rappresentare la realtà del proprio tempo ha dovuto disgregarsi, aprire in se stessa insanabili crepe, in un processo di profonda e drammatica defigurazione.

IL SEGRETO DI MANET
IL SEGRETO DI MANET
Franco Rella