fuga da bisanzio.
1908-1918

la mostra personale di Klimt all’interno della Kunstschau del 1908 si rivela un grande successo personale. Da circa cinque anni l’artista non aveva esposto pubblicamente a causa dei suoi insuccessi con i pannelli allegorici per l’Università ma anche perché impegnato con l’importante commissione pubblica e “condivisa” dagli artisti della Wiener Werkstätte per Palazzo Stoclet a Bruxelles insieme al suo amico Josef Hoffmann. Repentinamente Klimt abbandona ideologie e stili legati alla Secessione viennese. D’altra parte lo stesso Hoffmann sarà il progettista del padiglione della Kunstschau che cancella definitivamente l’idea e il progetto del Palazzo della Secessione come tempio dell’arte, per far posto a un Lustschloss, a uno spazio interamente dedicato al “piacere”, al godimento dell’arte. Persino nel catalogo della mostra, che comprende oltre opere d’arte, vestiti, ceramiche e manufatti vari, viene riportata una citazione di Oscar Wilde che definisce lo spazio dell’esperienza artistica solo e unicamente in maniera autoreferenziale.

 
L’aspetto interessante e innovativo della Kunstschau, pur all’interno di un ritorno “all’arte per l’arte”, è la volontà o forse solo il desiderio di proporsi come una “comunità di artisti”; una comunità o una idea di comunità che si lega sia alle avanguardie storiche del Novecento che alla pratica artistica contemporanea.

 
Nel frattempo Gustav Klimt non sembra essere più interessato a una idea e a una pratica di “comunità”.
I suoi ritratti presentano figure femminili in cui l’allegoria cede il posto a un lussureggiante sfondo che assorbe quasi interamente il corpo della persona ritratta con un ritorno quasi anacronistico a certi modelli ottocenteschi.

 
Dal 1904 al 1908, Klimt più che dipingere figure o allegorie crea dei veri e propri “ambienti” intessuti di geometrie, foglie d’oro e motivi ornamentali in cui si inseriscono scorci di volti o di mani. Emblema e insieme icona, ancora oggi contemporanea, di tutta questa serie di magnifici ritratti è Il bacio, un dipinto quadrato di cm 180 x 180, realizzato tra il 1907 e il 1908. I baci, nella storia dell’arte, hanno un loro romantico percorso spesso sovradimensionato rispetto al loro valore intrinseco. Basti pensare al Bacio di Francesco Hayez (nella versione presente nella Pinacoteca di Brera a Milano) ma anche ai “baci” scambiati dagli attori nei film hollywoodiani. Insomma, baciarsi, nell’arte, nei film e nelle fotografie possiede una sua specifica sensualità, un certo grado di eros e persino una lunghezza, una dimensione temporale data proprio da una certa aspettativa di durata dell’atto stesso. Il bacio di Klimt dura molto, possiede quasi una sorta di statuaria eternità che lo apparenta al bacio più lungo della storia del cinema, quello scambiato in Notorious (1946) tra Cary Grant e Ingrid Bergman.

 
In Klimt, infatti, che ora abbandona le forme organiche Jugendstil, il ritratto, il suo bacio, si ritagliano uno spazio frammentario e parziale all’interno di un involucro protettivo e decorativo che inquadra (nel senso letterale del termine visto che le sue tele sono dei quadrati) e definisce il senso stesso della pittura. La pittura è essenzialmente una tenda, un motivo astratto, un quasi niente che non dice più niente, che non racconta o rappresenta altro che se stessa. Il bacio di Klimt, quindi, ha il record di durata, nella storia dell’arte, e fa di tutti noi, come direbbe Alfred Hitchcock, dei grandi e morbosi voyeurs (e ovviamente lo direbbe anche Freud).

 
Così come lo è stato Picasso, più a lungo nel Novecento, anche Klimt è stato una sorta di cannibale delle esperienze artistiche dei suoi contemporanei.

 
Negli ultimi anni della sua vita Gustav Klimt, muta radicalmente stile e reagisce alle opere dei pittori più giovani e vicini a lui come Kokoschka e Schiele, così come alle opere dei maggiori protagonisti delle avanguardie storiche come Picasso e Matisse. L’arte europea della prima decade del Novecento è dominata dalle immagini potenti e rivoluzionarie dei cubisti, degli espressionisti e dei Fauves così come dai “cavalieri” e poi dai quadri astratti di Kandinskij. Finalità dell’artista sarà quella di liberarsi definitivamente dalla necessità di riprodurre fedelmente la natura visibile delle cose dedicandosi all’invisibile grammatica della realtà. L’artista, il pittore crea un mondo originale sulla tela, con i colori genera forme autonome, imprevedibili, senza più dover imitare il mondo esteriore. Anche Klimt abbandona quasi del tutto l’uso dell’oro e gli elementi simbolici si trasformano in un campionario di elementi decorativi ridondanti di colore. Dopo aver visitato Parigi nel 1909 e dopo l’esposizione alla Kunstschau delle opere di Matisse, Klimt dipinge immagini sempre più astratte, riducendo lo spazio, sia che si tratti dello sfondo o di un pavimento, e le cose, un abito, una poltrona, ma anche la chioma di un albero, una siepe, la superficie brillante di un lago in sorta di tappezzeria coloratissima. L’artista s’ispira in molti casi all’uso del colore nelle stampe giapponesi, da cui aveva già ricavato suggerimenti per le sue rappresentazioni bidimensionali delle figure e per l’organizzazione dei tagli compositivi. Da quelle stampe aveva anche compreso come gestire il vuoto, facendo sì che esso costituisse un pieno in senso espressivo e ritmico all’interno dell’immagine. Così il colore, reso con pennellate fitte, quasi informi, o con grandi stesure, e poi gli elementi decorativi floreali variati cromaticamente, i ghirigori e le cellule anch’esse colorate, definiscono le nuove immagini, quasi caleidoscopiche, creano un diverso gioco di profondità, prospettive. Una fitta trama di “emozioni” cromatiche accerchia i pochi dettagli di natura ancora figurativa, volti, arti, seni, glutei, mani, come nel secondo Ritratto di Adele Bloch-Bauer, dipinto nel 1912, in La vergine della Galleria Nazionale di Praga, nel Ritratto di Eugenia Primavesi del 1913-1914, o in La culla, un’opera rimasta incompiuta alla morte dell’artista il 6 febbraio 1918 provocata da un ictus cerebrale. In quest’olio su tela di formato quadrato la testolina del neonato sguscia fuori da una corolla di stoffe multicolori. La creatura, trasformata in un piccolo pagliaccio, ci osserva dall’alto di una piramide, una massa di pezze colorate, che mentre proteggono l’infante, sembrano anche soffocarlo. Lo sfondo è dipinto con pennellate molto liquide, velocemente, in modo da confondere lo spettatore che non riconosce più il senso della posizione: se, cioè, la culla sia posta in verticale o in orizzontale. Vi riscontriamo un’estrema riflessione sulla vita e la morte, quasi sarcastica; pur nella dolcezza estrema con cui l’artista ha guardato all’inizio di un’esistenza, sembra prevalere lo sconforto, un sentimento generale di angoscia per il destino futuro del genere umano. Con quest’opera, Klimt lascia un testamento pittorico d’inquietante significato. Sono anni terribili per l’Europa intera, e per il mondo, che conosce l’orrore della guerra. L’impero austroungarico, alla fine del primo conflitto mondiale si dissolverà e con esso naufragheranno, assieme alle illusioni di progresso, i valori e le certezze di un’intera civiltà e di un mondo multiculturale.

 
Una storia di ieri ma che ci parla, per immagini, anche al nostro presente e non in forma di farsa, come direbbe Marx.
Un ripresentarsi che assume valore psicologico e sociale e che riserva all’arte un destino e una funzione che sarebbe bene tenere presente… oggi. 

GUSTAV KLIMT
GUSTAV KLIMT
Giovanni Iovane, Sergio Risaliti