la follia

«Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascona oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella».

Vincent van Gogh a Theo, 1888

Quel tragico 23 dicembre 1888 in cui si mozza l’orecchio sinistro con un rasoio, Van Gogh è colto dal primo clamoroso attacco di follia. Il male di Vincent esplode in tutta la sua virulenza dopo anni di latenza nelle profondità del suo ego. I segni di una personalità disturbata sono in effetti già rintracciabili in molti dei suoi passati comportamenti, dal fanatismo del suo impegno religioso al tempo della predicazione nel Borinage all’esaltazione che caratterizza le sue fallimentari esperienze amorose. Già nel 1877 Van Gogh parla al fratello di un suo profondo sconforto dovuto all’«avvilimento in cui vivo in seguito al fallimento di ogni cosa che ho finora intrapreso, meritandomi un fiume di rimproveri». Il senso di colpa che accompagnerà Vincent per tutta la vita, destinato a crescere a causa della dipendenza economica da Theo, è già tutto in queste parole. La mancanza di affetto e di stima da parte degli altri e l’incapacità di avere legami stabili non faranno che peggiorare la sua situazione: «Come chiunque altro, io sento il bisogno di una famiglia, di amicizie, di affetto, di rapporti cordiali col prossimo; non sono fatto di sasso o di ferro, come un idrante o un lampione, e quindi non posso vivere privo di tutto questo senza sentire un profondo senso di vuoto», scrive da Wasmes nel 1879, nel pieno del suo apostolato tra i minatori.

In altre lettere c’è invece la consapevolezza della propria diversità, a causa della quale Vincent si vede rifiutato dalla gente comune quasi fosse un criminale, un atteggiamento che lo esaspera. Nel 1882, nella lettera in cui Vincent rievoca il bruciante rifiuto della cugina Kee, che non aveva accettato il suo amore, spunta un accenno al suicidio, qui condannato in modo categorico: «Sentivo allora una malinconia inesprimibile che non riuscirei mai a descriverti. So che allora, molto molto spesso pensavo a un detto virile di padre Millet: “Il m’a toujours semblé que le suicide était une action de malhonnête homme”. Il vuoto, l’inesprimibile dolore entro di me mi facevano pensare, sì, posso capire come la gent si affoghi. Ma ero ben lontano dall’approvarlo».


Alberi davanti al ricovero di Saint-Paul (Saint-Rémy, 1889); Los Angeles, Armand Hammer Collection.

Altrove, emerge poi la bassa autostima di Van Gogh, accresciuta dalla frustrazione di un lavoro svolto con grande pena e perennemente invenduto. Nell’ottobre 1888, due mesi prima che si verifichi l’episodio di Arles, scrive: «Speriamo solo che forse il fare quadri mi diventi un po’ meno difficile, e quanto al numero non ce ne saranno mai abbastanza. Il fatto che non si vendano ora, mi dà una tale angoscia».

Al disagio psichico di Van Gogh si sommeranno inoltre, nel tempo, alcune circostanze aggravanti che contribuiranno al manifestarsi della malattia mentale. Una è la sua condizione di isolamento sul piano sentimentale e più in generale sul piano umano; nel 1884 osserva: «Sulla possibilità che io diventi un completo isolato, non dico che ciò non debba accadere, non mi aspetto altro, e sarò contento se soltanto la vita rimarrà per me possibile e sopportabile». Oltre a ciò, il suo tenore di vita è molto basso, ha ogni sorta di problemi materiali e soffrire la fame è spesso per lui la regola. C’è poi la sua dipendenza economica dal fratello, che lo fa sentire un’inutile zavorra, con conseguenti pensieri di morte: «Mi dispiace di non essermi ammalato e di non esser morto nel Borinage, quella volta, anziché dedicarmi alla pittura, perché non sono che un peso per te», gli scrive. Infine, un’altra aggravante per la comparsa dei suoi disturbi mentali è la “familiarità”: di fatto, la sorella Wilhelmine passò quasi quarant’anni in manicomio, mentre il fratello più giovane, Cor, si suicidò nel 1900.

Ma, in definitiva, di quale patologia soffriva Van Gogh, che nome dare alla sua follia una volta esplosa? Non possedendo alcun esame clinico ma solo la sua stessa testimonianza, quella dei medici che lo ebbero in cura e quella dei suoi amici, la diagnosi si presenta difficile se non impossibile. Nei due ospedali in cui fu ricoverato - quello di Arles e quello di Saint-Rémy - Vincent fu ritenuto epilettico. In una lettera alla sorella Wilhelmine, parla delle sue crisi, affermando: «Non sapevo assolutamente quel che dicevo, volevo, facevo. [...] E di quanto avevo provato non serbavo poi il minimo ricordo». A questi sintomi si associavano «allucinazioni intollerabili» sia visive che auditive, mentre nessuno ha mai riscontrato la presenza di convulsioni. Per questo motivo, in seguito si è pensato che Van Gogh soffrisse di un’epilessia parziale. Quanto al fatto se questa fosse ereditaria o indotta, probabilmente le due ipotesi vanno considerate insieme.


Il mietitore (Saint-Rémy, 1889); Otterlo, Kröller-Müller Museum.

Montagne a Saint-Rémy (Saint-Rémy, luglio 1889); New York, Solomon R. Guggenheim Museum.

Pietà (da Eugène Delacroix) (Saint-Rémy, 1889); Amsterdam, Van Gogh Museum.


Finestra nello studio di Van Gogh nell’asilo di Saint-Paul (Saint-Rémy, 1889); Amsterdam, Van Gogh Museum.

Ora, circa la causa esterna che avrebbe scatenato le crisi epilettiche, quella più probabile è sembrata l’abuso di assenzio. Questa bevanda, considerata oggi una vera e propria droga, era all’epoca diffusissima in Francia e nel secondo Ottocento il suo consumo toccò punte altissime. Specie negli ambienti artistici, la cosiddetta “fata verde” era molto popolare: Toulouse-Lautrec, Gauguin, Modigliani e Daumier furono grandi bevitori di assenzio e sia Manet che Degas ne fecero perfino il soggetto di alcuni loro dipinti. Grandi consumatori di assenzio furono inoltre anche molti scrittori, Baudelaire in testa. A Parigi, Van Gogh non sfuggì alla regola, prendendo a bere smodatamente. La stessa cosa continuò a fare anche ad Arles. Cosa interessante, si è visto che l’assenzio è responsabile di una percezione distorta dei colori denominata discromatopsia; bene, c’è chi ha voluto far risalire proprio a questo difetto visivo l’origine del “giallo Van Gogh”: quella tonalità brillante e solare tipica della sua produzione arlesiana. Inoltre, si è riscontrato che l’abuso di assenzio provoca pulsioni aggressive brutali e violente. Per cui alcuni hanno avanzato l’ipotesi che l’episodio dell’orecchio tagliato debba spiegarsi con uno scoppio di autolesionismo combinato con un’allucinazione auditiva di un’acutezza insopportabile. Non solo, quella stessa aggressività rivolta contro se stesso sarebbe stata anche la causa dell’impulso suicida che porterà Vincent a togliersi la vita nel luglio del 1890. Accanto alla diagnosi di epilessia e alle spiegazioni a essa connesse, ne sono state fatte via via molte altre, come per esempio quella di schizofrenia e tutta una serie di diagnosi variamente e comunque sempre collegate a epilessia e schizofrenia. Nella primavera del 1889 Van Gogh decide di farsi ricoverare nell’ospizio di Saint-Rémy, a un paio di chilometri da Arles. Vuole essere tenuto sotto controllo, e per alcuni mesi sembra rilassarsi; la bellezza del paesaggio (molti dei suoi dipinti di cipressi saranno realizzati nella zona) gli ispira una fitta serie di dipinti. Nell’inverno di quell’anno, a Bruxelles, viene venduto un suo quadro (resterà l’unica vendita effettuata con l’artista ancora in vita).


Émile Bernard, Autoritratto con ritratto di Gauguin, dedicato a Van Gogh (1888); Amsterdam, Van Gogh Museum.

Henri de Toulouse-Lautrec, Vincent van Gogh davanti a un bicchiere di assenzio (1887); Amsterdam, Van Gogh Museum.


Autoritratto con orecchio fasciato (Arles, 1889); Londra, Courtauld Institute Galleries.

VAN GOGH
VAN GOGH
Enrica Crispino