Grandi mostre. 5
Le signore dell'arte a Milano

Una partita tutta
al femminile

Una grande esposizione a palazzo reale riscopre e racconta la storia di artiste note e meno note, appartenenti all’alta borghesia, che tra Cinque e Seicento hanno dato prova della loro spiccata vena creativa.

Marilena Mosco

Che le artiste donne facciano fatica a emergere e a vedere riconosciuto il proprio talento è risaputo, e lo conferma lo scarno numero di opere a firma femminile esposte nei musei; la mostra Le signore dell’arte. Storie di donne tra ’500 e ’600 offre una panoramica che abbraccia non solo le fortunate artiste che hanno raggiunto la fama ma anche le meno note, rimaste nell’ombra o addirittura ignorate. Nel catalogo, il bel saggio di Gioia Mori intitolato E se Pablo fosse stata Pablita? pone una domanda che vale la pena esplorare ieri come oggi: e se Picasso fosse nato femmina? Avrebbe ricevuto la stessa considerazione?

Il titolo della mostra intende sottolineare il rango sociale delle artiste: “signore”, appunto, appartenenti all’alta borghesia, istruite o avviate all’arte dal padre artista, o dal maestro amico di famiglia, o educate in convento, nel caso di figlie costrette a lasciare al fratello il diritto di maggiorascato.

Disegnare e dipingere, suonare uno strumento, amare la lettura e sapere sostenere una conversazione sono le doti che le dame di palazzo, come ben spiega Il cortegiano - il trattato cinquecentesco di Baldassarre Castiglione -, devono avere per accedere al rango di “virtuose”.

Lavinia Fontana, Galatea e amorini cavalcano le onde della tempesta su un mostro marino (1590 circa);


Fede Galizia, Giuditta con la testa di Oloferne (1601), Roma, Galleria Borghese.

Vergine per scelta, Elisabetta Sirani si identifica con tutte le donne che si battono per desiderio di giustizia


Sempre nel Cinquecento, Vasari racconta di essere stato colpito, visitando la casa cremonese dell’amico Anguissola, dalle virtù delle sorelle della nota Sofonisba da lei ritratte in Partita a scacchi. Opera, questa, in cui la pittrice dimostra di aver assimilato gli studi leonardeschi di fisiognomica cogliendo la bontà di Lucia, il sorrisetto birichino di Europa e la severità di Minerva (le tre sorelle, appunto).

Intensa sarà la vita di Sofonisba: tre anni trascorsi alla corte di Spagna, invitata da Filippo II a ritrarre le dame di corte, tra le quali Isabella Clara Eugenia, e altri anni passati in Sicilia con lo sposo siciliano Filippo de Moncada (ne è un ricordo la pala della Madonna dell’Itria, da lei dipinta, ritrovata e restaurata per la mostra). Infine, una tappa a Genova, dopo la vedovanza, con un altro marito, per poi ritornare in Sicilia dove Van Dyck di passaggio andrà a trovarla e la ritrarrà sul letto di morte.


Elisabetta Sirani, Porzia che si ferisce alla coscia (1664), Bologna, Fondazione Carisbo - Collezioni d’arte e di storia della Fondazione Cassa di risparmio in Bologna.

Volto mesto e misterioso, contornato da un appariscente turbante turchino


A Bologna, per merito del padre, il pittore Prospero Fontana, Lavinia si avvia alla pittura e, sulle orme di Anguissola, utilizzando uno specchio realizza un Autoritratto alla spinetta sullo sfondo di una finestra che illumina un cavalletto, a sottolineare quanto la pittura non sia vezzo ma professione. Professionalità di cui ha sicura padronanza, tanto da poter dialogare con principi e collezionisti lasciando al marito la cura della numerosa figliolanza. La sicurezza conquistata con il talento le permette di cimentarsi, oltre che nella pittura sacra - superando la fama del padre - anche in quella profana, a giudicare da due piccole pitture su rame raffiguranti Galatea e Venere che alludono al suo interesse per l’erotismo della scuola di Fontainebleau .
Lo storico Cesare Malvasia, autore di Felsina pittrice (1678), dedicato ai pittori bolognesi, scrive di Elisabetta Sirani: «Ardita e animosa operando in un modo che ebbe del virile e del grande superando quasi anche il padre». Lo dimostra la tela con un episodio tratto dalla Vita di Alessandro Magno di Plutarco: Timoclea, in cui la matrona della città di Tebe assediata dai soldati di Alessandro, violentata da un generale macedone che le ordina di consegnare anche l’oro che possiede, indica al suo aguzzino come luogo in cui cercare il pozzo di casa; così con astuzia si vendica, e appena il generale si sporge ve lo spinge dentro. Vergine per scelta, Elisabetta si identifica con tutte le donne che si battono per desiderio di giustizia; forti e audaci come Porzia che si ferisce a una coscia per eguagliare il coraggio del marito Bruto, l’assassino di Cesare.

Sua compagna nella scuola di disegno per donne aperta da Elisabetta è Ginevra Cantofoli che spicca in mostra con la sua Giovane donna in vesti orientali dal volto mesto e misterioso, contornato da un appariscente turbante turchino, simbolo della moda alla turca dilagata in Italia dopo la battaglia di Lepanto (1571). E a proposito di sibille, risaltano quelle dipinte da Orsola Maddalena Caccia, figlia del pittore piemontese Guglielmo Caccia detto il Moncalvo. Artista che ha la fortuna di diventare badessa di un convento di orsoline, istituto religioso fondato dal padre per avere accanto le figlie, alle quali destina una sala allestita come un vero studio di pittura. Ispirate alle sibille dipinte dal Moncalvo stesso sono la Sibilla delfica e la Sibilla tiburtina, mentre ideate da Orsola sono le altre quattro, tra cui si nota la Sibilla persica, che nei toni lividi dell’incarnato e nel paesaggio sullo sfondo cupo e ombroso rimanda alla coeva pittura lombarda, in particolare a Francesco Cairo, attivo a Torino tra il 1640 e il 1650.

Alla corte sabauda lavora tra il 1632 e il 1637 la miniatrice ascolana Giovanna Garzoni, invitata a ritrarre Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I, la moglie Caterina Micaela e il figlio Vittorio Amedeo I. I primi due ritratti, in mostra, sono stati sottoposti (dalla Fondazione Bracco) ad analisi non invasive di diagnostica per immagini ad alta definizione che hanno permesso di indagare le diverse campiture cromatiche e svelare alcuni dettagli della corazza raffinatissima e della squisita gorgiera nel Ritratto di Carlo Emanuele I. La fama di Garzoni è tuttavia affidata soprattutto alle squisite pergamene miniate con frutta che sotto la sua mano acquistano una tale morbidezza che pare di toccare i frutti e poterli gustare. Vien da paragonarle alle stupende alzate di frutta quasi di porcellana già dipinte dalla milanese Fede Galizia, allieva di un padre miniatore, da cui deve aver tratto la capacità di rendere tattili oggetti e stoffe, come quelle dell’elegante dama riccamente vestita che impersona Giuditta con la testa di Oloferne. 


Artemisia Gentileschi (attribuito), Davide con la testa di Golia (1630-1631).

A differenza di Caravaggio, che nell’esemplare Barberini sceglie di rappresentare il momento cruciale dell’azione e lo scostarsi della protagonista inorridita dal sangue, Fede immobilizza la scena e preferisce il silenzio, ingiunto anche dalla serva complice che porge il catino. Non giustiziera ma seduttrice, Giuditta appare come una Salomè coronata di perle e sfoggiante una cintura tempestata di rubini, fiera di una bellezza che sembra esplodere dall’opalescente décolleté. Ben diverse saranno le Giuditte dipinte da Artemisia Gentileschi, ora ai musei di Capodimonte e degli Uffizi, ritratte nel momento culminante della decapitazione di Oloferne, vittima della furia vendicatrice di Artemisia che si identifica in questa eroina dopo lo stupro subito da Agostino Tassi. Sarà la stessa pittrice a farsi descrivere dal biografo Bronzini(*) come educata in convento, seria e onorata, ben diversa dalla fama di frequentatrice della Schildersbent, la banda degli artisti stranieri bohémien della Roma barocca.


Le sue tele, che immortalano eroine dell’antichità - Lucrezia, Didone, Cleopatra, Ester - o le allegorie della Storia, della Fama, della Poesia, nonché l’Autoritratto come allegoria della pittura, sono tutte suggerite dalla volontà di nobilitarsi e accentuare la dignità professionale e la forza caratteriale, quella che riassumerà nella lettera a don Antonio Ruffo la sua personalità: «un animo di Cesare nell’anima di una donna». Al posto delle eroine, in mostra si è scelto un eroe, Davide, raffigurato nell’opera Davide con la testa di Golia, attribuita da Riccardo Lattuada, Roberto Contini, Nicola Spinosa ad Artemisia perché documentata nella sua casa a Napoli nel 1631. Non è tra le più belle del periodo napoletano. Sostituisce la bella Maddalena, inedita, della collezione Sursock di Beirut - proveniente dalla nobile casata napoletana Serra di Cassano -, in attesa di restauro perché danneggiata dalla bomba al porto di Beirut che ha causato gravi perdite alla città già martoriata dalla guerra.

(*) Biografia immaginaria di Artemisia compilata da Cristofano di Ottaviano Bronzini, autore di quattro volumi intitolati Della dignità e nobiltà delle donne (Firenze 1622-1632) pubblicata da S. Barker in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes”, 60, marzo 2019, pp. 404-435.

Le signore dell’arte. Storie di donne tra ’500 e ’600

a cura di Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié
Milano, Palazzo reale
fino al 25 luglio
catalogo Skira
www.palazzorealemilano.it

ART E DOSSIER N. 387
ART E DOSSIER N. 387
MAGGIO 2021
In questo numero: ARTISTE NONOSTANTE.: Le signore a Milano; le astrattiste a Parigi; Suzanne Valadon; Bourke-White la pioniera. FABIO MAURI il copro è poesia. CALLIGRAMMI MEDIEVALI: il corpo è scrittura. CREPAX: Valentina in mostra. LUOGHI LEGGENDARI: Il labirinto di Franco Maria Ricci; Il teatro di Aldo Rossi.Direttore: Claudio Pescio