Nella composizione delle immagini di Radici il paesaggio naturale compare come scenario di sottofondo, conformemente proporzionato alla nostra realtà quotidiana, integro e lineare nella sua naturalezza; su di esso si stagliano magniloquenti e frammentate le rovine della storia, altisonanti per la loro maestosità. La stratificazione di questi due piani visivi genera una dimensione percettiva equilibrata e non ridondante, come se la foschia del paesaggio ad Amman in Giordania riuscisse ad assorbire l’esubero surreale di tre giganti dita di marmo ormai radicate in quel posto e a quel modo dal tempo. I templi, le statue, le colonne, le spoglie dei teatri, i massi che vanno a formare le strade, in queste immagini, trovano la loro sussistenza non nella loro valenza originaria, quella per cui e con cui sono state costruite, ma nel loro essere reperto, nella loro frammentarietà e nel loro essere resi “rovina” da un comune denominatore: il tempo. Con questo processo compositivo Koudelka genera un altro tipo di paesaggio, un paesaggio storico non dal punto di vista temporale, ma simbolico, dove la storia si veste di quell’estetica del sublime cara ai romantici come Chateaubriand o Shelley. Scriveva, infatti, quest’ultimo: «Su, vai a Roma che è insieme il paradiso, la tomba, la città e il deserto; e passa dove le rovine s’ergono come montagne frantumate, e le gramigne fiorenti e le piccole selve profumate vestono l’ossa nude della desolazione, finché lo spirito del luogo guiderà i tuoi passi a un declivio il cui accesso è verdeggiante, dove come il sorriso di un bambino fra l’erba sopra i morti si distende una luce di fiori sorridenti»(1). Le vestigia, i resti solenni, le tracce del passato, con le loro crepe e la loro incompletezza, hanno sempre prodotto contemporaneamente sgomento e ammirazione all’occhio umano e le immagini di Koudelka sembrano imprimere sulla carta non solo la figurazione di queste spoglie, ma anche il sentimento sublime che risvegliano e che le proiettano in una dimensione di assolutezza. Nelle immagini del fotografo ceco compare al contempo, però, anche la specificità degli elementi rappresentati, una loro valenza quasi emotiva, che «riempie l’intera immagine»(2), direbbe Roland Barthes. «Certi particolari potrebbero “pungermi”»(3) teorizzava, infatti, lo studioso francese per spiegare il concetto di “punctum”, che portava, nella lettura dell’immagine, a registrare emotivamente «l’impronta di qualcosa»(4) tramite cui una particolare fotografia non sarebbe più stata una fotografia qualunque. E così il naso mancante della Sfinge d’Egitto può proiettare l’immagine di cui fa parte nell’estetica delle rovine, come al contempo può essere quel qualcosa che mi punge e mi turba, in maniera indefinita e apparentemente inspiegabile. Ma Barthes in La camera chiara teorizza anche un altro tipo di “punctum”, non più particolare, che riconduce proprio al Tempo: la fotografia da bambina di sua madre, che era appena defunta, gli rivela che lei «sta per morire », provocandogli una vertigine(5). Le immagini di Josef Koudelka congiungono allo stesso modo dimensioni temporali differenti che provocano un turbamento simile: il nostro tempo, il tempo del fotografo (cristallizzato dal paesaggio naturale) e il tempo delle civiltà antiche. E il futuro? Come testimonia Koudelka stesso: «Le rovine non sono il passato, sono il futuro che ci invita all’attenzione e a godere del presente» e così il suo lavoro si tramuta anche in una palla di vetro di grande formato che ci mostra, attraverso immagini in bianco e nero, quello che siamo stati, quello che saremo in proiezione e quello che siamo “hic et nunc”.