FORTUNA DELLA
DIVINA COMMEDIA
NELLE ARTI FIGURATIVE

Indubbiamente fu la tradizione manoscritta prima e a stampa poi, con relative illustrazioni, che contribuì alla diffusione del poema, innescando quel processo visionario che ne fece la fonte d’ispirazione per opere d’arte indipendenti dal ruolo della semplice illustrazione.

La stessa celebre tavola di Domenico di Michelino nel duomo di Firenze - e nota come La Divina commedia illumina Firenze -, che pure è strettamente legata alla struttura narrativa del poema, è emblematica di questo nuovo percorso.

La differenza non è di poco conto perché, in questo modo, la geniale creazione di Dante si pose come punto di riferimento non sul piano poetico, ma come se fosse la descrizione reale dell’aldilà. In altri termini, da una certa epoca in poi, almeno nella cultura occidentale, non sarebbe stato più possibile prescindere dalla Commedia se ci si voleva misurare con la rappresentazione del mondo trascendente. Del resto, come si è cercato di dimostrare, il poeta fiorentino aveva attinto alla “koinè” visionaria, nonché astrologica e astronomica che, all’epoca di Dante, circolava in tutta Europa. Perciò, non deve stupire che la Cosmografia di Piero di Puccio che - a Pisa - giganteggia su una delle pareti del Camposanto monumentale, rispecchi in buona sostanza lo schema che Dante aveva nella testa quando concepì la sua architettura cosmologica.

Dipinto fra il 1389 e il 1391, l’affresco mostra un enorme Cristo (ovviamente Pantocrator) con l’intero universo allora conosciuto fra le mani che, però, include la dimensione trascendente non per la presenza del Redentore, ma perché intorno alla terra che si trova al centro (secondo la concezione tolemaica), oltre alle sfere dei sette pianeti allora conosciuti, allo zodiaco e alla presenza del Primo mobile, si susseguono i nove cori angelici codificati dai testi teologici. Un impianto praticamente identico a quello che presiede alla visione paradisiaca della Commedia. Aspetti di forte tangenza, poi, emergono dai resti degli affreschi che Andrea di Cione, detto l’Orcagna, eseguì, a Firenze, secondo quanto riferisce Ghiberti nei suoi Commentari, per le navate di Santa Croce.

Domenico di Michelino, La Divina commedia illumina Firenze (1465); Firenze, Santa Maria del Fiore.


Orcagna, Inferno (1360), frammento; Firenze, Santa Croce, refettorio.

Oggi conservati nell’antico refettorio del convento, attualmente convertito in museo, i frammenti erano parte di un perduto Giudizio universale, di un Trionfo della morte - di cui ci è pervenuto qualche lacerto - e di un Inferno che, sebbene assai lacunoso, testimonia una precisa derivazione dalla Commedia e dalla struttura del regno oltremondano immaginato da Dante. Costituito da riquadri divisi con colonne tortili, l’affresco, realizzato nel sesto decennio del XIV secolo, mostra le bolge dantesche indicate con tanto di cartello. Quelle ancora superstiti riguardano i peccati della lussuria, dell’avarizia e dell’ira(22). Un’aderenza alla visione dell’Alighieri che si conferma anche con l’affresco della cappella Strozzi di Santa Maria Novella, sempre a Firenze, a firma del fratello di Andrea, Nardo di Cione. La parete che ospita l’Inferno può considerarsi, infatti, una gigantesca illustrazione della cantica dantesca. Databile alla metà del Trecento, l’opera contempla personaggi (come Caronte e Minosse), scritte esplicative (per esempio: «Qui son puniti li peccatori charnali »), situazioni (come le tombe infuocate) e scene vivaci (come quelle dei suicidi tormentati dalle arpie) che derivano tutte dalla Divina commedia.


Tintoretto, bozzetto per il Paradiso di Palazzo ducale a Venezia (1588-1592); Parigi, Musée du Louvre.


Nardo di Cione, Inferno (1350 circa); Firenze, Santa Maria Novella, cappella Strozzi.

Come si vede, non si tratta di generici riferimenti, ma di un preciso rimando alla visione descritta dai versi del poeta che finisce per coincidere con quel che l’immaginario collettivo vede nell’altro mondo. In altre parole, Dante ha “costruito” per tutti un aldilà talmente preciso e concreto che quando lo si vuole rappresentare non si può sostituirlo con un altro. Per questo, anche nel San Petronio di Bologna, nella Cappella dei re magi, gli affreschi commissionati da Bartolomeo Bolognini tengono in parte conto del dettato dantesco. Non tanto per il Satana che ha una testa in mezzo all’inguine, derivata dalla tradizione delle gemme gnostiche dei “grylloi”, quanto per le scritte precise che individuano i peccati della «gola», della «superbia», che individua gli «idolatri», ma soprattutto per la figura di «Machomet», collocata da 28 Dante fra coloro che hanno provocato uno scisma e che, perciò, si pone come conferma della fonte letteraria dell’affresco bolognese(23). L’Inferno dipinto nel Quattrocento da Giovanni di Pietro Falloppi, meglio noto come Giovanni da Modena, si trova al di sotto della grande scena del Paradiso nel quale, tuttavia, lo stesso autore si allontanò dalla concezione dantesca e riprese uno schema simile a quello della corte celeste utilizzato nelle miniature gotiche, come per esempio quella di Jean Fouquet nella scena del Livre d’heures d’Étienne Chevalier con La beata Vergine e la Trinità. L’affresco bolognese del Paradiso, infatti, presenta in basso il consesso di profeti, santi e beati seduti negli scranni, mentre al di sopra stanno le schiere angeliche identificate dagli stendardi con l’iniziale del coro relativo. Al centro, in alto, la Trinità che incorona Maria compare in una mandorla costituita di nuovo da rossi serafini che si stagliano su una miriade di angeli stipati fino al colmo dell’ogiva della parete.

Per trovare però un’opera che, in qualche modo, possa ricordare l’articolato impianto del paradiso dantesco, si dovrà aspettare un capolavoro come il bozzetto per il Paradiso dipinto da Jacopo Tintoretto per l’affresco di Palazzo ducale a Venezia, oggi conservato al Louvre. L’opera, che evoca quel vortice di luce descritto da Dante nel suo percorso di fede e di poesia, trova dei precedenti illustri in opere come il Giudizio universale di Fra Bartolomeo (Firenze, Museo di San Marco), l’affresco di Raffaello nel San Severo a Perugia e, ancora del Sanzio, l’affresco con la cosiddetta Disputa del Sacramento nelle stanze vaticane nel quale, non per nulla, compare l’effigie di Dante(24). D’altra parte, a mo’ di citazione bibliografica, la figura del poeta compare anche nell’apparato decorativo del ciclo di affreschi realizzati da Luca Signorelli per la cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto. Impostata su un programma molto articolato, la decorazione - realizzata fra il 1499 e il 1502 dal pittore cortonese, per completare quella di Beato Angelico e Benozzo Gozzoli che si erano fermati alle sole volte a vela - dimostra un preciso legame con la Divina commedia nel cosiddetto Antinferno, dove compaiono la figura inquietante di Caronte e quella di Minosse, nonché nelle scenette monocrome che arricchiscono l’affresco con il ritratto ideale dell’Alighieri.


Fra Bartolomeo, Giudizio universale (1499-1501); Firenze, Museo di San Marco.

Ai poderosi affreschi di Signorelli guardò certo il Michelangelo della Sistina nel suo Giudizio universale, dove il rimando alla Divina commedia è evidente non solo per la straordinaria interpretazione del «Caron dimonio con occhi di bragia», ma anche per la presenza del quinto incisivo nella dentatura dei diavolacci e dei dannati che, sebbene risultato di un percorso articolato e complesso, indagato altrove da chi scrive, trovava pure conforto nella figura di Satana concepita da Botticelli. Pur senza dover stabilire un legame causale, va comunque rilevato che la figura di Lucifero disegnata dal Filipepi, così come i demoni michelangioleschi, si caratterizza per una zanna al centro dell’arcata superiore dei denti. Tuttavia, l’immensa parete sistina non è un’illustrazione pedissequa del poema dantesco, ma si possono rilevare diversi punti di tangenza, a cominciare dall’atmosfera generale la cui titanica grandiosità è pari a quella dei versi di Dante. Non è qui possibile analizzare puntualmente tutti gli aspetti, ma a titolo d’esempio si può citare il caso del Minosse michelangiolesco la cui soluzione iconografica (al di là del perfido riferimento al presbitero Biagio da Cesena), probabilmente, nasce grazie alla mediazione della statua di Aion-Chronos oggi conservata agli Uffizi che all’epoca del Buonarroti, forse, già si trovava a Firenze. Con la serpe che cinge a spirale il dio leontocefalo, l’opera - databile al III secolo - sembra l’immagine ante litteram dei versi danteschi che cantano: "Stavvi Minos orribilmente e ringhia / […] Cingesi colla coda tante volte / Quantunque gradi vuol che giù sia messa».

Un altro esempio monumentale (che risente pure dei modelli di Raffaello che affiancherà più volte quello dantesco interpretato da Michelangelo) è costituito dal ciclo di affreschi dipinti fra il 1552 e il 1554 dai fratelli veronesi Lorenzo e Bartolomeo Torresani nell’oratorio di San Pietro Martire a Rieti. Si tratta di un altro Giudizio universale dove a Dante si riferiscono la scena di Cerbero e la presenza di Minosse, mentre molte sono le citazioni dalla Disputa di Raffaello e dal Giudizio di Michelangelo.

Di circa vent’anni più tarda (1571-1579) è un’impresa colossale a cui nessuno, di primo acchito, penserebbe: è la decorazione monumentale della cupola del duomo di Firenze. Che fosse stata una scelta mirata, quella del granduca Cosimo de’ Medici, intesa a privilegiare il riferimento al poema dantesco, lo dimostra non tanto la commissione degli affreschi a Giorgio Vasari prima e quindi a Federico Zuccari (cui si deve anche il cosiddetto Dante historiato oggi conservato al Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi e adesso anche on line), quanto l’aver affidato l’ideazione di tutto il programma decorativo a un dantista di assoluto livello come don Vincenzo Borghini che aveva già pubblicato i suoi Discorsi sopra Dante.

Un chiaro riferimento al capolavoro sistino (e quindi all’Alighieri), poi, lo troviamo nell’affresco absidale del battistero di Ferrara, con lo stesso soggetto, di Sebastiano Filippi, meglio noto come Bastianino, ultimato nel 1581(25).


Michelangelo, Giudizio universale (1535-1541), particolare; Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina. Al contrario di Signorelli, Michelangelo fa di Caronte uno dei personaggi più incisivi dell’intero affresco. La scena, rappresentata, infatti, si ispira letteralmente ai versi di Dante (Inferno, III, 109-111).

Come accadde per le altre edizioni della Divina commedia che, nel corso del Seicento, videro una flessione, così pure le opere visionarie di quel secolo si allontanarono dal parametro del poema dantesco. Un velato riferimento lo possiamo scorgere nei due Giudizio universale (piccolo e grande, entrambi all’Alte Pinakothek di Monaco) dipinti da Rubens entro i primi due decenni del Seicento. Dal punto di vista letterario, invece, non si può non ricordare un’opera proto-romantica come il Paradise Lost di John Milton, dato alle stampe nel 1667 per la prima volta e poi, diciassette anni dopo, nuovamente edito.

Fu, tuttavia, il nuovo clima romantico della fine del XVIII secolo a spingere verso il recupero della tematica dantesca, anche dal punto di vista figurativo, come dimostra l’impegno del pittore e letterato svizzero Johann Heinrich Füssli che alla Divina commedia dedicò una serie di acquerelli visionari (Zurigo, Kunsthaus) che crebbero nella sua creatività grazie allo studio appassionato di Michelangelo. Non è un caso che i disegni appartengano al soggiorno italiano quando, a partire dal 1770, l’artista rimase otto anni nella penisola - e, in particolare, a Roma - prima di far ritorno a Zurigo. Fu allora che studiò gli affreschi del Buonarroti dal vero e su quelli modellò disegni poderosi come il Dante che osserva le anime volteggianti di Paolo e Francesca, o il Dante e Virgilio nella ghiacciaia del Cocito. Del resto, della sua predilezione per il poeta italiano riferisce anche il biografo Jonathan Knowles che spiega come i versi della Divina commedia facessero «la più profonda impressione sulla sua mente e offrissero molti spunti al suo cervello temerario»(26). Füssli, però, non fu il solo a essere affascinato dalle visioni oniriche dell’Alighieri, giacché la pittura romantica dell’epoca vide fiorire, in quello stesso periodo, la grande arte del poeta, pittore e incisore inglese William Blake. Si trattò dell’ultimo impegno dell’artista poco prima di lasciare questo mondo.

La serie sulla Divina commedia fu commissionata dall’amico e collega John Linnell nel 1824 e l’artista inglese vi lavorò per tre anni realizzando centodue acquerelli, di cui settantadue dedicati all´Inferno, venti al Purgatorio e dieci al Paradiso.


Arte romana, Aion-Chronos (III secolo d.C.); Firenze, Gallerie degli Uffizi.

Lorenzo e Bartolomeo Torresani, Giudizio universale (1552-1554); Rieti, oratorio di San Pietro Martire.


Federico Zuccari, Lucifero (1586-1588), cosiddetto Dante historiato; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe, inv. 3501F. Federico Zuccari recupera la tradizione iconografica del dente centrale (mesiodens) per la rappresentazione di Lucifero che già era stata di Botticelli (v. p. 19). Michelangelo utilizza questa soluzione iconografica per tutti i demoni presenti nel Giudizio Universale della Cappella sistina.


Johann Heinrich Füssli, Dante e Virgilio nella ghiacciaia del Cocito (1774); Zurigo, Kunsthaus.

Le opere ci sono pervenute in diversi stati di elaborazione, ma quel che le unisce è la potenza visionaria, talora al limite dell’ingenuità, che non illustra semplicemente il poema dantesco, quanto, piuttosto, lo interpreta, quasi fosse un commento visivo agli immortali versi di Dante. Blake affronta il tema con scelte mirate alla semplificazione (Dante e Virgilio non hanno vesti paludate) e ispirate alle ipertrofie muscolari di Michelangelo, come nel caso di Capaneo, uno dei mitici re di Tebe che Dante colloca fra gli empi bestemmiatori. Non per nulla, l’artista inglese era buon amico degli altri due appassionati della Divina commedia, i già citati John Flaxman e Füssli, con cui scambiava idee e impressioni(27).

I primi decenni del XIX secolo videro l’esecuzione del grande ciclo di affreschi dedicato al poema dantesco, nell’ambito della decorazione del Casino Massimo a Roma. Voluta dal marchese Carlo, fu affidata a un manipolo di artisti esponenti d’eccellenza dei nazareni che - come pure i preraffaelliti - guardavano alla purezza della pittura quattrocentesca italiana. I lavori, fra progetto ed esecuzione, durarono poco più di dieci anni, dal 1817 al 1828 e videro in campo pittori della levatura di Philip Veit e Joseph Anton Koch. Il primo realizzò, sulla volta della stanza che era stata destinata a Dante (altri ambienti ospitarono affreschi dedicati alla Gerusalemme liberata e all’Orlando furioso) la grande scena del Paradiso. Il secondo, che, da appassionato del poema, si era ispirato a questo fin dal 1802, dipinse altre quattro scene: il Purgatorio, l’Inferno, Dante addormentato sogna di essere assalito dalle tre fiere e La penitenza dei sette peccati capitali. Il suo impegno iniziò nel 1825 e si concluse tre anni più tardi.


Johann Heinrich Füssli, Dante che osserva le anime volteggianti di Paolo e Francesca (1818); Chicago, Art Institute.

William Blake, Capaneus; Melbourne, National Gallery of Victoria.


Il cerchio dei lussuriosi; Melbourne, National Gallery of Victoria.


Dante e Virgilio accompagnati dai diavoli (1824-1827); Melbourne, National Gallery of Victoria.

L’affermarsi della poetica romantica, poi, portò ad altri esiti stilistici come il capolavoro di Eugène Delacroix intitolato La barca di Dante, dipinto nel 1822 e conservato al Louvre. Ispirata sia alle titaniche forme di Michelangelo, sia a quelle della Zattera della Medusa di Géricault (a sua volta, al di là dell’episodio di cronaca del naufragio della nave, di concezione dantesca), la tela mostra il sommo poeta e Virgilio che attraversano l’agitato Stige, infestato dai dannati, su una barca fino alla città di Dite. Alla bolgia dei falsari, con Gianni Schicchi e Capocchio, invece, si è ispirata l’opera di William-Adolphe Bouguereau, dipinta nel 1850 e conservata al Musée d’Orsay. Caratterizzata, come l’altra, da uno straordinario studio anatomico, la tela affianca alla staticità pensierosa e compunta di Virgilio e Dante la foga dinamica dei due dannati, in un’atmosfera di grande tensione morale. La stessa che si percepisce nella figura del Pensatore di Rodin. Inizialmente intitolata Il poeta, la statua faceva parte di una porta monumentale bronzea pensata per l’ingresso di un progettato Musée des Arts Décoratifs a Parigi che poi non venne mai realizzato. Neppure la porta fu conclusa, ma dall’originale modello in gesso a cui lo scultore lavorò per quasi quarant’anni (dal 1880 al 1917, quando uscì dal mondo) furono ricavate varie opere in bronzo oggi in vari musei. Sull’architrave di quella che era intitolata la Porta dell’inferno, interamente dedicata a Dante, stava la statua che lo rappresentava idealmente e che è universalmente nota, appunto, come Il pensatore(28).

Con il XX secolo, l’interesse per Dante e il suo poema non si affievolì, ma si orientò sull’impiego di altri mezzi espressivi che affiancarono l’approfondimento esegetico del capolavoro letterario promosso, insieme alla figura del poeta nel suo complesso, dalla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosuè Carducci ed entrata a far parte, nel 2007, degli Istituti nazionali di cultura dell’Unione europea. La decima musa, ossia il cinema, ben presto si occupò della trasposizione su pellicola del poema, a cominciare dai due cortometraggi del 1908 dedicati a Francesca da Rimini (The Two Brothers) e al conte Ugolino. Gli spunti che la cinematografia ricavò dalla figura di Dante furono sostanzialmente di quattro tipologie diverse. Quelli dedicati alla trasposizione delle vicende dei grandi personaggi del poema dantesco in celluloide, come la vita di Paolo e Francesca (1949) con Andrea Checchi, Nino Marchesini e Odile Versois nella parte di Francesca da Polenta. Altri dedicati alla rappresentazione della cantica dell’Inferno, come nel caso di Dante’s Inferno Animated del 2010. Il film si basa su cinquanta illustrazioni a colori, tratte da un libro illustrato e da un giornalino, creati da Awik Balaian e Dino Di Durante. 


Eugène Delacroix, La barca di Dante (1822); Parigi, Musée du Louvre.

William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio nella malabolgia dei falsari (Inferno, XXIX, 136-139) (1850); Parigi, Musée d’Orsay. Le opere d’arte che si ispirano all’Inferno di Dante rispecchiano la stessa fisicità e la stessa carnalità che il poeta descrive nei suoi versi. Tanto la tela di Delacroix, quanto quella di Bougureau, infatti, sono improntate a un attento studio dell’anatomia dei personaggi che, a loro volta, tengono presenti i modelli di Signorelli e Michelangelo. Gli stessi che hanno influenzato anche William Blake e Johann Heinrich Fussli.


Auguste Rodin, Porta dell’inferno (1880-1917); Parigi, Musée d’Orsay.


Maestro Ornatista, Diagramma della teoria degli elementi (fine XII-metà del XIII secolo); Anagni (Frosinone), Santa Maria, cripta di San Magno.

Non si tratta di un “cartoon”, ma di una “animazione” (“animation”), grazie alla quale i disegni sono filmati per creare un’illusione di movimento. Il film è stato recitato dapprima in italiano, in seguito tradotto in inglese e spagnolo. Il terzo filone è quello dedicato alla vita del poeta, di cui s’impadronì anche la televisione, come dimostra un celebre “sceneggiato”, come si diceva allora, prodotto dalla Rai nel 1965 per la regia di Vittorio Cottafavi con un imperdibile Giorgio Albertazzi nei panni dell’Alighieri. Infine, ci sono film come Inferno del 2016, tratto dal romanzo di Dan Brown - con Tom Hanks - che prendono solo spunto dall’opera di Dante. Tuttavia la pellicola, rivista oggi, ha un che di profetico perché la trama narra del mondo minacciato da un fantomatico virus che tutti i governi vorrebbero intercettare per dominare il pianeta.

Un’ultima considerazione va fatta sulla scorta di una riflessione del grande dantista Giorgio Petrocchi che richiamò l’attenzione sulla modernità visionaria di Dante e sul fatto che «giunse all'arte astratta della terza cantica, al luminismo incorporeo, immateriato, d'un variegato cromatismo che fa prevalere, per l'appunto nel Paradiso, la poesia dell'occhio e dei suoni fomentata dalla lunga ricerca della “luce etterna” […] in un’incessante creatività di simboli pittorici intuibili e godibili quasi esclusivamente attraverso le sovrapposizioni e i movimenti armonici delle luci cadenti dall'alto in una miriade di giuochi coloristici propriamente astratti, informali, i quali traggono suggestioni dalla luminosità delle grandi cattedrali gotiche»(29). In altri termini, quello stesso poeta che era stato capace di evocare, coi suoi versi, immagini plastiche che paiono scolpirsi nella mente di chi legge, si avvicina alla descrizione della realtà divina utilizzando il registro etereo delle geometrie e della totale immaterialità. 


Sonia Delaunay, Rythme abstraction (1938).

Il riferimento è alla celebre visione dei tre cerchi che un Dante abbacinato descrive nel XXXIII canto del Paradiso, dove, a partire dal verso 116, si può leggere: «Dall’Alto Lume parvemi tre giri / Di tre colori e d’una continenza / E l’un l’altro come Iri da Iri, / Parea riflesso, e il terzo parea foco / Che quinci e quindi ugualmente si spiri». 

In questo sforzo immaginativo, certo, l’autore aveva presenti schemi didattici del mondo come, per esempio, quello che compare, accanto alle figure d’Ippocrate e Galeno, nel celebre affresco della cripta del duomo di Anagni (Frosinone); oppure in codici miniati come quello del St. John’s College di Oxford che, al foglio 7v del manoscritto 17, contiene il diagramma dello spazio, del tempo e della materia secondo l’Enchiridion di Bridfertus, monaco dell’XI secolo vissuto nell’abbazia inglese di Ramsey. Tuttavia, l’invenzione onirica che si palesa alla mente e agli occhi di Dante ha una tale modernità e una tale dinamicità che s’avvicina incredibilmente a un’opera come Rythme di Sonia Delaunay, dove l’ampio semicerchio di destra pare addirittura l’immagine di quell’«Iri da Iri» che il poeta evocò per alludere all’arcobaleno che genera se stesso. È chiaro che questo accostamento è frutto delle conoscenze di chi scrive e non di un rapporto storico, ma il motivo per cui si è proposto ha il solo scopo di mostrare l’incommensurabile genialità di Dante Alighieri che le parole di Petrocchi, da dove siamo partiti, hanno delineato.


Monaco Bridfertus, Enchiridion (XI secolo); Oxford, St. John’s College, ms. 17, f. 7v.

DANTE E LE ARTI
DANTE E LE ARTI
Marco Bussagli
Occuparsi di Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321) significa, potenzialmente, mettere mano all’intero corpo dei saperi medievali; spaziare fra lingua, letteratura, teologia, storia e scienza; confrontarsi – sul piano artistico – con opere e artisti che vanno dal Trecento alla contemporaneità. Una mole enorme di materiali che in vario modo popoleranno mostre, eventi, pubblicazioni in questo 2021 che vede celebrare a livello mondiale il settimo centenario di un poeta che è stato un vero crocevia culturale. In particolare, la sua Divina commedia è debitrice nei confronti della tradizione iconografica precedente la sua realizzazione (non solo di arte occidentale), e a sua volta ha influenzato o ispirato artisti di ogni epoca. Ci troviamo così di fronte a un percorso che va dai mosaicisti del battistero fiorentino a Giotto, da miniatori come Oderisi da Gubbio a Pietro Cavallini fino a Botticelli, Michelangelo, Blake, Dalí e oltre.