Grandi mostre. 1 
FRANCESCA WOODMAN ONLINE

MIMETIZZARSI
NEL COLORE

LA CIFRA STILISTICA DI FRANCESCA WOODMAN – L’USO DELL’AUTORITRATTO, L’APPARENTE CASUALITÀ DELL’IMMAGINE, L’AMBIENTAZIONE INTIMA – SI ARRICCHISCE E SI AMPLIFICA NELL’UNICA SERIE A COLORI MAI REALIZZATA DALLA FOTOGRAFA, FORSE UN OMAGGIO ALLA PITTURA DEL QUATTROCENTO ITALIANO.

Francesca Orsi

Una delle prime fotografie con cui Francesca Woodman (1958-1981) dà inizio alla sua produzione artistica è Self-portrait at Thirteen (1972), fatta a Boulder in Colorado, paese dove risiedeva con i genitori. Seduta all’estremità di una panca, il suo corpo assume una postura eretta ma rilassata, la sua mano destra ricade morbidamente lungo il bracciolo, ha il volto girato a un’angolazione tale da non poter essere riconosciuta e la sua mano sinistra manovra un bastone con cui azionare la macchina fotografica. 

Anche se a carattere embrionale, i suoi intenti, il suo focus artistico e il suo stile risultano già sapientemente evidenti in questa prima immagine, tanto da renderla una sorta di suo “manifesto”: l’autoritratto in primis come modalità rappresentativa, la fusione straniante tra l’io fotografante, il soggetto e l’oggetto (il corpo inteso come opera d’arte) dell’immagine, l’apparente casualità e semplicità della scena, l’ambientazione intima e l’intenzione di portare avanti tramite il ritratto del corpo una ricerca identitaria, non esclusivamente privata ma nemmeno acclaratamente femminista.


Untitled, New York (1979).

Untitled, New York (1979);


Untitled, New York (1979-1980).

LO SPAZIO SCENOGRAFICO COME PROLUNGAMENTO DI UNO SPAZIO INTERIORE E PSICOLOGICO


In Self-portrait at Thirteen il bastone con cui comanda e fa scattare la macchina fotografica risulta prolungamento del suo braccio ed emblema della sua intenzionalità a rendere la superficie fotografica dell’immagine spazio rappresentativo della rappresentazione stessa. Il corpo per lei, nudo nella maggior parte dei casi, si rende codice di comunicazione e messaggio contemporaneamente. Nel rappresentarlo tra spazio e tempo - incastrato nella finitezza dell’inquadratura o nella cornice di uno specchio, frammentato e pinzato con le mollette, considerato per la sua forma e volumetria ma mai per la sua eroticità - sono molte le influenze a cui la Woodman attinge: prima di tutte la corrente surrealista, l’uso degli specchi, la “mise en abyme”, lo sdoppiamento, la figura dell’“informe” - o, come la definisce Rosalind Krauss, la figura della “caduta” - con cui, tramite la rotazione del corpo fotografato o dell’obiettivo fotografico, Man Ray e compagni conferivano al soggetto delle sembianze animalesche distorcendone la realtà; la Body Art che portava allo stremo l’utilizzo del corpo, nei limiti del dolore, come forma di ribellione e di rivendicazione; il pittorialismo per l’intenzionalità compositiva; Muybridge e le sue cronofotografie; e, nello specifico, il lavoro di Imogen Cunningham, membro del gruppo f/64, capeggiato da Ansel Adams, che faceva della naturalezza e dell’armoniosità il suo marchio distintivo per ritrarre corpi nudi di donna e fiori. 

Ma anche se tali influenze risultano evidenti nel corpus della fotografa americana, Francesca Woodman fa detonare la carica rivoluzionaria di questi movimenti e ne intimizza alcuni aspetti, facendoli propri, servendosene per creare uno stile artistico di cui, come ci dimostra Self-portrait at Thirteen, era consapevole fin dall’inizio.


Untitled, New York (1979).

L’USO DI QUESTI COLORI RICORDA LE AMBIENTAZIONI DI PIERO DELLA FRANCESCA O DI DOMENICO VENEZIANO



Alla Galleria Victoria Miro di Venezia è stata esposta fino al 12 dicembre 2020, ed è ora visibile sul suo sito web tramite l’applicazione di realtà virtuale Vortic, la mostra New York Works, che si compone degli ultimi lavori prodotti da Francesca Woodman a New York nel biennio 1979-1980. Tornata in America nel 1979 dopo il suo anno in Italia, che forgiò e stimolò immensamente la sua poetica artistica, lo stile di Woodman muta il suo aspetto e, in parte, anche il suo focus: torna a mettere in scena il dialogo serrato e metamorfico tra il corpo umano e la natura; spariscono, in alcuni lavori, le pareti dei luoghi chiusi che le assicuravano la resa intima e mentale dei suoi scatti, che adesso ambienta, invece, all’esterno per servirsi della vegetazione dei boschi e degli specchi d’acqua naturali; in Caryatid (1980) inizia a lavorare con grandi formati (non più solo con il suo solito 6x6) e prepara una sorta di ricostruzione della facciata di un tempio greco le cui cariatidi sono costituite da modelle avvolte in panneggi classici; inoltre e soprattutto, in una serie prodotta tra le sue mura domestiche, compare per la prima e unica volta l’uso del colore. Per questa serie senza titolo Woodman torna alla dimensione domestica e intima delle ambientazioni, allo spazio scenografico inteso come prolungamento di uno spazio interiore e psicologico, allo spazio fisico in opposizione allo spazio fotografico del negativo, dialogando tramite il suo corpo con i limiti dell’inquadratura e dello spazio che lo accoglie. Torna all’uso di tempi lunghi di esposizione fotografica per conferire al suo volto e al suo corpo una consistenza evanescente, come una traccia pronta a sparire. Anche in questo lavoro Francesca Woodman infatti abita lo spazio dell’inquadratura in maniera sfuggente, frammentaria, facendo vedere il proprio passaggio, ma proiettandosi sia spazialmente sia temporalmente altrove. Si serve del suo corpo per sperimentare, per giocare con la fotografia, rendendolo linguaggio identitario, per indagare la propria natura e contemporaneamente la natura della rappresentazione fotografica. Famosi sono i suoi mimetismi, le sue metamorfosi, i suoi modi di occultare la sua figura e forse anche la sua identità, per questo motivo il suo lavoro è una costante e incessante ricerca. 

In Then at one point I did not need to translate the notes; they went directly to my hands (1976) inscena la sua sparizione cercando di mimetizzarsi con il muro e lo stesso succede nella serie a colori del 1979. Il colore verde pisello del suo abito si fonde, camaleonticamente, con la parete dello stesso colore dietro di lei e c’è da chiedersi se l’uso dei vestiti di questa serie, data la meticolosità con cui Francesca Woodman creava le sue scene, sia stato funzionale proprio alla sua volontà artistica e ironica di “cercare di sparire” o se sia stata semplicemente un’evoluzione della sua poetica. Quando la fotografa si trasferisce nell’appartamento dove metterà in scena questa sua unica serie a colori, lo trova già dipinto di rosa e verde pisello e decide coscientemente di conferire a questa nuova veste il grado di eccezionalità all’interno della sua produzione fotografica, forse come omaggio alla pittura italiana del Quattrocento che aveva potuto apprezzare durante i suoi soggiorni in Italia. L’uso di questi colori, infatti, ricorda le ambientazioni di Piero della Francesca o di Domenico Veneziano, entrambi molto attenti alle sfumature del rosso e del verde e a un uso del colore che, insieme alle luci e alle ombre, andava a costruire lo spazio prospettico. Per esempio, infatti, la trabeazione rosata che incornicia la parte superiore dell’Annunciazione di Veneziano nella Pala di Santa Lucia de’ Magnoli è richiamata, senza troppo indugio, dal colore e dall’uso scenico della cornice della porta che compare nella serie della fotografa americana. 

Si è scritto e detto molto su Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; molti danno una lettura psicanalitica della sua produzione, ma è troppo semplicistico sovrapporre la sua vita privata alla sua vita artistica. Al di là della sua storia biografica e della voglia voyeuristica di alcuni di risolvere un caso che non esiste, Francesca Woodman è entrata a pieno titolo nella storia della fotografia per la potenza del suo gesto artistico e per la complessità del suo stile polimorfico. Questo basta e avanza.


Caryatid (1980).


Untitled, New York (1979).


Untitled, New York (1979-1980).

ART E DOSSIER N. 385
ART E DOSSIER N. 385
MARZO 2021
In questo numero: IN MOSTRA: Signac a Parigi; La collezione Ramo a Houston; Olmechi a Parigi. MARMI DI TORLONIA: Vita complicata di una grande collezione. COSA CI DICE IL VOLTO: Della Porta e la fisiognomica; il filosofo di Porticello; gli autoritratti di Francesca Woodman. CONTEMPORANEI TRANSNAZIONALI: Le non-sculture di Lee Seung-Taek, Alighiero Boetti e Salman Ali. Direttore: Claudio Pescio