Alla Galleria Victoria Miro di Venezia è stata esposta fino al 12 dicembre 2020, ed è ora visibile sul suo sito web tramite l’applicazione di realtà virtuale Vortic, la mostra New York Works, che si compone degli ultimi lavori prodotti da Francesca Woodman a New York nel biennio 1979-1980. Tornata in America nel 1979 dopo il suo anno in Italia, che forgiò e stimolò immensamente la sua poetica artistica, lo stile di Woodman muta il suo aspetto e, in parte, anche il suo focus: torna a mettere in scena il dialogo serrato e metamorfico tra il corpo umano e la natura; spariscono, in alcuni lavori, le pareti dei luoghi chiusi che le assicuravano la resa intima e mentale dei suoi scatti, che adesso ambienta, invece, all’esterno per servirsi della vegetazione dei boschi e degli specchi d’acqua naturali; in Caryatid (1980) inizia a lavorare con grandi formati (non più solo con il suo solito 6x6) e prepara una sorta di ricostruzione della facciata di un tempio greco le cui cariatidi sono costituite da modelle avvolte in panneggi classici; inoltre e soprattutto, in una serie prodotta tra le sue mura domestiche, compare per la prima e unica volta l’uso del colore. Per questa serie senza titolo Woodman torna alla dimensione domestica e intima delle ambientazioni, allo spazio scenografico inteso come prolungamento di uno spazio interiore e psicologico, allo spazio fisico in opposizione allo spazio fotografico del negativo, dialogando tramite il suo corpo con i limiti dell’inquadratura e dello spazio che lo accoglie. Torna all’uso di tempi lunghi di esposizione fotografica per conferire al suo volto e al suo corpo una consistenza evanescente, come una traccia pronta a sparire. Anche in questo lavoro Francesca Woodman infatti abita lo spazio dell’inquadratura in maniera sfuggente, frammentaria, facendo vedere il proprio passaggio, ma proiettandosi sia spazialmente sia temporalmente altrove. Si serve del suo corpo per sperimentare, per giocare con la fotografia, rendendolo linguaggio identitario, per indagare la propria natura e contemporaneamente la natura della rappresentazione fotografica. Famosi sono i suoi mimetismi, le sue metamorfosi, i suoi modi di occultare la sua figura e forse anche la sua identità, per questo motivo il suo lavoro è una costante e incessante ricerca.
In Then at one point I did not need to translate the notes; they went directly to my hands (1976) inscena la sua sparizione cercando di mimetizzarsi con il muro e lo stesso succede nella serie a colori del 1979. Il colore verde pisello del suo abito si fonde, camaleonticamente, con la parete dello stesso colore dietro di lei e c’è da chiedersi se l’uso dei vestiti di questa serie, data la meticolosità con cui Francesca Woodman creava le sue scene, sia stato funzionale proprio alla sua volontà artistica e ironica di “cercare di sparire” o se sia stata semplicemente un’evoluzione della sua poetica. Quando la fotografa si trasferisce nell’appartamento dove metterà in scena questa sua unica serie a colori, lo trova già dipinto di rosa e verde pisello e decide coscientemente di conferire a questa nuova veste il grado di eccezionalità all’interno della sua produzione fotografica, forse come omaggio alla pittura italiana del Quattrocento che aveva potuto apprezzare durante i suoi soggiorni in Italia. L’uso di questi colori, infatti, ricorda le ambientazioni di Piero della Francesca o di Domenico Veneziano, entrambi molto attenti alle sfumature del rosso e del verde e a un uso del colore che, insieme alle luci e alle ombre, andava a costruire lo spazio prospettico. Per esempio, infatti, la trabeazione rosata che incornicia la parte superiore dell’Annunciazione di Veneziano nella Pala di Santa Lucia de’ Magnoli è richiamata, senza troppo indugio, dal colore e dall’uso scenico della cornice della porta che compare nella serie della fotografa americana.
Si è scritto e detto molto su Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; molti danno una lettura psicanalitica della sua produzione, ma è troppo semplicistico sovrapporre la sua vita privata alla sua vita artistica. Al di là della sua storia biografica e della voglia voyeuristica di alcuni di risolvere un caso che non esiste, Francesca Woodman è entrata a pieno titolo nella storia della fotografia per la potenza del suo gesto artistico e per la complessità del suo stile polimorfico. Questo basta e avanza.