La posta in gioco potrebbero essere quindi la giustizia e l’uguaglianza a un livello sovranazionale. Se il “globalismo riparatore”, la «nuova etica relazionale» (invocata dalla citata relazione di Sarr e Savoy) e la «politica del fare umanità insieme» (per citare il filosofo Souleymane Bachir Diagne) sono ciò che si sta negoziando, allora i musei che conservano il patrimonio mondiale non si liberano delle macchie della loro storia semplicemente condividendo alcuni dei loro oggetti più problematicamente acquisiti. Infatti, il concetto di “patrimonio condiviso” o di patrimonio dell’umanità potrebbe essere giustamente definito un’invenzione «codarda, ma geniale» del museo universale occidentale(*). La restituzione può essere solo un elemento, seppure importante, di un discorso più ampio sulla riconciliazione, la decolonizzazione e i cambiamenti infrastrutturali nella narrazione del mondo europeo. La giustizia, quindi, può superare il quadro della legalità autoreferenziale dell’Europa e diventare un vettore che dà forma. Le riflessioni sulla giustizia possono dare origine a pratiche etiche ed estetiche in termini museali.
Il museo postuniversale dovrà sciogliere e disfare una serie di presupposti, a partire dall’idea stessa di museo, nel contesto del patrimonio mondiale. Molte proposte sono state fatte, per esempio, per conciliare le vecchie infrastrutture museali con la critica contemporanea. Tra le proposte degne di nota ci sono quelle dell’ex direttore del Museo delle culture del mondo di Francoforte sul Meno, Clémentine Deliss (The Metabolic Museum, 2020), o lo schietto racconto del saccheggio britannico dei bronzi del Benin fatto da Dan Hicks, curatore dell’Oxford Pitt-Rivers Museum (The Brutish Museums, 2020), che hanno suggerito di considerare i musei come «investimenti nel disagio critico» (Wayne Modest in Across Anthropology 2020). Tali investimenti potrebbero mettere in discussione le infrastrutture, il personale e la programmazione dei musei, o riconsiderare ciò che un museo può fare: se per esempio deve essere immobile, istituzionalizzato, o non può essere riconsiderato come un archivio a fine programmata che permette ai suoi oggetti di essere riabilitati, risocializzati, o addirittura abbandonati, come ha suggerito il curatore Bonaventure Soh Bejeng Ndikung (Those Who Are Dead Are Not Ever Gone, 2019).
IL CONCETTO STESSO DI MUSEO STA ATTRAVERSANDO UNA NECESSARIA RIVOLUZIONE
Mentre le istituzioni europee che si occupano del patrimonio culturale si trovano ad affrontare una crisi sia di rappresentanza che di infrastrutture e di coscienza, altrove le cose vanno avanti.
Come riferisce Ayodeji Rotinwa nel suo recente articolo per “The Art Newspaper” (27 novembre 2020), la crisi del museo europeo è un’opportunità per il rinnovamento del patrimonio culturale africano. La storica dell’arte Nana Oforiatta-Ayim, curatrice del primo padiglione del Ghana alla Biennale di Venezia, è a capo del comitato del paese per lo sviluppo di un nuovo piano per i suoi musei e monumenti. Secondo lei, il concetto stesso di museo «sta attraversando una necessaria rivoluzione». Quel tipo di modello di museo «imperialista, incentrato sull’Occidente e autoreferenziale non può più funzionare». Nuove infrastrutture museali e pratiche di pensiero museale sono state inventate ovunque, ma per rinnovarsi devono allontanarsi dal passato e comprendere il presente creativo. Lo afferma chiaramente Hamady Bocum, direttore del Musée des Civilisations Noires di Dakar in Senegal: «Quando si dice che l’89% dei manufatti africani sono fuori dal continente, non è vero. Qui abbiamo artefatti su cui concentrarci. […] Le civiltà nere sono sempre in evoluzione e continuano a produrre».
Il museo postuniversale si sforzerà di produrre una visione del mondo da prospettive concrete, e non aderirà a una sola visione. L’attuale dibattito sui musei, le collezioni etnografiche e le restituzioni è un carburante utile a tenere vivo quel fuoco.