«IN GIRUM IMUS NOCTEET CONSUMIMUR IGNI»

L’alchimia apre a un vasto campionario iconografico, raramente di facile interpretazione.

Il travaso dall’immaginario alchemico e dai suoi testi operativi al campo delle arti sposta ulteriormente le questioni simboliche su più livelli semantici. La frase che dà il titolo al capitolo è, significativamente, un enigma palindromo(12). Nei casi più riusciti dei linguaggi artistici, le opere, volendo sfuggire a significati e messaggi didascalici, sono più aperte a un registro evocativo e quindi le immagini sono concepite per essere polisemiche, così da innescare più livelli e registri interpretativi. Dal momento in cui gli alchimisti hanno visto (e scritto nei loro libri) corrispondenze tra le operazioni alchemiche e le storie della Bibbia, della mitologia greco-romana, dei simboli egizi, relazioni con i segni dello zodiaco, parentele con la magia, da lì in avanti è plausibile che gli iniziati e i molti appassionati della materia si sentissero autorizzati a proiettare tutte le loro letture su molte opere d’arte a tema religioso, mitologico, astrologico, naturalistico. Ma questa arbitraria proiezione se da un lato può rappresentare un gioco interpretativo utile a tenere oliato il meccanismo della fantasia e la capacità di tentare creativi collegamenti di senso, dall’altro lato, se non vengono rispettate regole - che ogni gioco comporta e che danno senso al gioco stesso e alla sfida che piace ai giocatori -, ogni interpretazione può inciampare e cadere nella buca del delirio, dove il risultato si fonda su collegamenti di senso troppo arbitrari o strampalati. A livello scientifico, la regola del gioco interpretativo è rappresentata dalla lettura filologica di un’opera, per mezzo di documenti, notizie sulla committenza, sulla data, di confronti con opere coeve e precedenti. 

Per un artista, invece, la suggestione di un simbolo utilizzato nella sfera dell’alchimia può risultare un barlume o uno spunto da cui partire per spingere l’immaginazione verso collegamenti con altre questioni o in direzione di una nuova visione, da tradurre in opera sia a livello formale-stilistico sia a livello concettuale. Allora, da una parte c’è l’analisi filologica della disciplina scientifica e dall’altra quella dell’arte, che tende a innescare un processo di liberazione. Due vie che paiono apparentemente andare verso direzioni diverse, ma non necessariamente. Per chiarire quello che ho scritto fin qui, riferiamoci per esempio alle versioni della Melencolia realizzate da Albrecht Dürer e da Lucas Cranach. Le opere contengono immagini e rimandi che riguardano le allegorie alchemiche? 

Nell’incisione di Dürer, densa di riferimenti simbolici, compare anche un quadrato magico, che contiene a sua volta la data di esecuzione. Nel dipinto di Cranach, a cosa rimandano la nube scura con scene di sabba e i putti che giocano? Alla “nigredo” e al “ludus puerorum”, ovvero alla fase iniziale dell’“opus” e al processo di trasformazione, che è un gioco da ragazzi per chi possiede la chiave della natura, attingendo al pensiero magico-ermetico rinascimentale, che collegava il potenziale insito nel temperamento malinconico al piombo convertito in oro dagli alchimisti, e che poteva essere trasmutato nelle qualità dei più grandi sapienti? O sono tutti riferimenti a uno stato psichico che condiziona il tono dell’umore, favorisce la capacità di introspezione e autocontrollo, e riprende Aristotele, secondo il quale «tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria, hanno un temperamento melanconico o atrabiliare», seguito anche da Marsilio Ficino (1433-1499), che collega l’atrabile alla genialità? O Melencolia I è forse ispirata al De Occulta Philosophia (1510) di Agrippa, e si riferisce a questioni che competono alla sfera della magia? E potremmo continuare ancora nella giostra delle interpretazioni, senza avere mai la certezza assoluta che la nostra lettura sia corretta, semmai abbia senso pensare che esista una sola possibilità. Gli artisti hanno attinto da varie fonti per costruire un’allegoria polisemica, in grado, visto la presenza di innumerevoli dettagli simbolici, di mettere in azione una macchina enigmatica, in cui lo sguardo e l’intelligenza possano avere appigli per dare spazio a personali narrazioni e interpretazioni. E il fascino di un’opera dura nel tempo quando mantiene una sorta di inviolabilità, un senso di mistero che rimane in sospensione, nello scorrere dei giorni e nella coscienza. Questo territorio di indeterminazione non piace molto agli accademici, che amano trovare una risposta scientifica per ogni caso enigmatico. 

La polivocità aperta piace più agli artisti.


Albrecht Dürer, Melencolia I (1514); Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle.


Lucas Cranach il Vecchio, Melencolia (1532); Copenaghen, Statens Museum for Kunst.

(12) Enigma palindromo delle falene o delle torce: “Ci aggiriamo di notte e siamo consumate dal fuoco”. In chiave alchemica rimanda anche a un segreto della Grande Opera.

Lucas Cranach il Vecchio, Allegoria della melanconia (1532); Colmar, Musée d’Unterlinden.


Seguace di Lucas Cranach, copia da un’Allegoria della Melancolia, (1528); Edimburgo, Scottish National Gallery.

Prendiamo in esame ora un altro simbolo. L’“ouroboros”, soventemente rappresentato nei codici miniati a tema alchemico, che significato ha? È una ripresa da un riferimento egizio, reinterpretato dagli alchimisti nei loro libri? Essendo un simbolo molto antico, presente nelle culture di molti popoli e in diverse epoche, nel corso dei millenni ha rilasciato più letture, che si sono intrecciate come trama e ordito in un tessuto prezioso. La più antica rappresentazione dell’uroboro, almeno per quanto riguarda quelle opere che sono giunte fino ai nostri giorni, si trova in un antico testo funerario egizio, chiamato Libro Enigmatico dell’Oltretomba, ritrovato nella tomba (KV62) del faraone Tutankhamon, della XVIII dinastia(13). L’“ouroboros” rappresenta l’inizio e la fine del tempo, il cambio dell’anno e il ritorno al principio, la circolarità delle cose, o la totalità del tempo e dello spazio? È lo spirito del mondo, che a tutto dona la vita e che tutto divora, e che in sé reca tutte le forme naturali? È il Tutto che è nell’Uno? O è il mercuriale mangiatore di code, il soggetto dell’arte, la radice da cui spunteranno le rose e il bene supremo, il principio dell’Opera? Secondo Orapollo, un egiziano del V secolo, l’uroboro rappresenta l’universo e «l’ingestione della coda allude al fatto che tutte le cose create nel mondo dalla divina provvidenza sono soggette alla putrefazione»(14). L’interpretazione dipende anche dal contesto in cui è collocato un simbolo, che può cambiare significato o sfumatura di senso a seconda di dove è inserito. Un’altra immagine caposaldo per la cultura alchemica è la figura di Ermete Trismegisto («Mercurio tre volte grandissimo»), un personaggio mitico considerato autore del Corpus hermeticum(15). Una celebre traduzione in figura si trova nel pavimento marmoreo del duomo di Siena, attribuita a Giovanni di Maestro Stefano e realizzata nel 1488.


Una delle più antiche rappresentazioni dell’“ouroboros”, particolare del secondo sarcofago proveniente dalla tomba di Tutankamon, XVIII dinastia (XIV secolo a.C.); Il Cairo, Museo egizio.

Chrysopoeia (“produzione dell’oro”) (XI secolo), scritti greci attribuiti a Cleopatra D’Alessandria (IV secolo); Venezia, Biblioteca marciana. In alto, a sinistra, all’interno dei cerchi si legge: «L’uno è tutto. Presso di lui, per lui e in lui è tutto. L’uno è il serpente, designato da due simboli, buono e cattivo». Nel dettaglio dell’ “ouroboros” l’autore ha posto all’interno la scritta in greco traducibile con «Il tutto è uno».

(13) Nel secondo scrigno che conteneva il sarcofago di Tutankhamon sono rappresentati due serpenti che si mordono la coda e circondano la testa e i piedi di una figura divina mummiforme. Probabilmente i serpenti sono manifestazioni della divinità Mehen, serpente che protegge la Barca solare di Ra. Nel Papiro di Dama- Heroub, della XXI dinastia, Horus bambino è all’interno del disco solare, sostenuto dal leone Akhet (un rimando all’orizzonte dove il sole sorge e tramonta) e circondato dal dio serpente Mehen.
(14) Si veda: The Hieroglyphics of Horapollo Nilous, ed. Londra 1987.
(15) Scritti filosofici e teologici, che testimoniano anche un profondo influsso egiziano, filtrato attraverso la concezione platonico-stoica della divinità come Unotutto e della conoscenza come “gnosi”.

La maestosa e ieratica persona consegna a due sacerdoti (uno isiaco e uno orientale) un libro aperto, sopra cui è scritto: «SUSCIPITE O LICTERAS ET LEGES EGYPTII» (“Prendete le lettere e le leggi, o Egiziani”), secondo la fonte di Lattanzio, che, riprendendo un brano di Cicerone, tramanda che Mercurio, «eruditissimo in ogni sorta di dottrina […], dottissimo nella conoscenza di arti e scienze, venne soprannominato Trismegisto […] e trasmise agli Egiziani i princìpi delle leggi e delle lettere»(16). Accanto a Ermete - qui abbigliato all’orientale, con una barba biforcuta, e con un vistoso nodo mistico isiaco alla cintura della veste, e considerato contemporaneo di Mosè, seguendo le supposizioni di Agostino ed Eusebio(17) - una lapide sorretta da due sfingi riporta un brano tratto dall’Asclepius ermetico, citato e tradotto in latino da Lattanzio nelle Divinae Institutiones: «Dio, creatore di tutte le cose, fece il secondo dio visibile(18): lo creò primo e solo, di lui si dilettò e amò grandemente questo suo proprio figlio, che è detto Verbo Santo». I Padri della Chiesa considerarono Ermete Trismegisto come autorità profetica pagana che seppe prevedere l’avvento del Cristo, Figlio unigenito di Dio, che sostenne nei suoi scritti la «maestà di un unico e sommo Dio», dichiarò che il mondo è stato creato dalla provvidenza divina e previde la fine dell’ingannevole politeismo. Per supportare questa lungimiranza profetica, i committenti del pavimento del duomo di Siena vollero che accanto a Ermete, nelle due navate laterali, ci fossero anche le sibille, con i cartigli contenenti le iscrizioni profetizzanti il Verbo divino cristiano. La figura cara agli alchimisti, nel duomo senese, non funge da depositario dei segreti della Grande Opera, ma è una trasposizione figurativa dello spirito apologetico dei primi Padri della Chiesa, che lo hanno inteso come sommo profeta pagano dell’avvento di Cristo. Fino al XVII secolo si pensava che Trismegisto fosse più antico di Mosè e di Abramo, e i suoi scritti, per l’alto valore sapienziale, erano posti accanto ai libri biblici. Ma il filologo Isaac Casaubon, nel De rebus sacris et ecclesiasticis (1614), mise in dubbio la reale esistenza storica di Trismegisto, e argomentò la posteriorità della redazione dei testi a lui attribuiti, datandoli in epoca tardo ellenistica (II-III secolo d.C.). Quindi la figura che ha alimentato la mitologia della cultura ermetica e parte della visione umanistica di stampo neoplatonico, e che secondo i Padri della Chiesa ha profetizzato l’incarnazione del Verbo in un uomo, in realtà è frutto di una cultura che ha preso corpo cento o duecento anni dopo la nascita di Cristo. Quanti dogmi, movimenti, mitologie, religioni e questioni, che hanno fatto presa su milioni di persone, sono nati ed evoluti da fraintendimenti e da proiezioni che col tempo sono stati sconfessati? La storia dell’umanità ne è piena, anche ora. 

Ma tornando al rapporto tra alchimia e arti figurative, quali sono le opere su cui non abbiamo dubbi? Sicuramente un luogo deputato per le questioni dell’alchimia è lo Studiolo di Francesco I, concepito come uno scrigno prezioso decorato in ogni sua parte, una sorta di “boite à surprise” posta nel cuore di Palazzo vecchio a Firenze. È stato ideato per conservare manufatti antichi, macchinari ingegnosi, vetri soffiati, medaglie, gioie, pietre preziose, antidoti di veleni, rarità naturalistiche e sostanze prodotte tramite la pratica dell’alchimia.


Giovanni di Maestro Stefano, Ermete Trismegisto (1488); Siena, duomo, pavimento.


Pieter Bruegel il Vecchio, L’alchimista (1558); Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett.


Egbert van Heemskerck, Un alchimista nel suo laboratorio (XVII secolo); Filadelfia, Science History Institute.

(16) Cfr. Lattanzio, Divinae Institutiones, I, 6, 2-3; Cicerone, De Natura Deorum, III, 56.
(17) Agostino, De civitate Dei, XVIII, 8; Eusebio, Preparatio evangelica, IX, 27, 3-6.
(18) Nell’Asclepius il “secondo Dio” è un riferimento al mondo, al cosmo, inteso come «Bello e pieno di ogni bontà», mentre Lattanzio fa una traduzione arbitraria e fuorviante, e lo immagina come Figlio di Dio o Verbo cristiano, tramandando questo fraintendimento in un periodo storico in cui i primi Padri della Chiesa erano intenti, con ogni mezzo, a far prevalere la loro verità cristologica e monoteista per combattere e cancellare la teologia dei gentili.

Pieter Paul Rubens, Ritratto di Paracelso (1617-1618); Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique.


Joseph Wright of Derby, L’alchimista scopre il fosforo cercando la pietra filosofale (1771); Derby, Derby Museum and Art Gallery.

Lo stanzino segreto viene commissionato, attorno al 1569, da Francesco I, principe del granducato di Toscana, intellettuale malinconico e personalità complessa cresciuta all’ombra del padre Cosimo I de’ Medici. Il programma iconografico e concettuale è stato condotto dal letterato don Vincenzo Borghini - priore del fiorentino Spedale degli Innocenti, grande erudito, filologo, storico e scrittore d’arte fra i più apprezzati della seconda metà del XVI secolo - per celebrare tutte le vie d’interesse della filosofia naturale e le attività collegate a indagare e a lavorare le proprietà degli elementi. Il programma, sostanzialmente laico, testimonia la curiosità dei Medici per le opere dell’ingegno umano: qui, lo spirito scientifico convive con il simbolismo alchemico, la conoscenza artigianale e artistica trae dalla materia manufatti e opere, cerca di sondare il mondo pervaso da allusioni magiche e iniziatiche, cerca di capire la sottile trama ermetica sottesa alla mitologia greca. Coordinatore di tutto l’impianto iconografico è stato Giorgio Vasari, che, coadiuvato dai migliori artisti della corte medicea, diede vita a una stanza della memoria umanistica di stile manierista. Ancora ai nostri giorni, chi entra nello Studiolo si sente avvolto dalla visione razionale degli artisti fiorentini della seconda e terza generazione del manierismo, una visione affascinata dal mistero seducente dei segreti ermetici e dal piacere di assaporare l’impianto intellettuale dell’erudizione mitologica. Si entra in una dimensione a metà strada fra il pensatoio metafisico e la “Wunderkammer”, dove le protagoniste essenziali sono la quintessenza che discende dal cielo e le materie prodotte dalla madre terra e lavorate dall’ingegno umano. Lo Studiolo viene realizzato fra il 1570 e il 1573, in un clima intellettuale caratterizzato da una raffinata eleganza formale tesa a costruire effetti allusivi ed evocativi, che per essere compresa aveva bisogno di spettatori di particolarissima elezione. Il teatro del mondo mediceo - imbevuto ancora della tradizione ermetica nata a Firenze dopo la traduzione di Marsilio Ficino dei testi di Ermete Trismegisto acquistati da Cosimo il Vecchio - consta di trentaquattro dipinti, che raffigurano episodi della storia, racconti allegorici della mitologia greca, ambienti esotici e luoghi dei mestieri volti a catturare le preziosità della Natura, otto statue raffiguranti divinità mitologiche inerenti ai quattro elementi, e quindici riquadri affrescati sulla volta. La composizione immaginativa aveva la funzione di aiutare il principe a risvegliare la memoria, ovvero di far rievocare le argomentazioni approfondite nelle letture e nella pratica di laboratorio, i contenuti mitologici e alchemici tramandati dalla poesia e dall’arte figurativa della cultura greco-romana. Si è puntato sulla recezione mnemonica immediata che colpisce la fantasia dialogica. La costruzione per immagini è sia criptica sia funzionale sequenza di scene atte a richiamare concetti o classi di catalogazione. Dietro i dipinti del vano inferiore, infatti, erano celati degli armadi, che custodivano i prodotti dell’ingegno umano e le materie più preziose raccolte dal principe fiorentino e dalla sua famiglia. Negli stessi anni Francesco sperimentava i misteri della tradizione ermetica nel luogo in cui era fiorita l’Accademia neoplatonica voluta da Cosimo il Vecchio, ovvero nel Casino costruito dal Buontalenti sui terreni adiacenti al complesso monastico fiorentino di San Marco. Qui il duca ripercorreva le vie indicate dai filosofi naturali di ogni periodo della storia, cercava il fuoco segreto celato nella Natura, quel fuoco, scintilla della conoscenza, donato agli uomini da Prometeo, personaggio che sovrintende tutto l’impianto iconografico dello Studiolo. I Medici vollero fortemente capire i significati allusi dalle storie allegoriche della mitologia greca, e, per scoprire i misteri celati, sperimentarono i procedimenti di metamorfosi agendo in prima persona sulle materie della terra con l’ausilio del fuoco segreto (sale degli alchimisti) e della conoscenza.


Giovanni Stradano, Il laboratorio dell’alchimista (1570); Firenze, Palazzo vecchio, Studiolo di Francesco I de’ Medici.

Lo Studiolo di Francesco I de’ Medici in Palazzo vecchio a Firenze.


Caravaggio, Giove, Nettuno e Plutone (1599 circa); Roma, Casino di villa Ludovisi. Questa allegoria mito-cosmologica è molto probabilmente mutuata dalla visione di Proclo, che immagina il cosmo costituito da una tripartizione, dove gli elementi sono suddivisi tra le regioni celesti, sublunari e sotterranee. Le tre divinità greche qui ci informano che per ogni elemento esistono tre specie (per esempio agiscono contemporaneamente un fuoco celeste, uno sublunare e uno sotterraneo).

Un altro luogo alchemico è a Roma, nel Casino di villa Ludovisi a Porta pinciana, dove Caravaggio ha dipinto Giove, Nettuno e Plutone (1599 circa) sul soffitto del Camerino, intendendo raffigurare tre divinità simboliche accanto alla grande sfera celeste. Il globo luciforme del cosmo contiene la piccola sfera indicante la terra, avvolta dalla cintura zodiacale, la luna posta vicino al segno dei Pesci, e il sole che transita sulla fascia circolare, dove agiscono le influenze dei dodici segni. Al di fuori della sfera, in un lato sono raffigurati Nettuno (dio del mare) e Plutone (dio degli inferi) con i loro attributi, mentre nell’altro lato compare Giove (dio dell’etere), portato dalla sua aquila, che vola negli spazi uranici: gli déi qui rappresentano la tripartizione cosmica, ovvero i tre livelli cosmici (celeste, sublunare e sotterraneo), dove sono ripartite le diverse specie di ciascun elemento. Esistono tre specie per ogni singolo elemento: agisce un fuoco celeste, uno mediano e uno sotterraneo, e così pure per acqua, terra e aria. A Giove, vetta suprema della triade dominatrice, è assegnato il compito di legare armoniosamente tutti i contrari, di diffondere Amore ovunque e di coniugare ogni cosa dell’universo. Per questo motivo, il committente cardinale Del Monte, studioso di medicamenti chimici e dei misteri ermetici, ha indicato a Caravaggio di raffigurare Giove mentre tocca con la mano sinistra il globo del cosmo (come fosse una chirofania divina). Il dipinto evoca la mito-cosmologia neoplatonica dei tre livelli cosmici, della genesi e dell’armonia del mondo secondo la concezione del filosofo Proclo: tutto è strettamente connesso in molteplici valenze, così che gli elementi, la composizione dell’universo e la materia catturino le influenze dello zodiaco. Il cardinale Del Monte auspica di ottenere per via spagirica (arte di composizione e decomposizione degli elementi naturali) e alchemica la misteriosa quintessenza celeste, per esaminarla e farla agire nella sua distilleria, sia a livello operativo sia a livello interiore. Qualcosa del genere lo desiderava ardentemente anche Luca Giordano, almeno a livello ideale, a giudicare da come si raffigura nell’Autoritratto in veste di chimico o alchimista (1660 circa), ora conservato a Milano nella Pinacoteca di Brera, con un alambicco tenuto tra le mani, mentre si rivolge con sguardo intenso e magnetico in direzione dell’osservatore, come se volesse coinvolgerlo nella sua grande opera aperta. Un palindromo bifronte, inciso alla base della Porta magica (1680 circa) del giardino del marchese Palombara(19) a Roma, recita: «SI SEDES NON IS, SI NON SEDES IS» (“Se siedi non procedi, se non siedi procedi”). Il motto è alla base di ogni impresa e di ogni viaggio. Nel frontone, nell’architrave e negli stipiti della soglia iniziatica sono scolpiti un fregio plastico con caratteristiche iconologiche tratte dall’immagine che compare sul frontespizio dell’Aureum Seculum Redivivum di Henricus Madathanus, sette segni-sigilli criptografici(20) accompagnati da motti e una scritta ebraica (“Ruàch Elohìm”, che corrisponde allo Spirito santo dei Padri greci e latini) che compongono il percorso iniziatico tra influenze astrali e i misteri delle forze “metalliche” del microcosmo, per approdare all’agognato “lapis philosophorum” - e alla potenza magica della preziosa sostanza nominata - come gli Argonauti quando giungono nell’orto delle Esperidi e trovano il vello d’oro.


Luca Giordano, Autoritratto in veste di chimico o alchimista (1660 circa); Milano, Pinacoteca di Brera.


Porta magica (1680 circa), ideata da Massimiliano Palombara; Roma, giardino di piazza Vittorio.

(19) Per approfondimenti si vedano: M. Gabriele, Il giardino di Hermes. Massimiliano Palombara alchimista e rosacroce nella Roma del Seicento, Roma 1986; Id., Alchimia e Iconologia, cit., pp. 127-140.
(20) I sette segni-sigilli sono mutuati dalle sette “syllabae chymicae” stampate nella Commentatio de Pharmaco Catholico (1662), scritta dall’alchimista tedesco Johannes de Monte-Snyder. I sette segni sono la combinazione tra loro dei simboli dei sette astri, di alcune sostanze e di semimetalli, secondo la tradizione dell’arte combinatoria magica applicata al processo alchemico, proprio come fecero gli ermetisti quando ricorsero all’“ars” di Ramon Llull (1232-1316) per rappresentare i loro arcani.

ARTE E ALCHIMIA DALL'ANTICO AL CONTEMPORANEO
ARTE E ALCHIMIA DALL'ANTICO AL CONTEMPORANEO
Mauro Zanchi