Grandi mostre. 3 
Tesori dei Moghul e dei Maharaja a Venezia

L'INDIA NELL'ETà
DELLE PIETRE

Quasi trecento opere tra oggetti, pietre preziose e gioielli della collezione dello sceicco del Qatar Hamad bin Abdullah Al Thani sono esposte, per la prima volta in Italia, a Palazzo ducale. Una cospicua testimonianza di un’arte, dal XVI secolo ai giorni nostri, che evidenzia una radicata identità culturale e un flusso di influenze reciproche tra Oriente e Occidente.

Alessandra Quattrodio

nel 1901, quando la regina Vittoria scomparve dopo più di sessant’anni di regno, gli scambi economici e culturali fra Inghilterra e India avevano raggiunto livelli di grande intensità. La sovrana stessa, divenuta imperatrice d’India nel 1876, aveva intrecciato rapporti con maharaja, fra i quali l’esule Duleep Singh del Punjab, “erede” del favoloso diamante Koh-i-Noor. Ai primi del Novecento, analogamente, Alessandra di Danimarca, moglie di re Edoardo VII successore al trono britannico, nutrì un forte interesse per le terre d’Oriente, fonte di gioielli ricchi di valori storici e simbolici, e di quelle perle che molto amava. La sovrana fu assistita nella ricerca di preziosi da Pierre Cartier, che dirigeva la sede londinese della Maison parigina. Il fascino dell’India aveva peraltro radici antiche. La Compagnia britannica delle Indie Orientali - fondata nell’anno 1600 da Elisabetta I, secoli prima che la potenza inglese instaurasse ufficialmente il suo dominio nel subcontinente indiano - aveva intessuto fitte trame commerciali assorbendo la cultura locale e imponendo costumi e regole della madre patria. I suoi funzionari, gli “angloindian”, grazie ad abilità e propensione per l’avventura si arricchirono enormemente. Detti “nabob” - da cui il termine nababbo -, divennero leggendari per quantità e qualità di doni, gioielli in primis, ricevuti dai governanti locali: maharaja, nawab o nizam.

Fondendo lo splendore delle culture timuride, persiana e indiana, Humayun, figlio di Babur, stimolò lo sviluppo delle arti nell’India settentrionale



Lo studioso di culture orientali Gian Carlo Calza - cocuratore della mostra Tesori dei Moghul e dei Maharaja che fino al 3 gennaio 2018 svela a Venezia duecentosettanta preziosissimi oggetti e gioielli provenienti dalla collezione dello sceicco del Qatar Hamad bin Abdullah Al Thani - sottolinea il ruolo di “trait d’union” con il Vecchio continente svolto proprio da quegli “anglo-indian”. L’arco cronologico espositivo giunge a oggi partendo dal Cinquecento, epoca in cui il conquistatore Babur, discendente da Tamerlano, si impossessò dell’Indostan (1526) sconfiggendo il sultano Ibrahim Lodhi. Da lui si sarebbe dipanata la dinastia dei Moghul. Fondendo lo splendore delle culture timuride, persiana e indiana, Humayun, figlio di Babur, stimolò lo sviluppo delle arti nell’India settentrionale. Uno dei più gloriosi eredi di Babur fu Akbar, sovrano di eccezionale tolleranza religiosa nonché fine esteta.



Ciondolo; perla barocca, oro, diamanti, rubini, smeraldi, zaffiri, vetro, smalto, lacca; India (1575-1625 circa).

Diffusore per l'acqua di rose; oro, rubini, smeraldi, perle; India settentrionale (1675-1725).


Ornamento per turbante; oro, argento, smeraldo, diamanti, perla; India (1900 circa). L’esemplare qui riprodotto è stato rimontato a Parigi da Cartier nel 2012.


Arcot II, diamante colore D di 17, 21 carati; India (1760 circa), modificato nel 1959 e nel 2011.

Per il pugnale secentesco del sovrano
Shah Jahan s’ipotizza l’influenza portoghese
o italiana

L’uso di ampolle per narghilè in giada intarsiata di pietre, di cui ora si ammira a Palazzo ducale un esemplare del Settecento, prese piede alla sua corte. A uno dei suoi successori, l’imperatore Jahangir, si deve la prima coppa in giada istoriata che riporta incisa la data di realizzazione, «AH 1016» (Anno Domini 1607-1608). Agli oggetti domestici - coppe, ciotole, cucchiai, astucci, set da scrittoio, scacciamosche, o contenitori per il “paan” (una varietà della foglia di betel, da masticare) - fanno da contraltare quelli di alta rappresentanza: troni (celebre quello settecentesco di Tipu Sultan, sovrano di Mysore), gioielli, spade o pugnali dalle else scolpite e intarsiate, esibiti alla cintura da principi e dignitari in occasione dei “durbar”, udienze a corte che si tramutavano immancabilmente in incredibili gare di sfarzo. Il pugnale secentesco del sovrano Shah Jahan presenta in cima all’elsa di giada una testina di giovane scolpita con eccezionale maestria.
Per tale manufatto s’ipotizza l’influenza portoghese o italiana - giunta attraverso gli scambi di doni fra corte e corte, continente e continente -, se non, addirittura, la mano di uno degli abili intagliatori di pietre europei attivi presso i Moghul. A loro si possono ricondurre alcuni dei capolavori esposti a Venezia: il ciondolo, per esempio, raffigurante un dio-serpente scelto come simbolo della mostra - ricco di perle baroccche e pietre incastonate con tecnica “kundan” -, che rimanda alla tradizione rinascimentale dei pendenti medicei conservati oggi al Museo degli argenti di Firenze. A maestranze europee, emigrate in Oriente dal Cinquecento in poi, si deve anche il fiorire in India dello smalto per cui la tradizione moghul è tanto famosa. Proprio questo intrecciarsi di apporti culturali tra Est e Ovest è uno dei nodi centrali della mostra veneziana.
Se Jean-Baptiste Tavernier fu nel Seicento pioniere nel commercio di diamanti indiani - celebri quelli delle miniere di Golconda da cui vengono anche i favolosi diamanti Arcot II e Occhio dell’idolo della collezione Al Thani -, i suoi emuli introdussero più tardi in Europa spinelli, zaffiri e rubini da loro acquistati in India, Kashmir, Ceylon e Birmania.
A partire dal 1909 furono i fratelli di Pierre Cartier, Louis e Jacques, a perlustrare le terre indiane in cerca di pietre. Ma il loro scopo era anche trovare ispirazione per la creazione di nuovi pezzi da proporre in Europa, sulla scia dell’entusiasmo per l’Oriente alimentato a Parigi dai Balletti russi, compagnia fondata da Sergej Djaghilev con la direzione artistica di Léon Bakst. Giunsero dall’India smeraldi eccezionali: quello con cui Paul Iribe, uno dei più abili disegnatori di Cartier, costruì nel 1910 una splendida “aigrette”; o l’antico Taj Mahal che, incastonato da Cartier nel collier Bérénice, fu una delle vedette dell’Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne del 1925. Negli anni Trenta la Maison avrebbe poi lanciato la collezione Tutti frutti, lucente di pietre indiane multicolori.
I maharaja, a loro volta sensibili allo charme francese, non esitarono ad affidare a Cartier antichi ornamenti da petto, da turbante, da cintura perché ne aggiornasse lo stile secondo il gusto parigino. Jacques, presente a Delhi al celebre “durbar” del 1911, sviluppò contatti con le più alte personalità del paese. Le creazioni realizzate per i maharaja di Patiala o Nawanagar ne sono la prova.
Ma anche altri gioiellieri occidentali - come Boucheron, Bulgari, Garrard, Harry Winston, Janesich, JAR, Mauboussin, Mellerio, Van Cleef & Arpels - divennero nel corso del Novecento fornitori, e amici, dei principi di Indore, Kapurthala o Baroda, in un crescendo di capolavori in cui Oriente e Occidente magicamente sembrano fondersi.


Elemento decorativo dal trono di Tipu Sultan; oro, diamanti, rubini, smeraldi, lacca, marmo nero, metallo dorato; Mysore (1787-1793 circa; plinto 1800 circa).

Qui sopra, “aigrette”; oro, platino, diamanti, fondo a smalto; prodotto a Parigi per il maharaja di Kapurthala da Mellerio dits Meller nel 905.

Pugnale di Shah Jahan; giada, acciaio damasco; India settentrionale (elsa, 1620-1636, lama 1629-1636).


Collana di rubini di Nawanagar; platino, rubini, diamanti; prodotta a Parigi da Cartier nel 1937.

ART E DOSSIER N. 349
ART E DOSSIER N. 349
Dicembre 2017
In questo numero: COMICS: I PARENTI E GLI ANTENATI Medioevo a fumetti, Antonio Rubino a Olgiate Olona. IN MOSTRA Gioielli Moghul a Venezia, L’Assunta di Daddi a Prato, Le Secessioni a Rovigo, Capa a Bassano. RESTAURI Van Eyck ritrovato.Direttore: Philippe Daverio