esistono esposizioni ed esposizioni. Oggi, in Italia, vanno assai di moda quelle acquistate “a scatola chiusa”, normalmente all’estero: spesso, fanno parte di circuiti itineranti; e raramente di un artista, o periodo, presentano troppi capolavori: di solito, uno o due al massimo. Talora, sono anche gustose da vedere; attirano pure abbastanza pubblico; ma di rado sono sostenute da un autentico progetto scientifico, e accrescono assai poco la nostra conoscenza, o fanno scoprire qualcosa. Poi ci sono le altre: quelle pensate, studiate, che, in soldoni, hanno qualcosa da dire, oltre che da far vedere. Ma dietro, hanno spesso storie strane e singolari. Di solito, non vengono declinate: opere che mancano all’appello, rivalità sottaciute, occasioni mancate. Per esempio, all’esposizione Dentro Caravaggio (Milano, Palazzo reale, fino al 28 gennaio), la curatrice Rossella Vodret pensava «da almeno sette anni», e «da tre abbiamo iniziato a lavorarci e a chiedere i prestiti», afferma. Venti quadri dell’artista: ciascuno con, su un pannello e uno schermo visibili sul retro, il riassunto degli esami, delle indagini e delle analisi scientifiche cui è stato sottoposto. Per scoprire i «pentimenti»; il modo di dipingere (all’inizio pure i disegni sottostanti, finora sempre negati); le incisioni-guida; l’utilizzazione di tovaglie, o di tele già dipinte, perché Merisi non possedeva i quattrini per comperarsene di nuove.
Insomma, una mostra assai interessante, basata non soltanto sulle bellezze, ma anche sulla tecnica del pittore. Qualcosa di simile, si era visto soltanto nel 1991; ma erano altri tempi: assai più ridotte le stesse possibilità d’indagine. Mina Gregori aveva organizzato, a Firenze e a Roma, Come dipingeva il Caravaggio. Quella di Milano è costata tre milioni e mezzo di euro, e ha diciotto prestatori dal mondo; su tredici dipinti sono state eseguite tutte le indagini immaginabili e possibili, in parte finanziate dal Gruppo Bracco, che si aggiungono a quelle compiute, nel 2009, sui ventitre suoi quadri romani. Eppure, in questa carrellata assai pregevole, ci sono anche assenze vistose.
anche se i Caravaggio dell’isola, nel recente passato,
hanno non poco viaggiato
Niente dal Louvre: perché già due anni fa, il museo francese aveva risposto che un paio delle sue tre opere sarebbero state altrove. Niente da Milano: perché gli organizzatori non hanno insistito troppo sulle richieste di prestito, con l’idea semmai di “lanciare” in città percorsi complementari. Niente nemmeno dalla Sicilia, anche se i Caravaggio dell’isola, nel recente passato, hanno non poco viaggiato; forse perché si votava, in contemporanea con la mostra, e la giunta regionale temeva il rischio di critiche? Sta di fatto che di tutti gli svariati periodi dell’autore (Roma, Napoli, Malta, la Sicilia), proprio quest’ultimo è l’unico non documentato a Palazzo reale. Ma niente neppure dalla Galleria Borghese che, con sei capolavori, vanta il più alto numero di opere di Merisi. Qui, è accaduto qualcosa di diverso: la Galleria, due settimane prima della mostra, ha annunciato una “partnership” triennale con Fendi, «per esportare con Caravaggio la bellezza italiana nel mondo». Infatti, il primo atto della “joint venture” è stato spedire tre dipinti al Getty Museum di Los Angeles, qui visibili dal 21 novembre: San Gerolamo scrivente, Ragazzo con cesto di frutta (Fruttaiolo) e David con la testa di Golia. E, ovviamente, non si potevano muovere i tre rimasti (il cosiddetto Bacchino malato, la Madonna dei palafrenieri e il San Giovanni Battista): chi paga il biglietto non ne trova nessuno esposto?
Nel contempo, la Galleria Borghese ha annunciato anche la creazione di un Centro di ricerca e studi dedicato all’artista, che raccolga l’intera «diagnostica e ricerca storico-artistica sulla sua opera»; «il più completo esistente, così da proporsi come il riferimento primario per la ricerca a livello mondiale» su Caravaggio, munito di «una piattaforma digitale, la più esaustiva banca dati online relativa» all’autore. Ma i maggiori studiosi dell’artista, finora, non ne hanno nemmeno sentito parlare: non ne sono affatto coinvolti, anche se è previsto un prestigioso comitato scientifico. Non ne sanno nulla la stessa Vodret; o Alessandro Zuccari, docente alla Sapienza e segretario del Comitato per i quattrocento anni dalla morte di Merisi: «Non ne conosciamo i progetti e le finalità».