Grandi mostre. 1 
Arte ribelle 1968-1978 a Milano

LA SPINTA DI UN MOVIMENTo
INARRESTABILE

Partendo dall’analisi storica di un periodo che in Italia ha rappresentato una vera e propria rivoluzione culturale, esplosa nel 1968 e consolidatasi poi negli anni successivi, il curatore dell’esposizione alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese ci presenta qui l’arte dell’epoca, dagli stili e dai linguaggi diversi ma tutti espressione della contestazione di massa.

Marco Meneguzzo

artisticamente, gli anni Settanta sono una specie di “consolidamento” di quanto era stato provato e inventato nella seconda metà del decennio precedente: Land Art, Arte povera, Arte concettuale, videoarte, Body Art trovano tutte le loro radici negli anni Sessanta, ma è nei Settanta che conquistano la scena, quasi sbarazzandosi di ogni altra sperimentazione. È ovvio che l’arte non si misura a decenni “tondi”, come se scattasse a ogni decennio la necessità del cambiamento, per cui parlare in termini di decenni, benché comodissimo, risulta quasi sempre fuorviante. Tuttavia, gli anni Settanta sono caratterizzati socialmente e culturalmente da un gran desiderio diffuso di cambiamento, e non solo nelle élite intellettuali: l’innesco anarchico dadaista rivoluzionario del Sessantotto - in Francia, in Italia, in Germania, mentre prima c’era stata la protesta universitaria americana contro la guerra del Vietnam - aveva coinvolto tutte le fasce sociali (allora si chiamavano marxisticamente “classi”) e gli artisti avevano molto precocemente “fiutato” il cambiamento, e la necessità di trovare nuovi linguaggi da un lato, nuovi coinvolgimenti dall’altro. Nuova arte e nuovo pubblico, dunque.

Così, l’oggetto di questa mostra - Arte ribelle 1968-1978. Artisti e gruppi dal Sessantotto (Milano, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, fino al 9 dicembre) - riguarda certamente le nuove sperimentazioni linguistiche affermatesi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ma non tutte, pena il ridursi a una difficile quanto generica rassegna su quelle tendenze citate sopra. In questo caso, invece, l’attenzione si focalizza sul desiderio di un nuovo pubblico, che in quel momento non poteva che essere un pubblico molto ideologizzato, molto politicizzato: coinvolti a titolo personale e umano, molti artisti andavano cercando un nuovo linguaggio che fosse definitivamente “popolare”, e che rispondesse da un lato alla necessità linguistica di un lavoro decisamente estraneo alle tradizioni artistiche troppo “compromesse”, dall’altro alla nuova consapevolezza da parte di un pubblico che poteva addirittura essere pensato in termini di “popolo”. La tesi proposta dalla rassegna parte allora dall’osservazione storica di quel periodo - in ambito italiano, che comunque allora era in prima linea su queste questioni -, per cui gli esperimenti linguistici volti alla creazione di linguaggi più facilmente comprensibili, pervasivi potevano prendere strade anche diversissime, addirittura in pieno contrasto tra loro, così come si assisteva a continui conflitti ideologici all’interno degli stessi schieramenti, su come si dovesse assecondare e dirigere il giusto risentimento delle masse oppresse.
Come ovvia premessa, si deve sempre ricordare che un artista, per quanto desideroso di rispondere allo spirito rivoluzionario “di massa”, non abdica mai alla propria individualità, che si trasferisce generalmente nel linguaggio e nello stile, ma tendenzialmente la storia di quegli anni ha fatto individuare due sostanziali “mainstream” linguistici, in cui uno dei fini era proprio quello di aprire l’arte a un nuovo rapporto con la società, quella società che prima di diventare rivoluzionaria era certamente “ribelle”. Il primo filone utilizza la pittura, seguendo stilemi che si potrebbero definire pop, ma con soggetti dichiaratamente politici, didascalici e quasi propagandistici. A vario titolo appartengono a questa compagine i milanesi Paolo Baratella, Fernando De Filippi, Umberto Mariani, Giangiacomo Spadari (quasi un vero e proprio gruppo), che declinano i loro temi politici con l’uso di colori industriali e di immagini direttamente mutuate dall’elaborazione fotografica, e i pop romani come Franco Angeli e Mario Schifano, che utilizzano la loro cifra stilistica inconfondibile su qualsiasi soggetto, e quindi anche sul soggetto politico, indice dei tempi. A parte lo statuto e l’indole “da pittori” che caratterizza tutti questi protagonisti, l’uso della pittura - che di fatto è il mezzo più tradizionale a disposizione dell’artista - si giustifica in ambito di rivoluzioni linguistiche col fatto che si tratta comunque del medium più conosciuto a livello popolare, e che quindi si attaglia e viene più facilmente recepito dalle masse: annosa questione, già vagliata durante gli anni Trenta e negli anni Cinquanta, soprattutto in Italia, con la polemica tra astrazione e figurazione, ma per nulla risolta.


Franco Mazzucchelli, Gonfiabili all'Alfaromeo, Milano, 13 febbraio 1971.

Fernando De Filippi, Sostituzione (1974).

Nanni Balestrini, Cit-azioni (1969).


Matteo Guarnaccia, Succhiando il cervello senza sputare nulla poi e senza smettere di parlare (1969-1970).


Giangiacomo Spadari, Costruttori con bandiera rossa (1971).

Il secondo filone si potrebbe invece definire “concettuale” e comportamentale, perché la parola e l’analisi giocano un ruolo fondamentale nell’invenzione di un linguaggio nuovo per la nuova società. Tra gli artisti maggiormente impegnati in questo senso - linguistico e politico - si possono annoverare Vincenzo Agnetti, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Emilio Isgrò, Ugo La Pietra, Fabio Mauri, Franco Mazzucchelli, Gianni Pettena, Gianni Emilio Simonetti, Franco Vaccari. In questo caso, il “ventaglio” di possibilità d’intervento artistico va dalla partecipazione ad azioni liberatorie, magari nei luoghi di lavoro, alle definizioni linguistiche che spingono alla presa di coscienza sociale, alla coscienza di sé come essere umano inserito nella storia, come quando Vaccari alla Biennale di Venezia del 1972 installa una cabina per fototessera invitando il pubblico a scattarsi una serie di foto e a metterle a disposizione degli altri spettatori, o quando La Pietra indaga sul “monumentalismo” come luogo che schiaccia il luogo dell’abitare vero e proprio.

Declinare i temi politici con l’uso di colori industriali
e di immagini mutuate dall’elaborazione fotografica


Ma esiste un terzo filone espressivo, scarsamente indagato nella storia dell’arte perché considerato extradisciplinare, ed è quello delle “fanzine”, giornali autogestiti illustrati, della voglia di esprimersi secondo modelli non mutuati dalla cultura “alta”, ma scaturiti dal basso e messi a disposizione di tutti. Gli anni Settanta sono pieni di questi esempi - da “Re nudo” al raffinatissimo “Pianeta fresco” di Ettore Sottsass - che, coincidenti con l’età d’oro del fumetto europeo e italiano, hanno costruito un linguaggio - o almeno un “repertorio” immaginativo - di ascendenza psichedelica, più legato al versante anarchico e hippy che non a quello di stretta osservanza marxista. Il successo strepitoso di questo modello - rappresentato in mostra dai lavori di Matteo Guarnaccia e dalle riviste di quegli anni - non ha nulla a che vedere con le dispute artistiche e con la storia dell’arte contemporanea: semplicemente chi lo viveva e lo faceva non era interessato all’arte, e neppure al cinema (terreno invece comune ai due “filoni” individuati sopra), ma semmai alla musica, come a un gigantesco happening continuamente rinnovato, una sorta di “rivoluzione permanente” senza spargimento di sangue. Su questo, bisogna ancora indagare.

Paolo Baratella, L'Internazionale (1986).


Paolo Baratella, Come se mi alzassi e prendessi coscienza (1970-1971), particolare.

ART E DOSSIER N. 348
ART E DOSSIER N. 348
Novembre 2017
In questo numero: PICASSO E TOULOUSE-LAUTREC tra Madrid e Milano. VISIONE E INGANNO Escher e Cartier-Bresson. IN MOSTRA: Arte ribelle a Milano, De Stijl, Dutch Design e Dutch Masters in Olanda, Cuno Amiet a Mendrisio, Peyton e Claudel a Roma, Van Gogh a Vicenza, Rinascimento giapponese a Firenze.Direttore: Philippe Daverio