IL PERIODO HEIAN(794-1185)

Nel 794 l’imperatore Kanmu (737-806) decise di spostare la capitale

per allontanarsi dalle comunità monastiche buddhiste diventate troppo potenti. La città, a circa quaranta chilometri da Nara, prese il nome di Heiankyō , “capitale della pace e della tranquillità”: è l’odierna Kyoto, che avrebbe ospitato la corte imperiale fino al 1868. 

Nell’ambito delle arti, la novità più rilevante dell’ VIII secolo fu l’arrivo dalla Cina di quegli insegnamenti buddhisti di tipo esoterico che traevano origine dal tantrismo indiano, grazie alle missioni che compirono sul continente i monaci Saichō (767-822) e Kūkai (774-835: nome postumo KōbōDaishi). I due fondarono importanti templi al di fuori della capitale, il primo l’Enryakuji sul monte Hiei, sede della setta Tendai, il secondo sul monte Koōya nei pressi di Osaka, quartier generale della setta Shingon. Il buddhismo esoterico (“mikkyō”) era una miscela di pratiche alchemiche, rituali magici e meditazione perlopiù incomprensibili ai semplici fedeli: le conoscenze che si trasmettevano tra maestri e discepoli all’interno dei templi avrebbero consentito di raggiungere l’Illuminazione nel corso della vita e non dopo la morte. Kūkai era fermamente convinto che l’arte fosse di grande aiuto per la comprensione di quel genere di buddhismo, nel cui pantheon trovava spazio una miriade di divinità minori, spesso caratterizzate da un aspetto terrifico allo scopo di proteggere la Legge dai demoni. Secondo le fonti, fu egli stesso artista, promuovendo la realizzazione di sculture e dipinti devozionali, tra i quali i “mandala”, diagrammi sacri che riproducono i diversi cosmi buddhisti.


Jōchō, Buddha Amida (1053), particolare; Uji, Byōdōin, sala della Fenice. Questa icona esemplifica lo stile della scultura buddhista di epoca Heian. Il suo sguardo serafico aveva la forza di ridurre la distanza tra la divinità e il fedele.


Taizo ‐ kai mandala (VIII-IX secolo); Kyoto, Kyōōgokokuji. I mandala sono strumenti liturgici essenziali del buddhismo esoterico. Al centro è raffigurato il Buddha Dainichi, e tutt’intorno una miriade di divinità di dimensioni man mano più piccole.

Nell’894 l’imperatore interruppe l’invio di delegazioni ufficiali in Cina. Dopo oltre tre secoli di fruttuosi rapporti, il Giappone decise di potercela fare autonomamente, complice anche il declino in cui si trovava la dinastia Tang. La scelta ebbe conseguenze notevoli in tutti gli ambiti della cultura, ispirando la nascita di un’estetica più libera da condizionamenti esterni e più affine al gusto indigeno. La monumentalità tipicamente cinese lasciò il posto a una maggiore intimità nella strutturazione degli spazi architettonici. La multiforme natura dell’arcipelago, i suoi dolci paesaggi collinari e la varietà della sua vegetazione, offrirono lo spunto per una pittura che fu consapevolmente definita “Yamato-e”, “pittura del regno di Yamato” (ovvero giapponese), in opposizione alla “Kara-e” (“pittura cinese”). Al bronzo e alla ceramica, prediletti fino ad allora, per la scultura si sostituì il legno locale, e nuove tecniche furono sperimentate, come l’uso di assemblare diversi blocchi per un’unica statua (“yosegi zukuri”), pratica che - oltre a permettere maggiori libertà compositive - stimolò la nascita di botteghe in cui il maestro sovraintendeva il lavoro svolto da diversi discepoli contemporaneamente. Le arti, dalla ceramica alla laccatura, dai tessuti alla lavorazione dei metalli, beneficiarono tutte di questa inedita fioritura culturale, rendendo il periodo Heian uno dei più fulgidi dell’intera storia giapponese.


Sala della Fenice (1053); Uji, Byōdōin. Prima di essere trasformata in tempio, la sala della Fenice era residenza privata dei Fujiwara. Le sue strutture leggere si inseriscono placidamente nel contesto naturale.

Il momento di maggiore splendore si situa tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, durante il quale si assistette all’ascesa della famiglia Fujiwara, a quel tempo guidata da Michinaga (966-1027). La corte di Kyoto era un ambiente pervaso da eleganza e raffinatezza. Per il ristretto numero di privilegiati che l’animavano, la vita si svolgeva all’insegna della bellezza, quasi vivessero in una sorta di paradiso. Il richiamo era alla Terra Pura, quel luogo di assoluta perfezione che il Buddha Amida assicurava ai fedeli di raggiungere dopo la morte, a patto che evocassero il suo nome mentre erano in vita. Questa nuova dottrina buddhista prese piede, soprattutto a corte, dopo che si era diffusa la convinzione che presto sarebbe arrivata un’epoca di dissoluzione e caos (“mappō”). Una serafica scultura di Amida in legno dorato è preservata nella sala della Fenice (Hōōdō) del tempio Byōdōin di Uji, non lontano da Kyoto. È opera dello scultore Jōchō che la realizzò intorno al 1053 su commissione di Fujiwara no Yorimichi (992-1074), figlio di Michinaga, il quale volle trasformare in santuario buddhista quel sito che il padre aveva acquisito per farne una villa. Il Byōdōin conserva molti tratti della sua originaria funzione residenziale, esemplificando i modi dell’architettura del periodo Heian. Nonostante mostri chiari influssi dello stile cinese, le proporzioni più intime richiamano l’estetica giapponese, così come la presenza di una passerella sopraelevata che corre lungo il perimetro esterno della sala della Fenice, posizionata al centro di un laghetto artificiale. La ricercata interazione tra spazi architettonici e la natura manipolata del giardino preannuncia quella che diverrà una delle più rinomate peculiarità della cultura giapponese. È in epoca Heian che nasce il concetto di “arte totale” così tipico della civiltà giapponese, secondo il quale ambiente naturale, contenitore architettonico, decorazione, oggetti e presenza umana formano un insieme ideale e omogeneo. Un’estetica che presuppone che non possa esistere alcuna gerarchia tra le arti, come invece accade in Europa con la reiterata nei secoli distinzione tra “arti maggiori” e “arti minori”.


Geniji monogatari emaki (inizio del XII secolo), La legge, particolare; Tokyo, Gotoh Museum. Il testo è tratto dal capitolo 40 del Genji monogatari, nel quale si narra del peggiorarsi delle condizioni di salute di Murasaki, una delle favorite di Genji, il Principe Splendente.


Jōchō, Buddha Amida (1053); Uji, Byōdōin, sala della Fenice.

L’introduzione dell’alfabeto sillabico “kana”, più idoneo a esprimere certe sottigliezze della lingua giapponese e meno complicato rispetto al sistema di scrittura cinese (usato per la stesura di documenti ufficiali, e quindi riservato all’élite culturale maschile), favorì la fioritura a corte di una letteratura al femminile. Sei Shōnagon, compilatrice del Makura no sōshi (“Note del guanciale”), e Murasaki Shikibu, autrice del Genji monogatari (“Il racconto del Principe Splendente”), prestarono servizio nell’entourage della famiglia imperiale. In pochi conoscevano le dinamiche della vita di corte come loro, e ciò si evince dai loro scritti, nei quali si racconta delle abitudini dei nobili contemporanei, del gusto sopraffine che scandiva ogni momento della loro giornata, dell’estrema bellezza di cui si circondavano, dei sentimenti che muovevano le loro azioni nella sfera pubblica come in quella privata, della consapevolezza infine che tutto ciò - come le stagioni dell’anno - era inevitabilmente destinato a mutare, un concetto quest’ultimo sintetizzato dalla definizione di “mono no aware”, traducibile all’incirca come “sensibilità delle cose”, vero e proprio leitmotiv della cultura di epoca Heian. 

Lo sviluppo di questa letteratura ebbe riflessi molto importanti anche nelle arti visive. Il Genji monogatari fu tradotto in pittura già all’inizio del XII secolo, rimanendo fino a oggi uno dei temi prediletti dagli artisti e dal pubblico. I rotoli orizzontali da svolgere (“emaki”) che lo illustrano sono il capolavoro della pittura di tema profano di epoca Heian. L’opera è concepita quale un alternarsi di immagini e testo scritto. La calligrafia “kana” del Genji monogatari emaki è così fluida e movimentata che i segni sembrano danzare sulla superficie decorata della carta, consentendo una soddisfazione estetica a prescindere dalla conoscenza della scrittura giapponese. Le illustrazioni - ambientate in spazi architettonici all’interno di un contesto naturale - sono rese in ampia policromia, distribuita all’interno di sottili contorni a inchiostro nero. Per permettere allo spettatore di osservare le scene di interni, gli edifici sono privi di tetti, sistemati lungo ardite diagonali prospettiche. La resa delle caratteristiche fisiche dei personaggi maschili e femminili - così come il repertorio gestuale - è ridotta al minimo, tanto che è molto difficile identificare di chi si tratti se non si contestualizza la raffigurazione, scelta che presupponeva una costante partecipazione dello spettatore allo svolgersi degli eventi. Al contrario, minuta è la descrizione degli abiti femminili, a quei tempi indossati fino a dodici strati sovrapposti. 

I rotoli del Genji monogatari sono allo stesso tempo origine e espressione più alta della “Yamato-e”, che ancora verso la fine del XII secolo produsse opere di grande intensità. Il formato del rotolo orizzontale si rivelerà congeniale per illustrare non solo temi letterari, ma anche religiosi, storici e satirici.


Geniji monogatari emaki (inizio del XII secolo), Il fiume dei bambù, particolare; Nagoya, Tokugawa Museum. La scena, tratta dal capitolo 44 del Racconto del principe Splendente, raffigura in basso a destra il giovane Kuro ‐ do no Shōshō che osserva non visto Himegimi, la dama di cui è innamorato, giocare a go ‐ con la sorella.

Il Chōjū giga (“Rappresentazioni satiriche di animali”) è una serie di “emaki” che ha per soggetto la raffigurazione di animali colti in atteggiamenti e azioni tipici degli esseri umani. Le scene sono pervase da quell’ironia che è un tratto distintivo della cultura giapponese, messa in evidenza anche in ambiti seriosi come può essere quello religioso. Dal punto di vista tecnico, questi rotoli sono pura espressione delle potenzialità del segno grafico. Gli elementi sono delineati a solo inchiostro, eppure le scene risultano perfettamente compiute. Non si tratta, tuttavia, di disegno quale noi l’intendiamo, poiché la cultura artistica estremo-orientale non prevede questa distinzione, facendo confluire calligrafia e pittura sia monocroma sia policroma in un’unica sfera, quella in cui strumento principe è il pennello. 

La laccatura fu tra le arti che raggiunsero vertici di sensibilità proprio durante il periodo Heian. Utilizzata in Giappone già da molti millenni, la lacca è una vernice che si ottiene dalla lavorazione di una resina estratta dalla pianta della “Rhus verniciflua”. Stesa su superfici di ogni tipo, tra cui il legno, le impermeabilizza e le leviga, oltre a costituire un supporto per la decorazione. A questi scopi era servita verso la metà del VII secolo per la realizzazione del cosiddetto Reliquario Tamamushi, conservato tra i tesori dell’Hōryūji, ma fu in epoca Heian che furono sperimentate tecniche rimaste in seguito tradizionali. 

La più diffusa, e preziosa, era quella della “pittura a oro cosparsa” (“maki-e”) e le sue innumerevoli varianti, in base alla quale il disegno si otteneva spargendo finissime polveri d’oro sulla superficie ancora umida della lacca nera, a volte arricchito dall’inserimento di scaglie di madreperla iridescente. La piccola Sala d’oro (Konjikidō) dedicata ad Amida nel tempio Chu‐ sonji di Hiraizumi, nella zona settentrionale dell’isola di Honshū, è il capolavoro dell’arte della lacca di questo periodo. Completata nel 1124 per volere di Kiyohira (1056-1128), membro di un ramo collaterale dei Fujiwara, che volle farne un mausoleo per i suoi più stretti familiari, è un tripudio di luminescenti stesure dorate e baluginanti inserti di madreperla, disposti sul nero della lacca, così lucido da riflettere come fosse uno specchio.


Sala d’oro (1124 circa); Hiraizumi, Chu-sonji.


Rappresentazioni satiriche di animali (XII secolo), particolare; Kyoto, Kōzanji.


Scatola per toletta (XII secolo); Tokyo, National Museum. Questa scatola è uno dei rari esemplari di lacca giapponese di epoca Heian giunti fino ai nostri tempi. Il motivo delle ruote che ondeggiano sulla superficie dell’acqua è una metafora della transitorietà della vita.

ARTE GIAPPONESE
ARTE GIAPPONESE
Francesco Morena
Più di duemila anni di civiltà, svoltasi perlopiù lontano dagli sguardi e dalla “contaminazione” occidentali, fra il IV secolo a.C. e l’età moderna, hanno plasmato una cultura artistica complessa e affascinante. Vasi in ceramica, utensili metallici, sculture e opere pittoriche, grandi templi e monasteri; la presa del potere da parte dei samurai, con la conseguente enfasi sui temi della guerra e della forza; l’arte della calligrafia e quella della pittura a inchiostro su carta; fino alla fioritura di Ukyo-e, alla rivelazione reciproca fra Oriente e Occidente nell’Ottocento quando tutto ciò che era giapponese divenne simbolo e modello di gusto per impressionisti e avanguardie.