Con quel Grande cavallo Marino avviava invece una nuova fase, nella quale la riflessione su Guernica di Picasso aveva arricchito l’antica iconografia di un deciso dinamismo, ora più scopertamente allusivo alle vicende della storia.
I Cavalieri che seguirono la mostra newyorchese del 1950, pericolosamente riversi quasi orizzontalmente sulla groppa della cavalcatura, o diagonalmente sbilanciati a moltiplicare le prospettive visuali come in un movimento rotatorio, consentiranno a Marino di verificare il quoziente di vitalità implicito nella rappresentazione congiunta dell’animale e della figura umana, fino alle opposte invenzioni dei Miracoli: il cavallo si abbatte a terra mentre il cavaliere si inarca indietro per contrastare la caduta, o, viceversa si impenna verso l’alto mentre il cavaliere precipita.
Sono questi gli anni, dal 1952 fino alla metà del decennio successivo, nei quali si fa più assiduo il legame con Henry Moore, conosciuto alla Biennale del 1948; dagli scambi con lo scultore britannico Marino dovette ricavare sollecitazioni in ordine al problema del ruolo attivo del vuoto nella scultura, da cui dipende la nuova grammatica dei Miracoli, nei quali lo spazio tra le zampe del cavallo acquista un valore costruttivo pari all’articolazione delle forme; mentre nei Guerrieri, di poco successivi, si avverte l’esempio delle maestose figure che Moore tagliava nella pietra, combinate con il recupero del vocabolario visivo picassiano degli anni Cinquanta.
Mentre si diffondevano i nuovi linguaggi dell’Informale, Marino rivendicava a sé, con i nomi di Moore e di Picasso, l’appartenenza alla più alta tradizione dell’arte moderna: negli incastri sofferti e nella materia sempre più tormentata dei Gridi e delle Composizioni di elementi, che conservano comunque la solidità dell’impianto architettonico, Marino dimostrava ancora una volta di non voler ripiegare su posizioni conquistate, ma di accettare una nuova sfida per la difesa, sempre più precaria, di una fiducia nella forma che l’incalzare delle sperimentazioni contemporanei sottoponeva a una erosione continua.
La validità delle proposte di Marino ricevette una conferma dalla scelta che due capitali europee fecero nel 1955 delle sue opere come monumenti pubblici: un Cavaliere folgorato fu collocato nel 1958 a Rotterdam in memoria delle vittime del nazismo, e l’anno seguente a L’Aja, sulla piazza di un nuovo quartiere in progettazione, venne inaugurato un Cavaliere: «duramente frantumato nei piani intersecantesi e nelle fenditure che lo solcano, e per questo carico di profonda forza emotiva»(41).
All’interpretazione formalistica che Lamberto Vitali aveva imposto fino dal 1945 si sostituisce ora una lettura in chiave esistenziale, tenace lascito dei linguaggi informali i cui ultimi rivoli lambiscono gli anni in cui già si affacciano i diversi interessi per una rinnovata figurazione, e che Marino in una intervista concessa a Roditi nel 1960 non si curerà di smentire: «I Cavalieri e il cavallo, nelle mie ultime opere, sono diventati strani fossili, simboli di un mondo scomparso, o, piuttosto, di un mondo che io credo sia destinato a scomparire per sempre»(42).
(41) R. Tassi, Nei cavalieri di Marino Marini l’Etruria ha incontrato la Cina, in “Settimo Giorno”, 16 febbraio 1962.
(42) E. Roditi, The sculptor speaks (2) – Marino Marini. Changing the horses, in “The Observer”, domenica 17 aprile 1960.
Barbara Cinelli
La presente pubblicazione è dedicata a Marino Marini (Pistoia, 1901 - Viareggio, 1980). In sommario: Gli esordi di un artista da riscoprire; L'architettura delle forme, l'alba dei Cavalieri, la conquista delle emozioni; Un nuovo Marino; Tra Italia e Stati Uniti; In dialogo con la contemporaneità; Marino ritrattista. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.