Ancor prima dell’apertura della Biennale era infatti giunto in Italia James Thrall Soby, responsabile del Dipartimento di pittura e scultura del Museum of Modern Art di New York, con Alfred Barr, direttore delle collezioni del museo. Lo scopo del viaggio, che si collocava nell’ambito dei ripristinati rapporti diplomatici tra Italia e Stati Uniti, era di condurre nelle gallerie pubbliche e private e presso i maggiori collezionisti un censimento delle opere d’arte moderna italiana, per organizzare la prima grande mostra americana dopo la caduta del fascismo, che potesse presentare al pubblico internazionale le forze positive di un paese, ora nuovo alleato. Nella primavera del 1948 Soby visitò lo studio di Marino e acquistò due Cavalieri: uno per la sua collezione personale, e lo presterà a Curt Valentin per una mostra alla Buchholz Gallery aperta nel settembre di quell’anno, che costituisce dunque il debutto di Marino in America; e un secondo per le collezioni del museo, dove verrà esposto a novembre, all’interno della mostra Acquisizioni recenti al Moma, accanto alle opere di Moore, Barbara Hepworth, Ben Nicholson.
In Italia, frattanto, la necessità di colmare il ritardo nei confronti della cultura europea soprattutto francese, e dei dibattiti sull’arte astratta avviati nell’immediato dopoguerra, determinò una forzatura nell’interpretazione delle più recenti opere di Marino, che d’altro canto il suo maggior interprete Lamberto Vitali classificava, confermando la lettura degli anni Trenta, come il felice artefice di una scultura liberata da elementi estranei, quali descrittività, compromissioni naturalistiche, recuperi accademici, e ricollocata sul piano che le appartiene: una «realizzazione architettonica di pure forme nello spazio»(32). Le Pomone, ma soprattutto i Cavalieri offrivano la più aggiornata risposta nazionale alle semplificazioni della scultura europea post-cubista, senza cedere alle sirene di una astrazione che avrebbe comunque contraddetto la vocazione tutta italiana a un’arte che poneva la propria centralità nella figura umana.
Ed è sul filo di una rigorosa morale laica, piuttosto che su una lettura dello stile che nel 1950 Argan colloca la «pura plastica» di Marino, «irriferibile alle categorie dello spazio, cui generalmente si riconducono ed in cui naturalisticamente si riconducono i fatti plastici: non è qualificabile secondo gli schemi della massa e del volume; non è sensibile al giuoco della luce e dell’atmosfera. In essa la forma è finalmente al sicuro da ogni evenienza emotiva»(33).
Ma negli Stati Uniti i Cavalieri di Marino erano inseriti in un ordine di riferimenti completamente diverso. Il comunicato stampa della mostra newyorchese del 1949 al Moma ricollegava quelle «strepitose sculture» alle recenti e tragiche vicende del conflitto mondiale, e le assimilava a testimonianze di realtà: «l’ispirazione è venuta all’artista vedendo i contadini dell’Italia settentrionale in fuga a cavallo sotto i bombardamenti, con il ventre rigonfio per l’inedia»(34). Marino sovrastava nettamente gli scultori presenti nelle sale del Moma, che pure testimoniavano la capacità italiana di riscoprire i valori plastici e di tradurli in termini contemporanei(35); così nulla di più prevedibile della personale a lui dedicata da Curt Valentin e inaugurata il 19 febbraio 1950, che lo impose come alternativa alle esasperazioni astratte della contemporanea scultura americana e nordeuropea. I riferimenti ai linguaggi più arcaici dell’Egitto e della Cina, che i critici avevano da tempo individuato nel linguaggio di Marino, e che erano interpretati in Italia come tramiti di una essenzialità architettonica, vennero negli Stati Uniti apprezzati perché moderavano le più radicali incursioni nell’astrazione delle forme(36).
Un ulteriore elemento giocò nella fortuna americana dell’artista. Sapientemente Curt Valentin aveva premesso al catalogo delle opere esposte alla Buchholz Gallery nel 1950 un montaggio di autodichiarazioni di poetica che Soby aveva raccolto durante le conversazioni con l’amico scultore. La genealogia che vi si scopriva, alle spalle dei Cavalieri e delle Pomone, era la più seducente per l’attrazione mai spenta degli anglosassoni verso la Toscana: Masaccio, Donatello, il romanico tra Lucca Pisa e Pistoia e sopra tutti Giovanni Pisano; l’ineliminabile fiducia nell’immagine dell’uomo, affermata in quelle sculture e che conveniva alla rinascita dopo l’apocalisse della guerra, era garantita dall’appartenenza del loro autore alla patria dell’umanesimo, una appartenenza che egli confermava con le sue orgogliose parole: «our landscape, our people, our tradition - they are all solid, definitive, decisive, close to the earth», e con la dichiarazione dei propri obiettivi:
«I should like to defend for humanity its form»(37). Così alle sculture degli espressionisti astratti potevano venire opposte le opere di Marino, che costituivano un argine a difesa del “nuovo umanesimo” e che ponevano lo scultore italiano sullo stesso piano di Brancusi: «If Marini is to indicate the way to a renascent humanism, he will return to a tradition cleared of its overgrowth of degenerate form and banality by the pioneers like Brancusi, who found in abstraction and primitivism sharp instruments for the attack on what was the academic dead wood of the time»(38).
Dopo i successi statunitensi, Marino rappresentava una gloria da rivendicare all’Italia; nel dicembre del 1951, quasi temendo un diniego da chi ormai gravitava in orizzonti più prestigiosi, a ben guardare, di una Biennale veneziana, Apollonio rivolgerà allo scultore un caloroso invito: «Tu non ami scrivere e quasi nemmeno aprire le lettere, ma spero molto di avere da te una risposta che mi tranquillizzi. Vedi dunque di regolare i tuoi impegni in modo da non mancare. Penso che questa volta valga la pena di essere presente»(39).
Ma l’avventura veneziana, invece di rappresentare il riconoscimento definitivo dello scultore, fu occasione di un imbarazzante episodio che dovette segnare, negli anni a venire, il suo distacco dalle esposizioni italiane: la giunta comunale di Milano non ratificò l’acquisto del Grande cavallo, che per la scarna essenzialità e i volumi quasi risucchiati venne inteso dalla critica poco avveduta come pericoloso abbandono, da parte di uno scultore “classico”, della figuratività tradizionale, per allinearsi alle bizzarre sperimentazioni dei nuovi scultori, stranieri come Armitage e Richier, o italiani come Consagra, Viani e Lardera(40).