L’ARCHITETTURA DELLE FORME,L’ALBA DEI CAVALIERI,
LA CONQUISTA DELLE EMOZIONI

Il quarto decennio del Novecento si apre per Marino su nuovi orizzonti, geografici e culturali. Si trasferirà a Milano nel 1930,

chiamato da Arturo Martini alla Scuola di Monza; nel 1930 e nel 1931 soggiornerà a Parigi; conoscerà infine l’ambiente romano, grazie alla fortunata partecipazione alla Quadriennale del 1931 e a una mostra l’anno seguente alla Galleria Sabatello. 

Le opere eseguite tra il 1932 e il 1934 costituiscono il risultato di questi nuovi stimoli e segnano un punto di svolta nella elaborazione di un linguaggio che si avvia alla maturità. L’attività didattica a Monza sollecitò Marino a sperimentare nuove tecniche e nuovi materiali, tra cui il legno, nel quale tagliò Nuotatore e Pugile, rispettivamente nel 1932 e nel 1935. Questa scelta d’altro canto ben si prestava a rappresentare la struttura dei corpi attraverso piani che si intersecano, in una modellazione aspra e tagliente come nel Nuotatore, o attraverso un netto bilanciamento di orizzontale e verticali, come nel Pugile. La svolta decisiva verso questa architettura di forme che potesse oltrepassare un semplice naturalismo e attingere a una trasfigurazione della realtà era venuta a Marino dalla visione della scultura egizia al Louvre, che per la sua monumentalità aveva riorientato entro confini di severa sintesi la giovanile attenzione per l’arcaismo etrusco(7)

Con queste due opere Marino si inseriva poi di diritto in uno dei temi cruciali del dibattito della scultura degli anni Trenta: affrontava infatti la rappresentazione del nudo maschile, ritenuto il testo canonico per provare la capacità di modellazione plastica, nella quale Arturo Martini si era cimentato con il Tobiolo, quasi per sfida contro quei critici che apprezzavano la sua felicità di immaginazione, ma esitavano a riconoscergli una matura attitudine per una scultura di pure forme(8)

La convinzione che la corretta rappresentazione del corpo maschile coincidesse con l’eccellenza del linguaggio scultoreo era avvalorata anche dagli studi degli storici dell’arte antica: una notevole diffusione tra gli artisti ebbe per esempio il Nudo nell’arte dell’archeologo Alessandro della Seta, pubblicato nel 1930, con un ampio apparato iconografico che offriva la possibilità di riflettere sulla modellazione delle superfici e sullo sviluppo dei profili.


Nuotatore (1932), legno scolpito e intagliato; Firenze, Museo Marino Marini.

(7) Tra i primi critici a sottolineare il ruolo della visita al Louvre è L.Vitali, Marino Marini, Milano 1937.
(8) Una analisi approfondita è in F. Fergonzi, I nudi maschili, in Marino Marini. Passioni visive, catalogo della mostra (Pistoia Palazzo Fabroni, 16 settembre 2017 - 7 gennaio 2018; Venezia, Peggy Guggenheim Collection, 27 gennaio - 1° maggio 2018), a cura di B. Cinelli, F. Fergonzi, Cinisello Balsamo (Milano) 2017.

Pugile (1935), legno; Parigi, Musée National d’Art Moderne - Centre Georges Pompidou.


Arte egizia, Scriba seduto (Antico regno); Parigi, Musée du Louvre.


Arturo Martini, Tobiolo (1934 circa), bronzo.

Ma a fronte di quei bronzi e marmi antichi Marino dichiarava ancora una volta la propria autonomia, perché realizzava i suoi nudi in legno, un materiale giudicato non appropriato a una iconografia classica e aulica come appunto il nudo maschile. Anche il riferimento allo sport, un tema celebrato negli anni del fascismo come metafora di salute morale e fisica, pur esplicito nei titoli, si qualifica per una sottile ambiguità: i due atleti non vengono colti nel momento della gara o della vittoria, al pari di molti altri che affolleranno esposizioni e stadi, ma nella concentrazione o addirittura nell’abbandono. 

In legno è tagliato anche l’Icaro che condivide con il Nuotatore e con il Pugile la modellazione secca, la vitalità compressa, e la volontaria rinuncia, come già accaduto per quelle opere, a ogni elemento di narrazione o di contenuto, in un contrasto intenzionale col titolo, quasi a sottolineare la «perfetta allucinazione» cui Marino intende giungere: 

«Considero profondamente artistica soltanto l’opera che, pur attingendo alle fonti della natura, sa astrarsene e superarle», scriveva nell’Autopresentazione per la Quadriennale del 1935, dove era esposto proprio l’Icaro; «L’arte è perfetta allucinazione; in tal modo le verità della natura si trasformano»(9)

A quella esposizione Marino partecipava con sei sculture riunite in una sala personale che gli valsero il primo premio. Egli conquistava così definitivamente un ruolo da protagonista nella contemporanea scena dell’arte italiana: le sue opere, tra cui il Nuotatore e l’Icaro, corrispondevano alle aspettative della critica e del pubblico, per il sapiente bilanciamento di saldezza formale e allusioni naturalistiche, nel quale una raffinata cultura visiva non decadeva in sterile stilismo, ma si componeva in una lingua originale(10).


Icaro (1933), legno.


Cavallo e cavaliere (1936), legno policromo; Città del Vaticano, Musei vaticani, Collezione d’arte contemporanea.

(9) M. Marini, Autopresentazione, in La II Quadriennale d’Arte Italiana, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle esposizioni, 5 febbraio - 31 luglio 1935), Roma 1935.
(10) Tra le numerose recensioni si veda F. Callari, II Quadriennale d’Arte Nazionale. Studio critico, Roma 1935; e più specificatamente su Marino: R. Melli, Visite ad artisti. Marino Marini, in “Quadrivio”, 7 aprile 1935.

Alla Biennale veneziana del 1936, accanto ai ritratti che confermavano quella via espressiva, l’arcana immobilità del Cavallo e cavaliere apparve una pericolosa involuzione in cerebrali e forzate astrazioni, mentre Marino aveva in realtà coerentemente proseguito la sua strada, che partiva da una attenta riflessione sulla scultura egizia(11)

La descrizione sommaria delle forme e delle fisionomie di quelle opere, non solo restava entro limiti di semplificazione, ma si accompagnava a una fissità che proponeva un inedito rapporto con lo spazio, quasi che quelle figure si chiudessero a ogni possibile interferenza con la contingenza della percezione: per quella via era possibile costruire una scultura che poteva salvare la figura, perché la chiudeva entro ritmi impassibili. Marino avrebbe in seguito sostenuto che per il gruppo della Biennale del 1936 era rimasto molto impressionato dal Cavaliere di Bamberga, veduto durante un viaggio in Germania del 1934(12), che certo poté suggerirgli di estendere alla coppia uomo/cavallo la riflessione sul «moto immobile»(13) della scultura egizia veduta al Louvre, e spingersi in una sperimentazione ancora più estrema: come in un gioco combinatorio, il Pugile di terracotta del 1933, esemplato sulle figure sedute di dignitari e sovrani egiziani, si posava sulla cavalcatura, tradizionale emblema del movimento, ora bloccata in un perfetto equilibrio di profili continui. Per l’ovale sintetico della testa del Cavaliere Marino aveva guardato il volto del Sindaco del villaggio, la celebre statuetta del museo del Cairo; e il cavallo risultava, come noterà nel 1937 Lamberto Vitali, da «un curioso incrocio tra i cavallini T’ang, quelli del Museo dell’Acropoli, e quelli di Montelupo»(14). A questi riferimenti colti e raffinati si deve aggiungere un ulteriore rimando significativo, giustificato, a quella data 1935, dalla fortuna ormai consolidata tra gli artisti della monografia longhiana su Piero della Francesca, diffusa soprattutto in ambito romano, e che Marino ebbe occasione di conoscere proprio durante il soggiorno in quella città per la Quadriennale.


Giocoliere (1933), terracotta.


Arte egizia, Statua di faraone (Medio regno); Firenze, Museo archeologico nazionale.

(11) G. Marchiori, La Biennale veneziana, in “Emporium”, LXXXIV, 501, n. 9, settembre 1936.
(12) L’episodio è ampiamente riportato da M. Marini, Con Marino, Milano 1991, p. 93.
(13) La definizione è in L. Vitali, op. cit.
(14) Ivi.

Piero della Francesca, La vittoria di Costantino su Massenzio (1452-1466), dal ciclo delle Storie della vera croce, particolare; Arezzo, San Francesco.


Gentiluomo a cavallo (1937), bronzo; Roma, Palazzo Montecitorio, Camera dei deputati.

Lo «sposato riposo» e la «perfezione proporzionata degli spazi» che accoglievano l’«umanità di prima covata» di Piero, rese quasi tangibili da un apparato iconografico insuperabile per eloquenza visiva, dovettero entrare in virtuoso colloquio con le suggestioni della scultura arcaica: come i cavalli di Piero, anche il cavallo di Marino pare voler proporre, più che l’energia, «la proporzionata nobiltà delle membra», e «su codesta nobilissima progenie animale s’incastella quasi inumano e pur civilissimo»(15) il cavaliere, che solo l’inconsistenza critica di Ugo Ojetti poté definire «mammalucco equestre». 

Nel breve volgere di un biennio Marino sviluppò l’iconografia del cavaliere nel Gentiluomo a cavallo del 1937 e nel Pellegrino del 1939. Lo schema sotteso a quel primo gruppo del 1936 non era da intendersi come un traguardo ma piuttosto come dichiarazione di partenza: la giustapposizione sospesa tra il cavaliere e la sua cavalcatura si allentava di poco nel garbo del Gentiluomo che pare volgersi stupito verso il mondo, per risolversi poi nell’innesto compiuto del Pellegrino, in una straordinaria armonia di profili, suggestiva di un passo appena iniziato. Spirito geometrico e pathos immaginativo: Marino stesso, nel 1938, suggeriva questo apparentemente inconciliabile abbinamento per intendere la sua opera, con la quale puntava a ottenere un «silenzioso stupore, che può soltanto manifestarsi per forme chiuse ed ermetiche, rinnovamento di un mito che ha tanti anni quanti il mondo, a cui l’uomo ritorna come qualcosa di essenziale e fatale»(16).


Il pellegrino (San Giacomo) (1939), gesso. L’opera fu esposta in gesso da Marino nel 1939 alla mostra personale presso la Galleria milanese di Vittorio Barbaroux, e la fusione in bronzo fu acquistata da Emilio Jesi, il collezionista più attento e affettuoso dello scultore. Il pellegrino fu particolarmente apprezzato da de Pisis che lo incluse nell’apparato illustrativo della monografia dedicata all’amico nel 1941: «Una pura grazia ellenica è infusa in questo cavallino nervoso e patetico insieme, in questo giovane eroe solo vestito della sua purezza».

(15) R. Longhi, Piero della Francesca, Roma 1927; le citazioni sono tratte da R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, Milano 1973, pp. 371-372, 403; per la citazione di U. Ojetti si veda La XX Biennale veneziana. Scultori nostri, in “Corriere della Sera”, 5 luglio 1936.
(16) M. Marini, Spiegazioni, in “L’Ambrosiano”, 25 maggio 1938.

Se nel 1938 Marino meritava l’attenzione dei giovani raccolti attorno alla rivista “Corrente”, che nelle sue opere recenti tra le quali il Gentiluomo e il Pellegrino riconoscevano l’approdo a una «plastica esatta, eppure nascostamente vibrante», in accordo al rigore morale necessario all’esperienza estetica(17), l’intervista che l’anno seguente lo scultore rilasciava al settimanale “Tempo” conferma che l’artista stesso intendeva correggere una lettura sbilanciata sul versante di un puro e astratto formalismo: «Questa ricerca dei volumi non è il solo scopo dello scultore il quale non deve mai dimenticare che ciò che commuove di più in una scultura è sempre la sua poesia»; «un bronzo», concludeva, «bisogna saperlo carezzare amorosamente, come una bambola. L’arte è un giuoco»(18). E significativamente sono anni nei quali Marino sceglie di intervenire personalmente in occasione delle proprie esposizioni, per porre l’accento su una ineffabilità connaturata al proprio fare artistico, che egli definisce «argomento di commozione, dalle origini e dai confini fiabeschi e misteriosi»(19). Così nelle opere eseguite tra il 1939 e il 1942 l’architettura di forme che lo aveva imposto pochi anni prima come l’artista “cerebrale” e dominatore delle emozioni si arricchisce di nuova libertà e i volumi si animano di una palpitante sensibilità nelle superfici. 

Alla Quadriennale del 1939 Marino espose alcuni ritratti e, a esemplare dimostrazione di questa sua nuova stagione, un’unica figura, la Giovinetta, che la critica unanime giudicò un capolavoro: senza nulla cedere alla solidità della costruzione architettonica conquistata negli anni precedenti, masse e profili dialogavano ora con una trama ferma eppure naturalmente libera, e la tormentata superficie del gesso incisa di scalfitture non solo rimandava ai possibili valori cromatici della scultura, ma alludeva alle tracce di una esistenza che caricava di sensualità l’immagine della Giovinetta(20)

Appare significativo, per le nuove tendenze della scultura alla fine degli anni Trenta, che a quella Quadriennale si imponesse il Davide di Giacomo Manzù, un eroe fanciullo lontano da ogni sospetto di retorica, distante dalle intenzioni costruttive comunque sottese alla modellazione di Marino, ma esemplare, come la seducente Giovinetta, di una scultura interessata a comunicare sottili emozioni.


Giacomo Manzù, David (1938), bronzo.

(17) D. Morosini, Sculture di Marino Marini, in “Corrente”, 20, 15 dicembre 1938, p. 5.
(18) M. Marini, Le mie sculture, in “Tempo”, 14 dicembre 1939.
(19) Mario Mafai Marino Marini, catalogo della mostra (Genova, Galleria Genova, 15-29 marzo 1941), Genova 1941.
(20) G. Russo, I nudi femminili e le Pomone, in Marino Marini. Passioni visive, catalogo della mostra, cit.

Giovinetta (1938), bronzo; Pistoia, Fondazione Marino Marini.


Pomona (1941), bronzo; Milano, Museo del Novecento.


Giocoliere (1939), gesso policromo; Milano, Museo del Novecento.

Seguirono poi, fino al 1945, le Pomone, attraverso le quali lo scultore sondava le infinite possibilità di un variato sviluppo di linee e dell’animazione luminosa della materia, in un mobile equilibrio tra seduzioni contemporanee della femminilità e riferimenti alla tradizione classica. 

Una nuova significativa iconografia si affacciava intanto all’immaginario mariniano con la figura del giocoliere, costantemente teso, come l’artista, alla perfezione del gesto, come lui costantemente in bilico tra sfide e sconfitte. Il Giocoliere del 1939 sviluppa l’allungamento dell’Icaro ma ne contraddice la simmetria per l’amputazione del braccio destro, mentre il gesto di ripiegare il sinistro sul volto immette nell’immagine una notazione di sottile psicologia; in accordo a questa nuova condizione espressiva le scabre e semplificate superfici del legno di Icaro si convertono in trapassi sensibili esaltati dalla policromia del gesso, come già era avvenuto con la Giovinetta

Sono, questi, anni di intensa sperimentazione per Marino, che riflette sulla libertà della messa in posa delle figure e sulla dinamica delle combinazioni anatomiche, attraverso le quali ogni figura determina il proprio spazio, in una espansione ogni volta differente, che esclude gli opposti rischi di una costrizione o di una indeterminatezza. 

Egli dovette riflettere, in questa linea di pensiero, su uno dei padri della scultura moderna, Auguste Rodin, del quale recuperava, oltre la vulgata di un contenutismo simbolista, il puro problema plastico di una scultura come linguaggio delle forme. Ne costituiscono un esempio significativo due Giocolieri del 1940, uno dei quali, acefalo, riposiziona in questa nuova fase il tema del frammento, già presente nella fase arcaica degli anni Trenta, e che ora appare libero da ogni stereotipato stilismo, proprio per il meditato rapporto con il grande scultore francese. 

L’interprete più intelligente delle opere di Marino in questa fase sarà Giulio Carlo Argan, che nel 1942 pubblicava un breve, ma intenso articolo sulla rivista “Beltempo”, nel quale chiariva che peculiare alla scultura di Marino era il rapporto tra le forme e l’ambiente nel quale esse venivano poste; questo lo salvava tanto dalle sterili secche di una astrazione che avrebbe significato porsi fuori dalla storia, quanto dall’abusata concretezza di un verismo esasperato, e gli consentiva la libertà di una «fantasia estrosa e discorsiva»; così, il nucleo originario dell’invenzione formale poteva espandersi con ritmi di volta in volta differenti, e trovare un equilibrio tra definizione volumetrica e superfici rese fluide da modulazioni energiche e al tempo stesso sensibilissime(21).


Giocoliere (1940), bronzo; Firenze, Museo Marino Marini.


Auguste Rodin, Torso femminile seduto (1895), bronzo; Parigi, Musée Rodin.


Auguste Rodin, Il giocoliere (1892-1895 circa), bronzo; Parigi, Musée Rodin.


Giocoliere (1940), bronzo; Pistoia, Fondazione Marino Marini.

(21) G. C. Argan, Manzù. Marino Marini, in “Beltempo”, III, 1942, ora in G. C. Argan, Promozione delle arti, critica delle forme, tutela delle opere. Scritti militanti e rari 1930- 1942, a cura di C. Gamba, Milano 2009, pp. 175 -177.

MARINO MARINI
MARINO MARINI
Barbara Cinelli
La presente pubblicazione è dedicata a Marino Marini (Pistoia, 1901 - Viareggio, 1980). In sommario: Gli esordi di un artista da riscoprire; L'architettura delle forme, l'alba dei Cavalieri, la conquista delle emozioni; Un nuovo Marino; Tra Italia e Stati Uniti; In dialogo con la contemporaneità; Marino ritrattista. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.