Dentro l'opera


L’IMMAGINE COME MATERIA,
IL FILM COME SCULTURA,
IL TEMPO COME OGGETTO

di Cristina Baldacci

Un primo piano sulle opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Rosa Barba, Boundaries of Consumption

Rosa Barba (Agrigento, 1972) è un’artista che lavora con il linguaggio filmico come fosse una scultrice. Nelle sue opere il film assume una doppia valenza: è la pellicola in senso stretto ma anche il lavoro cinematografico. Nel primo caso, l’artista lo usa come materia scultorea, inserendolo in installazioni simili a oggetti cinetici; nel secondo, produce corto o lungo metraggi, dove immagini e suoni si contendono il ruolo di protagonisti, sospesi tra realtà e finzione, mito e quotidianità, temporalità e atemporalità.

Boundaries of Consumption appartiene al primo gruppo di lavori e, come altre installazioni affini, sebbene assemblate ogni volta in modo diverso, presenta i vari elementi che compongono l’apparato per la riproduzione delle immagini: la pellicola, insieme alle scatole in cui sono di solito conservate le bobine; il proiettore, sempre vintage; il suono, che è il brusio, spesso assordante, dell’apparecchio in azione; la luce, che in questo caso, invece di riprodurre immagini, incornicia la superficie di proiezione sulla parete. L’installazione è completata da due piccole sfere metalliche poste sulla pila di scatole, il cui equilibrio è reso precario dalla pellicola che le attraversa. Ed è proprio lo scorrere della pellicola che genera lo spostamento continuo delle sfere e un gioco di luce e ombre sulla parete. Questo lavoro contiene e insieme mostra tutto ciò di cui è fatto il cinema, non solo dal punto di vista concreto (il supporto tecnico), ma anche concettuale. È infatti immagine - il fascio di luce bianca o leggermente colorata animato dalle ombre delle sfere - e insieme movimento, creato dall’interazione, che è anche un atto performativo, tra la pellicola e le sfere.

Come indica il titolo, che tradotto letteralmente significa “limiti di consumo”, si tratta di un’opera tautologica, perché ci parla prima di tutto di sé. Rosa Barba dà voce al cinema, sia come oggetto quasi feticistico, sia come linguaggio e pratica, svelandone il funzionamento e anche la fragilità mediale. Questo aspetto è rafforzato dall’assenza di immagini filmiche: la pellicola è infatti priva di impressioni. Eppure l’immagine, per quanto bianca (il fascio di luce), è ugualmente presente e, in questo caso, in un certo senso aumentata dalle ombre delle sfere. Così come nelle sue altre installazioni scultoree, Rosa Barba mette in scena il cinema, compone una coreografia con i suoi stessi elementi primari e, nello stesso tempo, crea una serie di relazioni tra aspetti antitetici, ma qui complementari, come forma e contenuto, presenza e assenza, materialità e astrazione, pieno e vuoto, staticità e movimento, luce e ombra. Il proiettore cinematografico diventa allora quasi «un essere vivente»(1) che nel suo procedere ingloba lo spettatore. Invece di essere soltanto il destinatario delle immagini, lo spettatore si trasforma in un elemento tra gli elementi, specialmente nello spazio fisico, più che in quello metaforico o percettivo.

Il cinema è così scomposto in tutte le sue parti, dietro, davanti e dentro la macchina da proiezione e riabilitato come medium contemporaneo sotto forma di un “balletto meccanico”, per riprendere un’espressione cara sia a Fernand Léger e all’avanguardia cubista, sia ai critici che hanno commentato il lavoro dell’artista. Assume inoltre un carattere performativo, che si riferisce sia alla resa del medium, così come all’esperienza dello spettatore.


Rosa Barba ha scelto il film come dispositivo visivo del XX-XXI secolo, anche se con tutta l’incertezza postmoderna nei confronti dell’immagine foto/cinematografica come documento. Per questo il suo lavoro, scultoreo e filmico, si pone sempre al limite tra realtà e finzione, in quello spazio di confine o sutura dove si libera il pensiero. Questo spazio è ben rappresentato da quell’immagine bianca che per l’artista non è sinonimo di vuoto o assenza, ma piuttosto del suo contrario. Come lei stessa ha affermato, il bianco è un momento di «resettaggio»; l’immagine bianca è un intervallo di tempo e di spazio che segna un passaggio da un pensiero, un capitolo, un ritmo a un altro(2).

Ecco allora che nel suo lavoro si definiscono, da un lato, la dimensione spaziale, come studio e allestimento scenico dei meccanismi della narrazione cinematografica; dall’altro la dimensione temporale, come possibilità di costruzione dell’identità e dell’attività umana. Ma il tempo per Rosa Barba ha anche una estensione fluida, sospesa tra passato (presente) e futuro; è un tempo immaginato che accoglie anacronismi. Per questo l’artista sente l’urgenza di registrare oggetti, persone, paesaggi sul punto di sparire dalla terra, dalla storia, dalla nostra vista, come in un grande archivio del tempo.

(1) I. White, Un’idea a tre dimensioni, in Rosa Barba: White Is an Image, Ostfildern (Germania) 2011, p. 257.

(2) Cfr. l’intervista con Gil Leung dal titolo White Is an Image (2010) riportata sul sito dell’artista: http://rosabarba. com/articles.php?piece=A1

ART E DOSSIER N. 346
ART E DOSSIER N. 346
Settembre 2017
In questo numero: GRAFICA ITALIANA La collezione Salce di Treviso; Lanerossi 1817-2017. NUOVI MUSEI Trieste: la fotografia; Messina: il Museo interdisciplinare. IN MOSTRA Intuition a Venezia, Ytalia a Firenze.Direttore: Philippe Daverio